Archivio mensile:Aprile 2016

I Mille e Novi

di FRANCESCO MELONE

Dell’epica impresa dei Mille, alla quale, come è noto, parteciparono anche volontari novesi, si vuole qui ricordarne l’antefatto  e le azioni che ne seguirono fino alla conquista di Palermo, quando si contarono più volontari tra le file dei garibaldini rispetto al numero col quale sono passati alla storia, e cioè nel periodo che comprende la parte forse più romantica, avventurosa ed entusiasmante di tutta l’impresa, con uomini animati dalla volontà di  contribuire alla  costruzione di un futuro migliore per sé e per gli altri.

È meno noto che l’attributo “I Mille” risale a qualche mese dopo l’imbarco da Quarto, precisamente ed ufficialmente al 24 ottobre 1860, allorquando si diede seguito alla delibera del Senato della Città di Palermo, datata 21 giugno 1860, che istituiva una medaglia d’argento per onorare i  volontari che avevano per primi messo piede in Sicilia: il relativo diploma inizia infatti con «A Voi (nome e cognome), uno dei 1000 prodi sbarcati con Garibaldi a Marsala…»

Nel marzo 1860 la penisola italiana è divisa in tre Stati: il Regno di Sardegna – comprendente il Piemonte con la valle d’Aosta, la Liguria, la Lombardia, l’Emilia e la Toscana – lo Stato Pontificio con Umbria, Marche e Lazio, ed il Regno delle Due Sicilie, con Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia. Fanno parte dell’Impero Austriaco Mantova, il Veneto, il Trentino, ed il Friuli.

Il Regno delle Due Sicilie, immutato da secoli nelle sue frontiere, è il più esteso degli Stati della Penisola e il più popoloso, con i suoi nove milioni di abitanti, ed i circa 500 mila cittadini di Napoli  costituiscono la più numerosa popolazione urbana d’Italia, superando torinesi e milanesi messi insieme. Ha  però altri miserevoli primati: quello della più diffusa povertà, dell’analfabetismo, del minor sviluppo industriale, della minore estensione stradale e ferroviaria e quindi ignoranza estrema delle classi popolari. Al ceto contadino abbruttito, alla misera e rassegnata borghesia, alla nobiltà parassitaria e animata da spirito feudale, si contrappone una classe intellettuale attiva e intelligente, ma il solco tra questa e la monarchia si è venuto da sessant’anni inesorabilmente approfondendosi.

È ancora vivo il ricordo di quei giorni del 1799, quando nella piazza del mercato di Napoli, gremita di plebaglia  plaudente, centoventi tra le più belle e alte figure della nobiltà e dell’intellettualità erano state sacrificate sul patibolo all’odio del re. Erano colpevoli di aver creduto negli ideali di eguaglianza, fratellanza e libertà ed avevano creato, sotto l’usbergo della Francia, la Repubblica Partenopea; per annientarli re Ferdinando II di Borbone aveva scatenato contro di loro quel popolo, che essi intendevano riscattare,  meritandosi poi, nel 1848, l’epiteto di “re Bomba”, dopo il bombardamento di Messina in rivolta e sotto assedio. È da questo momento che l’intelligenza e la coscienza del Mezzogiorno abbandonano i Sovrani, ma a costoro poco interessano gli intellettuali e si fidano molto di più dell’esercito e del clero, che controlla le plebi rurali.

Alla vigilia del suo crollo, lo Stato borbonico può contare su una forte flotta (22 navi a vapore, 10 a vela), su un esercito ben armato con circa 80 mila uomini e 5000 cavalli; i soldati sono abbastanza ben addestrati, sobri e resistenti, ma hanno in genere comandanti inadeguati e gli alti ufficiali sono ormai vecchi e rinunciatari. Nei quadri più giovani, e specie in quelli della Marina, sono diffuse le idee liberali, un certo patriottismo italiano e la consapevolezza, o almeno il dubbio, di servire un regime ormai decrepito. Infatti i Borboni si sono via via sempre più isolati dalla maggior parte degli Stati Europei. Re Ferdinando II muore nella primavera del 1859, proprio mentre si stava scatenando sull’Italia la bufera della guerra e delle rivoluzioni, lasciando il trono al figlio ventitreenne, Francesco II, sensibile, intelligente, ma debole, privo di fantasia, pieno di ripensamenti e che, non certo fatto per il potere, aveva osservato inerte gli avvenimenti che scuotevano la Penisola. Passerà alla storia con il nomignolo di “Francischiello”

Da Torino, nell’aprile 1860, re Vittorio Emanuele II gli scriveva, consigliandolo a concedere la Costituzione, a fare qualcosa, a uscire dall’isolamento, ad allearsi con lui, creando un’intesa fra Torino e Napoli, avviando eventualmente una federazione fra i due regni. A questa lettera Francesco non aveva risposto, probabilmente consigliato a ciò dalla moglie, la principessa bavarese Maria Sofia di Wittelsbach (sorella della celebre Sissi, imperatrice d’Austria), donna non brillante d’ingegno, ma energica, coraggiosa, testarda, la vera detentrice del potere.

Camillo Benso, conte di Cavour, primo ministro del Regno Sabaudo, dopo l’annessione della Lombardia, dell’Emilia e della Toscana, riteneva, almeno per il momento, esaurita la capacità espansiva del suo Governo. L’Italia meridionale è del tutto assente dai suoi pensieri, ma alcuni eventi lo costringono a rivedere i suoi propositi: oltre al riavvicinamento all’Austria del giovane nuovo re borbonico, in appoggio alle rivendicazioni di Papa Pio IX, del Granduca di Toscana e dei duchi di Modena e Parma, veniva segnalato il riacutizzarsi di fermenti liberali  soprattutto in Sicilia.

Infatti, mentre la classe popolare napoletana era largamente filoborbonica, una larga diffusione di idee liberali serpeggiava nella borghesia e in parte nell’esercito, mentre la più decisa ad opporsi era la fronda siciliana in chiave separatista antinapoletana, sopravvissuta alla feroce rappresaglia del 1848, condivisa anche dal ceto rurale. Tale opposizione si concretizza nell’aprile 1860 con l’insurrezione a Palermo, capitanata da Francesco Riso, subito però repressa in città, ma tenuta desta nelle campagne con la marcia da Messina a Piana dei Greci di Rosolino Pilo, il quale, dopo lo sbarco di Marsala riuscirà ad aggregarsi ai garibaldini e morirà combattendo a San Martino, sulla via di Palermo.

Dappertutto si sente esclamare: «Verrà Garibaldi!». C’era però nei pensieri dell’Eroe l’incertezza se ci fosse da arrischiare una spedizione, che, fallendo, potesse compromettere il futuro dell’unità d’Italia; appena tre anni prima era finito sanguinosamente a Sapri il tentativo di Carlo Pisacane di far insorgere il Napoletano. Inoltre Garibaldi era fortemente adirato con Cavour, che aveva ceduto ai francesi la sua città natale, Nizza: forse valeva la pena di tentare invece un moto popolare in Nizza stessa.

Per il Primo Ministro piemontese l’Eroe dei Due Mondi era fonte di preoccupazione a causa della dichiarata determinazione  di marciare su Roma, e quindi di provocare un intervento della Francia, col rischio di vedere annullato anche ciò che si era appena ottenuto e cioè le annessioni degli Stati dell’Italia Centrale. Tuttavia  sapeva che era l’uomo giusto per agire al di là degli schemi convenzionali, proprio secondo le intenzioni cavouriane. Inoltre  era noto che Garibaldi, contrariamente a Mazzini, aveva messo da parte l’ideale repubblicano a  favore della primaria causa dell’Unità Italiana, per cui egli, avvolto nell’alone  della sua universale popolarità, rappresentava l’uomo adatto per tentare un’impresa, che, se fosse fallita, non avrebbe compromesso il Governo Sardo.

Di fronte alle insorgenze dei siciliani ed alle richieste provenienti da più parti, soprattutto da quella di Francesco Crispi, che aveva fatto carte false per convincerlo, Garibaldi vinse la sua titubanza ed è risaputo che, presa una deliberazione, non retrocedeva mai.

«Mandate le balle di seta, il negoziante parte». Con questo “messaggio speciale”, diramato tramite telegrafo, i garibaldini vecchi e nuovi sono avvertiti che la spedizione è imminente. Il 2 maggio,  mentre a Genova stanno affluendo volontari, contributi ed armi, queste poche, Cavour, che aveva sempre segretamente favorito ed incoraggiato le agitazioni che scoppiavano in Sicilia, con una improvvisa corsa in treno, si incontra a Bologna con Vittorio  Emanuele II,  giunto in carrozza da Firenze. Non si sa e non si saprà mai che cosa si siano detti, ma pare che Cavour abbia manifestato ancora delle perplessità, mentre il re, spesso in contrasto col suo Primo Ministro, abbia espresso il suo  completo consenso all’avventura garibaldina; resta il fatto che Garibaldi è lasciato libero di condurre i preparativi, e l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, comandante della flotta, riceverà l’ordine di non ostacolare in mare la spedizione, ma solamente di fermarla in caso di attracco in un porto sardo.

Come scrive nel suo Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille, il 4 maggio, insieme ad altri sedici volontari, la maggior parte studenti, Giulio Cesare Abba parte da Parma in treno, che ferma a Voghera, a Tortona e a Novi, allora uno dei nodi ferroviari  più importanti. Qui sostano alcuni soldati di fanteria ed un sottotenente gli chiede «Vorrebbe telegrafarmi da Genova l’ora che partiranno?». L’Abba stupito e titubante non risponde subito. Dov’è la segretezza? « Serbi pure il segreto, ma creda, non l’ho pregata con cattivo fine » soggiunge sorridendo l’ufficiale.

Intanto quel 4 maggio Giacomo Medici, veterano della difesa della Repubblica Romana del 1849, firma, per conto di Garibaldi il contratto di acquisto dalla società Rubattino  dei due vapori Piemonte e Lombardo, il cui prezzo è segretamente garantito dalle Finanze Regie, mentre per il loro possesso si fingerà un atto di pirateria, eseguito da Nino Bixio con una quarantina di volontari. Nella notte tra il 4 ed il 5 maggio, i garibaldini, lasciato il raduno di Sottoripa, si imbarcano presso lo scoglio di Quarto, ovviamente perché meno esposto rispetto al porto di Genova: sono 1162, armati, pochi, con vecchi fucili e con scarsissime munizioni.

I più tanti sono sotto i 25 anni dì età: il più giovane, Giovanni Marchetti, proveniente  da Chioggia con il padre, ha undici anni, il più anziano, Tommaso Parodi, genovese, è un sessantanovenne che ha combattuto con Napoleone I, e c’è anche una donna, l’unica della spedizione, Rosalia Montmasson, che in abito maschile accompagna il marito, Francesco Crispi. I sudditi borbonici sono una novantina, l’80% proviene dall’Italia settentrionale, soprattutto  bergamaschi (166), con altri 277 lombardi, 157 liguri e 30 piemontesi; 14 i trentini, sudditi austriaci, e 18 gli stranieri: 5 ungheresi, 3 nizzardi, 2 svizzeri, un corso, un francese, un inglese, un greco, un russo, un turco, un africano e un americano, il figlio dell’Eroe, Menotti, nato a Mostardas in Brasile nello Stato del Rio Grande do Sul. Nell’elenco 12 sono dichiarati di ignota origine.

Ci sono veterani e reduci, patrioti sfuggiti alle forche ad alle prigioni, idealisti che inseguono sogni di gloria, letterati in cerca di emozioni, indigenti che sperano in una migliore sistemazione, ma anche ufficiali e sottufficiali dell’ Esercito: di questi 15 sarebbero diventati un giorno generali e Crispi e Cairoli primi ministri. Molti gli operai, pochi i contadini, parecchi provengono dalle Università, 150 sono già o diventeranno poi avvocati, 25 sono medici, 6 farmacisti, 2 veterinari, 18 ingegneri, 50 capitani di mare e marinai, 10 pittori e scultori, tra i quali Giobatta Tassara, genovese, che aveva preso a modello se stesso per scolpire il Mosè che figura nella chiesa del cimitero di Staglieno; si contano parecchi scrittori, professori, tre preti e qualche seminarista; una settantina quelli qualificati proprietari e possidenti e poi centinaia di artigiani, tra cui un bottaro,  un causidico, un prestidigitatore e un girovago, che sarà dichiarato indegno della medaglia e della pensione vitalizia istituita per i Mille. Solo 150 hanno la camicia rossa; i più sono vestiti  in modo disparato. “Variopinti” li definirà Garibaldi con un efficace termine, che non si riferisce solo all’abbigliamento.

La spedizione, con il Piemonte al comando di Garibaldi ed il Lombardo a quello di Bixio, il 7 maggio fa tappa davanti al forte di Talamone, sulla costa toscana, per rifornirsi di armi e munizioni ed il 9 a Porto Santo Stefano per caricare carbone. Garibaldi ottiene quanto fa prelevare, in virtù del suo grado di maggior generale dell’Esercito Sardo, di cui veste la divisa, ma soprattutto con l’evidente tacito consenso di Cavour, e provvede a organizzare militarmente i volontari, che si erano imbarcati alla rinfusa, raggruppandoli in 8 compagnie componenti due battaglioni, comandati il 1° da Nino Bixio ed il 2° dal siciliano  Giacinto Carini. Per non servire la causa monarchica, proclamata da Garibaldi con l’ordine del giorno “Italia e Vittorio Emanuele”, letto ai reparti, nove intransigenti mazziniani  abbandonano la spedizione.

Inoltre, allo scopo di far credere ad una diversione, 64 volontari restano a terra con l’ordine di penetrare nello Stato Pontificio ed accendervi la rivolta. Sono guidati dal forlivese Callimaco Zambianchi, acceso anticlericalista ammazzapreti, combattente con Garibaldi in America e  a Roma nel 1849, individuo poco raccomandabile, per cui è probabile che Garibaldi volesse liberarsene. Sono in effetti subito fermati a Grotte di Castro, a nord del Lago di Bolsena, in uno scontro con le truppe papaline e, arrestati poi dai carabinieri piemontesi, saranno condotti a Genova sotto scorta armata; ben presto rimessi in libertà, escluso lo  Zambianchi, che processato verrà espulso e scomparirà in un viaggio verso l’America, a scaglioni raggiungeranno Garibaldi in Sicilia, ma nessuno verrà incluso nell’elenco dei Mille, anche se riceveranno poi ugualmente la pensione.

La mattina dell’11 maggio, 1089 garibaldini – numero riportato nell’elenco alfabetico del supplemento  alla Gazzetta Ufficiale n.266 del 12 novembre 1878 – armati di vecchi fucili, 20 cartucce a testa  e un’artiglieria di tre cannoncini e di una colubrina del XVII secolo “lunga come la fame”, annullato lo sbarco previsto a Trapani, dove vengono segnalate truppe borboniche, dirigono su Marsala, nel cui porto sono ormeggiate due cannoniere inglesi ed un mercantile americano, ma nessuna nave ostile. Durante lo sbarco sopraggiungono tre unità da guerra borboniche, che però non possono aprire il fuoco per il rischio di colpire i legni neutrali.  Soltanto dopo lo sbarco, salpate le navi inglesi, il Lombardo, arenato, viene incendiato ed il Piemonte, catturato, è rimorchiato a Napoli. L’accoglienza della popolazione marsalese è abbastanza fredda, forse per  diffidenza, paura, o semplicemente per la non conoscenza del fatto e ciò preoccupa Garibaldi, che conta sull’appoggio della popolazione di fronte all’esercito borbonico, che sulla carta appare molto agguerrito, come abbiamo visto, con una forza di circa 80.000 uomini, 25.000 dei quali sono dislocati in Sicilia, con cavalleria ed artiglieria, appoggiati a munite fortezze.

Senza più possibilità di scampo sul mare, a Garibaldi non resta che una scelta: o vincere o morire. Convocato la sera stessa il Decurionato di Marsala, nella sala grande del palazzo della Loggia, su consiglio del siciliano Crispi, mente politica della spedizione, annuncia, fra le ovazioni, la decadenza dal trono di Francesco II delle Due Sicilie. Alle 5:30 del 12 maggio inizia la marcia verso Salemi, dove il 13 si proclama “Comandante in capo delle Forze Nazionali in Sicilia” e “Dittatore in nome di Vittorio Emanuele II, re d’Italia”. I Mille sono già circa 1500, affiancati dai picciotti del barone Giuseppe Sant’Anna di Alcamo, promotore nell’aprile di una rivolta nella sua città, e  del cavaliere trapanese Giuseppe Coppola, già accanito cospiratore antiborbonico.

A Salemi G.C. Abba rivede l’ufficiale incontrato a Novi, si informa e gli dicono che è un disertore proveniente da Novara e che si fa chiamare De Amicis.

Partiti da Salemi, i Mille avanzano  all’alba del 15 sulla via per Calatafimi, dove si trova l’anziano generale borbonico Francesco Landi a capo di 3100 uomini. Appreso l’arrivo dei garibaldini il Landi irradia sei compagnie in avamposti presso una collina detta Pianto dei Romani (Chiantu de Romano, cioè vigneto di Romano), mentre i garibaldini coronano le alture di Pietralunga. Verso le ore 10 i borbonici decidono di attaccare e scendono nel vallone iniziando la salita opposta. I garibaldini li attendono sulle prime senza far fuoco, quindi si lanciano al contrattacco obbligando il nemico a ripiegare e lo inseguono fino alle pendici del ciglione da cui è partito. Qui la lotta diventa più aspra per l’accanimento dei borbonici, che, come riconoscerà Garibaldi, si battono meglio degli Austriaci in Lombardia, negli scontri dell’anno prima con i suoi Cacciatori delle Alpi.

Infatti in un primo momento i garibaldini sembrano destinati a soccombere, tanto che Nino Bixio, suggerisce a Garibaldi la ritirata, ma « Bixio, qui si fa l’Italia o si muore » è la storica risposta del generale. Forse l’Eroe ha gridato più prosaicamente «Ritirarci, ma dove?», pensando che una sconfitta avrebbe fatto svanire l’appoggio dei siciliani e la fine dell’impresa. Postosi alla testa di un centinaio di volontari attardati nella retroguardia ordina l’attacco alla baionetta e l’impeto dei nuovi venuti capovolge la situazione: sono le tre del pomeriggio e il colle su cui erano attestati i borbonici viene conquistato. Ancora una volta ha trionfato la tattica garibaldina di tenere incessantemente il nemico sotto pressione e, in inferiorità di armamento, con attacchi alla baionetta. Le truppe napoletane, sorprese, finiscono per sbandarsi ed il Landi, temendo che venga loro tagliata la via  verso Palermo, ordina la ritirata, che egli considererà “la migliore delle vittorie”, ma che invece gli procurerà l’accusa di tradimento. Nella notte prenderà la via per Alcamo e Garibaldi all’alba entrerà in Calatafimi. Tra i garibaldini 32 sono i caduti – il primo dei quali è un francese di Bastia, Desiderato Pietri – e 180 i feriti, tra cui Menotti e Bandi; sono da aggiungere una decina di morti ed una quarantina di feriti tra i picciotti. I borbonici lamentano  34 morti e 140 feriti.

Scrive ancora G.C.Abba: « I nostri morti che giacciono su quei dossi, sono più di trenta. Gli ho quasi tutti dinanzi agli occhi, come erano due giorni or sono, baldi, confidenti, allegri. Ma un d‘essi mi mette un non so che sgomento nell’anima, quell’ufficiale che vidi a Novi, che rividi a Salemi, e non rivedrò mai più. Anche De Amicis è morto, è rimasto là nella gloria con nome non suo». Si chiamava infatti Costantino Pagani, di 23 anni da Borgomanero e per seguire Garibaldi  aveva disertato dall’esercito piemontese, insieme ad un piccolo gruppo di soldati che si erano uniti alla spedizione.

Affermerà Garibaldi: «La vittoria di Calatafimi, benché di poca importanza per quel che riguarda gli acquisti, avendo noi conquistato un cannone, pochi fucili e pochi prigionieri, fu d’un risultato immenso per l’effetto morale, incoraggiando le popolazioni e demoralizzando l’esercito nemico. La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la brillante campagna del ’60 ».

Infatti quella vittoria  apre a Garibaldi la conquista di Palermo, presidiata da oltre 20.000 borbonici, occupata il 30 maggio, dopo una dura lotta di tre giorni con l’aiuto di una insurrezione popolare. A questo punto si può considerare terminata l’impresa dei Mille, perché il Cavour, visto i felici successi dell’impresa, cominciò ad aiutarla apertamente, sia inviando nel porto di Palermo la flotta piemontese, agli ordini dell’ammiraglio Persano, sia favorendo due nuove spedizioni di volontari, una condotta dal Medici, giunta a Palermo il 20 giugno con 3500 uomini su tre vapori americani e, pochi giorni dopo, il 6 luglio, l’altra con circa 2500 volontari guidati  dal generale  Enrico Cosenz. Giungono appena in tempo per rinsanguare quanti restano dei Mille, poche centinaia di combattenti validi, male equipaggiati, con appena 390 fucili e scarse munizioni.

Sembra impossibile che un pugno di uomini male armati, non appoggiati da nessun governo, abbia messo in ginocchio un regno secolare e ne abbia umiliato l’esercito, appoggiato a poderose fortezze, dotato di artiglieria e sostenuto da una agguerrita flotta.

Rimaneva da conquistare la Sicilia orientale, il che avvenne il 20 luglio, con la difficile battaglia di Milazzo contro il grosso delle truppe borboniche  comandate dal colonnello Ferdinando Beneventano Del Bosco – forse il miglior stratega in cui si imbatté Garibaldi – e la successiva entrata in Messina il 28 luglio. Nella notte fra il 18 e il 19 agosto si effettua lo sbarco nel continente a Melito Porto Salvo, 30 km a sud-est di Reggio Calabria. Inizia subito la risalita verso Napoli, dove entrerà da trionfatore il 7 settembre, quattro mesi dopo l’imbarco a Quarto.

Dopo l’ardua battaglia del Volturno, il 26 ottobre Garibaldi incontra Vittorio Emanuele II sul bivio da Presenzano a Teano, presso una stazione di posta, la taverna della Catena, nella locanda S. Nicola e, accompagnatolo a Napoli, il 7 novembre gli cede la sovranità sui territori conquistati, prima di imbarcarsi il 9, sul far dell’alba, per la sua Caprera, salendo su una barchetta, che egli stesso stacca dalla riva per raggiungere il piroscafo americano Washington, posto ai suoi ordini. Deluso ed amareggiato per il mancato riconoscimento di alcuni richiesti diritti militari a favore delle sue Camice Rosse, aveva rifiutato tutti gli onori che gli venivano offerti, il Collare dell’Annunziata ed il grado di Generale d’Armata. Portava con sé quale ricompensa per i pericoli occorsi, per le vittorie conquistate, per le regioni assicurate al Regno d’Italia, un rotolo di merluzzo secco, un sacco di sementi ed uno di legumi e qualche centinaio di lire.

Il giorno prima nella piazza di Caserta aveva adunato il suo piccolo, ma ardimentoso esercito per congedarlo, ma non con un addio, bensì con un arrivederci e col pensiero volto a Venezia ed a Roma. Il 3 a Napoli l’aveva passato in rassegna e distribuito personalmente 457 medaglie d’argento istituite dal Consiglio Civico di Palermo, 78 delle quali destinate ai caduti in combattimento durante la spedizione; il  26 ottobre il colonnello Antonio Mordini, prodittatore in Sicilia, ne aveva già distribuite alcune centinaia ai garibaldini presenti nella capitale siciliana. Non ne saranno assegnate altre ed il conio distrutto.

I Mille erano diventati diecimila, duemila dei quali avevano dato la vita per la causa dell’Unità d’Italia. La loro straordinaria impresa era entrata nella mitologia popolare ed aveva suscitato sentimenti di ammirazione in tanti Paesi.

L’episodio narrato da G.C.Abba, prima citato, non è il solo  della città di Novi legato all’impresa dei Mille. Due sono i volontari novesi riportati nell’elenco ufficiale del 1878. Uno è Cattaneo Francesco, di Michelangelo, nato a Novi il 17 ottobre 1835. Partito  da Quarto sul Lombardo e assegnato alla compagnia di Nino Bixio, negli assalti di Calatafimi venne ferito ben quattro volte da arma da fuoco e ricoverato nel Convento di San Michele, trasformato in ospedale della città. Ristabilito fece tutta la campagna meridionale, raggiungendo il grado di tenente, come riferisce Giuseppe Bandi, il quale, nel citarlo nel suo libro “I Mille”, racconta che durante l’assedio di Capua gli ordinò di rintracciare ed arrestare una spia borbonica, certo Garofalo. Il diploma relativo alla medaglia dei Mille che gli fu conferita recita: A Voi, Cattaneo Francesco, uno dei 1000 prodi sbarcati con Garibaldi a Marsala il dì 11 maggio 1860, il Senato di Palermo questo attestato rilascia, accompagnato dalla medaglia che decretava la nostra cittadina rappresentanza, e che oggi il Municipio vi conferisce.  Palermo il dì 24 ottobre 1860.

Tornato a casa aveva ripreso la sua attività di negoziante, sempre presente in occasione di cerimonie in onore di Garibaldi e di Benedetto Cairoli, che riceverà il 7 aprile 1879 alla stazione ferroviaria di Novi. Alla morte dell’Eroe sarà uno degli oratori nella cerimonia commemorativa. Fu socio dell’Accademia Filarmonica, Artistica, Letteraria e presidente della sezione novese della Società dei Carabinieri. Colpito da male incurabile, morirà il 15 novembre 1884.

L’altro novese è un carrettiere, Punta Paolo Giuseppe di Alberto, nato nel 1841 e morto a Novi il 15.11.1864. Non si hanno di lui altre notizie, data anche la brevità della sua vita, di appena 23 anni.

Un terzo novese ha partecipato all’impresa: è Papa Paolo Alberto Filippo, che nei registri dei battesimi della parrocchia di San Pietro è elencato come figlio di  Bartolomeo di Francesco e di Pesce Paola fu Pietro. Nato il 22 giugno 1832 e laureato in Farmacia nel 1854 all’Università di Genova, si dedicò ai soccorsi dei malati colpiti dal colera, che in quell’anno infieriva nel capoluogo ligure.

Nel giugno 1860, imbarcato sulla nave Utile, partiva con la spedizione Medici – per ciò non indicato nell’elenco dei Mille –  e raggiungeva a Palermo Garibaldi, che lo nominava Capo-farmacista dell’Ambulanza Generale. Nella battaglia del 1° ottobre si distingueva sotto Capua, per cui fu fregiato della medaglia al Valor Militare, mentre Garibaldi, nel promuoverlo con decreto speciale al grado di maggiore, gli scriveva: Vi ringrazio pel coraggio unico con cui avete raccolto i nostri feriti sul campo di battaglia e li avete assistiti. Sul Times di Londra del 27 ottobre 1860 dalla corrispondenza relativa alla presa di Capua si legge: Lasciatemi far menzione fra le persone che meritano grande onore e che non bisogna dimenticare, il nome di Paolo Papa, chimico genovese, il quale si è esposto al più gran pericolo e più di qualunque altro, nel portar via i feriti dal campo. Al termine della campagna riceverà un  ritratto con una dedica che recita: All’egregio cittadino Paolo Papa ex Capo-farmacista nell’Armata Meridionale, che durante la guerra nell’Italia meridionale diede nobili prove di operosa dedizione alla Patria ed ai combattenti per essa, Giuseppe Garibaldi manda in dono la propria effigie qual segno di affettuosa riconoscenza. Giuseppe Garibaldi.

Il 29 agosto 1862, Paolo Papa è ancora con Garibaldi durante l’infausto episodio dell’Aspromonte, concluso col ferimento e l’arresto dell’Eroe; anch’egli viene arrestato ed amnistiato solo all’inizio di ottobre. Nel 1864, con decreto governativo è nominato Farmacista Visitatore del Circondario di Levanto. Durante la terza guerra d’Indipendenza, nel 1866, parte per la campagna del Tirolo come Capo-farmacista di prima classe nel corpo dei Volontari Italiani, comandati da Garibaldi, e Sovrintendente di tutto il materiale d’ambulanza. Nell’elenco delle ricompense speciali assegnate a coloro che si distinsero  in quella campagna è compreso il nome di Paolo Papa perché: Decorato Cavaliere dell’Ordine dei SS: Maurizio e Lazzaro, per la diligenza e l’assiduità dimostrate nel suo molteplice lavoro di Ispettore di tutto il materiale, provvedendo ai nostri Ospedali temporanei, raccogliendo e distribuendo i doni dei Comitati, prestandosi con distinzione a perizie di forniture farmaceutiche e per esami chimici di vettovaglie (Da “La Società” n.44 del 31 agosto 1873).

L’impresa dei Mille ha coinvolto anche due illustri nostri concittadini.

Il primo ballo del musicista novese Romualdo Marenco, composto a 21anni nel 1862, si intitola Lo sbarco di Garibaldi a Marsala e la presa di Palermo; verrà rappresentato al teatro “Doria” di Genova con la coreografia storica del Pulini, ottenendo un enorme successo.

La sera del 30 maggio 1862, al teatro Regio di Parma, l’attore Romagnoli declama, alla presenza dell’Eroe, il Cantico della Sicilia, scritto dal drammaturgo Paolo Giacometti. Al termine, Garibaldi, commosso, si alza per stringere la mano all’autore  e la sera dopo, tornato in teatro, lo vuole seduto accanto a sé, nel palco reale, e gli donerà il proprio ritratto con la dedica Al caro poeta della libertà italiana Paolo Giacometti, il suo Giuseppe Garibaldi.

Ricordiamo gli altri volontari partiti in quel 1860 dalle terre dell’attuale provincia di Alessandria:

  • Buffa Emilio fu Paolo (Ovada, 18.11.1833 – Torino, 23.12.1875),
  • Cogito Guido (Acqui T., 22.11.1841- Milano, 30.10.1910),
  • Giola Giovanni (Alessandria, 12.11.1814 – morto a Torino),
  • Marchelli Bartolomeo di Giacomo (Ovada, 24.8.1834 – Nervi, 17.2.1903), virtuoso giocoliere. Si distinse a Sebastopoli nel 1855 e seguì Garibaldi nell’Aspromonte, a Bezzecca ed a Mentana,
  •  Olivieri Pietro, (Alessandria, 25.6.1835 – Salerno, 17.10.1884),
  •  Pernigotti Giovanni di Vittorio (BoscoMarengo,15.11.1842-ivi,18.6.1905),
  •  Repetto Domenico fu Giuseppe (Tagliolo, 1.8.1829 – ivi, 18.11.1871),
  •  Rodi Carlo fu Vincenzo (Bosco Marengo, 23.3.1799- Fresonara,22.2.1862),
  •  Romanello Giuseppe di Giovanni Battista (Arquata S.,18.3.1839   – 24.5.1860), morto nell’ospedale di Calatafimi, in seguito alle ferite riportate in quella battaglia.

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LA BANDA DEL GRANO

di ITALO CAMMARATA

Una piccola tangentopoli a Pozzolo Formigaro nel 1457

Per la sua posizione al bordo meridionale del Ducato di Milano, fra la fertile pianura padana e il porto di Genova, Pozzolo Formigaro è sempre stato un naturale punto di contrabbando di tutte le merci che viaggiavano sulla rotta Genova- Milano e specialmente di quelle che erano contingentate (in particolare sale e cereali) oppure sottoposte a tassazione speciale (gualdo tintorio).

L’episodio che qui viene ricostruito nei particolari fa capire quanto forti erano gli interessi e quanto importanti potevano essere i personaggi coinvolti nel contrabbando.

Per inquadrare meglio i fatti occorre aver presente che a partire dal 1455 il feudo di Pozzolo era stato assegnato al vecchio capitano di ventura Micheletto Attendolo, cugino primo del Duca di Milano, il quale si era installato insieme con la moglie Isabella e tre figli maschi nel Castello fatto erigere nel 1453 dal capitano Bartolomeo Colleoni.

I fatti che ricostruiamo risalgono a tre anni dopo l’istallazione a Pozzolo dei nuovi feudatari, una famiglia  che un’attenta studiosa[1] giudica molto severamente: “La cifra dominante della presenza degli Attendolo nei confini del Tortonese non fu tanto il loro lealismo ma, al contrario, la politica indipendente e riottosa di un potentato incontrollabile”. Insomma “lungi dal costituire un feudo di confine, utile a sorvegliare le frontiere, gli Attendolo a Pozzolo si distinsero per atti di prevaricazione e manifestazioni di arrogante presunzione…… Pozzolo fu una miniera da sfruttare e gli Attendolo impararono presto a vivere e a prosperare della principale risorsa del luogo: il contrabbando”.

L’annata agraria 1456 non era stata delle migliori nel Ducato di Milano, tanto che era stato vietato[2] perfino di esportare le “brazzate” cioè le remunerazioni in natura (in questo caso: il grano che si poteva trasportare in spalla) che normalmente venivano concesse agli “aratori” cioè agli aiutanti stagionali arruolati fuori dal Ducato per il raccolto. Per accorgersi della crisi che ne era seguìta basta leggere la lettera[3] con cui il Duca Francesco Sforza informò il Vescovo di Tortona di avere inviato nel Tortonese il suo uomo di fiducia, Job de Palazzo, per cercare di bloccare le granaglie che quotidianamente venivano portate di contrabbando nel Genovese, sfruttando soprattutto i cammini secondari delle Valli Curone, Borbera e Grue. Un’altra lettera[4] da Alessandria avvisava infatti che “in Genoa è penuria grandissima di vettovaglie e [il grano] si è venduto VI libre alla mina, né se ne trova, e la murmurazione per la fame è grandissima”.

Ottima occasione per i contrabbandieri. Perciò il Duca mandò un severo avviso[5] al suo Commissario dell’Oltrepò: “Intendiamo che in quelle nostre parti sono commesse molte frodi di biade, gualdi, sale e che molte vettovaglie sono condotte dal nostro Paese nel Genovese. Vogliamo che tu, con ogni ingegno, dì e notte debba ovviare con tutte le tue forze che le frodi non siano commesse”. E qui aggiungeva una frase ambigua: “E guarda di non avere paura di lettere che ti siano scritte da chicchessia, ma eseguirai le nostre lettere non guardando in faccia a nessuno”. A chi intendeva alludere il Duca?

Di quella crisi alimentare ci parla anche il permesso straordinario che il Duca accordò[6] “manu propria” nello stesso febbraio 1457 al suo fedele segretario Antonio Guidobono per poter portare 100 salme di grano da Quargnento e Solero fino a Tortona e poi di aggiungervi altre 100 salme prelevate[7] a Tortona e a Carbonara per portare il tutto a vendere a Precipiano e nella Valle dei Ratti e in altri luoghi della Diocesi tortonese, evidentemente rimasti sprovvisti e ora ridotti alla fame.

Guidobono era un tortonese salito sul carro vincente dello Sforza da quando aveva propiziato il suo matrimonio con l’unica figlia del Duca Filippo Visconti, atto che aveva segnato la prima tappa per raggiungere il trono ducale. Perciò lo Sforza gli serbava e gli doveva gratitudine, che esprimeva con concessioni di questo tipo (fonte di un guadagno certo e immediato per un personaggio che normalmente non si occupava di cereali) ma anche con l’assunzione negli uffici di Corte milanesi del giovane figlio di Antonio, Cavalchino Guidobono, la cui sigla (Kaval.) infatti compare alla base di questa lettera di permesso, registrata come molte che seguono nell’apposito registro intitolato “Licenze relative alle granaglie”.

Libero passaggio da Novi a Genova

Quindici giorni dopo, un’altra lettera[8] partiva dalla Corte milanese, indirizzata al “Capitano del divieto” di Alessandria, cioè all’ufficiale incaricato di sorvegliare tutti i movimenti di grano ed altri cereali in quasi tutto l’Oltrepò; gli ordinava di andare a Serravalle e comandare alle autorità locali di “lasciare passare liberamente tutte le biade che saranno condotte da Novi a Genova” purché “non siano condotte altre biade che quelle di Novi”. Il Podestà di Novi gli aveva infatti assicurato, diceva il Duca, “che provvederà che le biade del Paese nostro non saranno menate via”. Insomma si voleva evitare che sul mercato di Genova finisse del grano proveniente dal Ducato di Milano; invece poteva essere esportato quello proveniente da Novi, che era un feudo della famiglia Fregoso, in quel momento titolare anche del Dogato genovese.

In fondo a questa lettera, un ultimo ordine per il Capitano del divieto: “Vogliamo che ti trovi con il magnifico signor Michele [Attendolo] e gli dirai che non si impicci più di fare licenze [di esportazione] né simili cosi pertinenti al tuo ufficio”. Micheletto Attendolo era il feudatario di Pozzolo e si era preso l’iniziativa di concedere una licenza di esportazione grano al novese Urbano Bianchi, che poi invece era stato bloccato dal Capitano. E questo ci fa capire che esisteva una certa confusione di poteri. Il Duca infatti dovette scrivere[9] anche a Micheletto pregandolo di “consegnare nelle mani del Capitano del divieto” proprio il Bianchi, arrestato per contrabbando e rinchiuso nel suo Castello di Pozzolo.

Il Capitano del divieto non era molto amato a Pozzolo. Aveva già avuto da dire[10] con gli abitanti quando aveva preteso che gli pagassero il fitto di una casa dove teneva il suo ufficio quando veniva in paese, e perciò il Duca gli aveva ordinato “di informarsi diligentemente” su quali erano le vere consuetudini in proposito, e di rispettarle. Poi era stato accusato[11] di “un atto presuntuoso commesso” sequestrando i bovi di Pietro Bovone, Giacomo da Pagherna e Beltrame da Dernice, tutti abitanti a Novi, mentre andavano “con certi loro carri per levare le biade nasciute nei loro campi”, e per quel sequestro il Duca era stato costretto quasi a chiedere scusa[12] al Doge di Genova, che era anche signore di Novi, e poi ad insistere[13] perché venisse restituito il maltolto.

Come se si trattasse di una droga

Ad un consumatore moderno, abituato a comprarsi il pane come e quando e quanto ne vuole ad un prezzo solitamente  modesto, può sembrare assurdo che in questi documenti si parli di grano, farina e pane come se si trattasse di droga preziosa, da trasportare con tanto di documenti di accompagnamento e di autorizzazioni scritte. Invece, per calarsi in questa realtà così lontana (ma non così lontana per chi ricorda ancora i tempi di guerra), occorre tenere presente che la produzione e il commercio dei cereali (il componente più importante della dieta del tempo) erano sottoposti a rigorosi controlli, con appositi uffici e permessi e funzionari e guardie armate.

Attorno ad ogni bene contingentato è normale che nasca immediatamente un sistema di aggiramento. Il caso che segue ne è la dimostrazione più lampante e vede in azione praticamente tutto un paese, dal feudatario all’ultimo garzone di mugnaio, per aggirare le norme di legge e deviarle a proprio favore.

Nella prima metà del 1457 altre licenze “di tratta” vennero concesse al soldato Giacomo Marliani[14], poi ai militari[15] milanesi stanziati nella Valle dei Rati, poi ai tortonesi Facino Ponzano[16] e Luigi Montemerlo[17], poi agli Spinola[18] di Borgo e Pallavicino; anche i marchesi Malaspina[19] ebbero un permesso di condurre biade dall’Abbazia di S.Alberto fino a Cabella, Cantalupo e Brignano. Insomma, un gran viavai di gente potente (o prepotente, come i soldati).

Intanto Micheletto Attendolo continuava a tenere chiuso nel suo Castello di Pozzolo il novese Urbano Bianchi, fatto prigioniero “per le frodi da lui commesse nell’esportare biade fuori del Ducato”, anche se “duplicate lettere” gli erano arrivate da Milano affinché lo liberasse. Una nuova missiva[20] ducale lo costrinse finalmente a rilasciarlo mentre una seconda[21] lo rimproverava per il fatto che “quei bovi e il carro di biada tolti [sequestrati] a Urbano Bianchi di Novi” erano finiti indebitamente nelle mani dei figli dello stesso Michelettouelli bovi.

L’ordine era di restituire il tutto al legittimo proprietario, che si trovava sotto la protezione del Doge di Genova nonché feudatario di Novi, Pietro Fregoso. Con quest’ultimo e con i suoi Novesi, lo Sforza aveva già in piedi una bega[22] a causa di una Torre daziaria che quelli di Novi avevano eretto indebitamente nella Frascheta e che proprio in quelle settimane verrà distrutta ad istigazione dei Tortonesi. Non era quindi il caso di attizzare altri contrasti.

Anche il Capitano del divieto ricevette[23] l’ordine di restituire a Bianchi quello che gli aveva sequestrato ma che purtroppo risultò già “venduto all’incanto, e spartito il bottino” tra gli autori di quel sequestro. Al Podestà di Serravalle venne ordinato[24] di tenere gli occhi ben aperti: il Duca aveva saputo che “per quella bocca di Serravalle si fanno molte frose di biade, che vanno fuori dal Paese”. Ormai però la crisi sembrava alle spalle e le spighe nuove erano una bellezza . Venivano sù altissime, come si vede in un quadro di Bruegel (dove arrivano quasi ad altezza d’uomo) e avrebbero fornito più paglia che grano. Ma anche quella paglia era benedetta perché serviva per fare gli “strami” dei cavalli.

 

Non cavare nemmeno un granello

Invece a metà luglio, proprio nel momento del raccolto, il Capitano del divieto ricevette[25] ad Alessandria l’ordine perentorio “di non cavare neppure un granello di biade dal nostro territorio”. Eppure l’annata agraria era andata bene, e anche il raccolto del gualdo era così abbondante che un funzionario sforzesco riferiva[26] da Tortona: “Le cose dei gualdi qua passano benissimo e trànnose a furia” cioè se ne esporta a bizeffe.

In quel settembre 1457 si verificò un altro fatto strano. Il Duca scrisse[27] a Micheletto: “Poiché abbiamo deliberato di mandare ambedue i vostri figlioli in un certo luogo assai importante, distante due o tre giornate da qua per servizi [militari] che importano, vi preghiamo che li facciate mettere in punto insieme a 60-80 cavalli in armi”. Ma la risposta[28] immediata del parente Micheletto fu: “Raimondo mi ha risposto che, considerata la disfazione che ebbero quando andarono alla impresa del Conte Giacomo”, aveva deciso di andare a Milano “per darLe ad intendere i suoi bisogni e necessità”. Insomma, ben poco entusiasmo per quella convocazione. Qual era la ragione?

Soltanto 10 giorni dopo, l’11 ottobre 1457 il Duca di Milano mandava questo messaggio[29] riservato a Giorgio d’Annone, il suo Commissario dell’Oltrepò che risiedeva a Tortona ed Alessandria: “Il nostro camerèro Viva[30] da Codignola, , ci ha portato certe informazioni contro Michele Colli da Vigevano, deputato a Pozzolo sopra le frose [sfrosi, contrabbando]”. Colli era un altro funzionario ducale incaricato di sorvegliare e combattere il contrabbando dei cereali proprio in quella zona e aveva affiancato dall’inizio 1457 il suo collega Ventura da Montesicardo.

Giù le mani dalla cacciagione

Il Duca scrive al Capitano del divieto: “Abbiamo inteso che gli uomini dell’ Alessandrino e del Tortonese, senza alcun rispetto e con lacci, reti e altri ingegni, pigliano lepri, pernici e fagiani, in modo che quelle parti resteranno private del tutto di selvatici. Poi le mandano a vendere nei luoghi fuori del nostro paese, che resta mal fornito di selvaticine”. Emetta un bando che vieti a chiunque di cacciare senza speciale licenza ducale o di Carlo da Cremona, “Capitano generale delle nostre cacce” (ASMi Missive 34. Milano, 22 febbraio 1456).

Il Duca ordinava al suo Commissario dell’Oltrepò:“Vogliamo che subito senta da Viva tutte quelle imputazioni che ci ha portate e le dichiarazioni rese dai testimoni, che hanno deposto nelle mani del Podestà di Pozzolo, e che convochi Michele Colli e gli legga queste imputazioni e senta che risposte darà e, se lui nega, convoca Podestà e testimoni e di nuovo li esamini tu sopra questa faccenda, separàti l’uno dall’altro”.

Si capisce che questa è una faccenda che sta molto a cuore al Duca, il quale prosegue:

“E vedi di mettere in questo [affare] ogni tuo ingegno, astuzia e intelletto per comprendere la verità, e se queste imputazioni sono vere oppure fatte ad arte, non avendo riguardo a nessuno”. Teniamo a mente queste ultime parole: “Non avendo riguardo a nessuno”, perché possono essere fondamentali. “E se trovi che la cosa è come ci è stato detto, vogliamo che trattenga presso te Michele Colli fino a che ci avvisi come sta la cosa e che abbia nostra risposta. Se invece trovi che non sia colpevole e che questo sia [stato] fatto apposta fraudolentemente per svergognarlo, vogliamo che contro tutti quelli che avranno tenuto mano a questa cosa [calunnia] si proceda con quella rigidezza [severità] che richiederà la ragione e la natura del caso, senza alcun rispetto”.

Metti ogni tua astuzia perché si trovi la verità

La missiva prosegue con questa raccomandazione:”E in questo, Giorgio, se mai desiderassi soddisfare il desiderio e volontà nostra, metti ogni tua sottigliezza [astuzia] perché si trovi la verità, interrogando tutti quelli che, dall’una parte e dall’altra, ti saranno indicati. E affinché tu meglio sappia le imputazioni che ci sono state date, te le mandiamo qui incluse”. Michele Colli, intanto, era stato sospeso dal servizio e perciò il Duca ordinava: “Se intanto che Michele starà assente ti paresse di mettere là Giovanni da Piacenza, fa come ti pare e avvisaci di quanto si farà alla giornata”. Cioè giorno per giorno, come si fa per gli questioni importanti.

I personaggi sulla scena

Il Michele Colli che risultava sospettato non era un personaggio qualsiasi. Era un grosso commerciante di cereali ma anche il fratello del dottor Gerardo Colli, un alto funzionario ducale che più avanti diventerà perfino Ambasciatore dello Sforza a Venezia. E da pochi mesi era stata mandato a Pozzolo proprio con il compito di combattere il contrabbando, possibilmente meglio di quanto aveva fatto il suo predecessore. Si era dato molto da fare, tanto che il Duca aveva dovuto intervenire[31] personalmente per chiedergli di non tartassare troppo gli uomini di Novi, soggetti al Doge di Genova che egli desiderava tenersi alleato.

Nemmeno l’Attendolo era un personaggio qualsiasi: Michele Attendolo detto Micheletto, dei conti di Cotignola, era cugino paterno di Francesco Sforza e fino a poco tempo prima era stato un grande Capitano di ventura, così grande da figurare al centro di una gigantesco quadro[32] che Paolo Uccello dipinse sulla Battaglia di San Romano (1432). Era già stato anche un protagonista della famosa battaglia di Anghiari (1440). Era insomma un personaggio di grande spessore, che la Pace di Lodi del 1454 e la grave età avevano messo definitivamente a riposo con l’assegnazione del feudo di Pozzolo.

Non accadeva spesso che un feudatario andasse a vivere nel proprio feudo, considerato di solito una pura fonte di reddito; ma avere un uomo di fiducia che risiedesse in quel paesone quasi agli incerti confini con Genova e così vicino all’irrequieta Novi, interessava molto al Duca di Milano. Così il cugino Micheletto aveva lasciato il mestiere delle armi e si era trasferito a fine 1454 a vivere nel Castello di Pozzolo, risistemato dal capitano Bartolomeo Colleoni, dove lo aveva preceduto la moglie Isabella da Diano[33]. Con loro erano venuti anche i figli Raimondo e Pietrantonio, già attivi uomini d’arme, il minore Giacomo e la figlia Lucrezia.

 

“Un porcile disfatto” ma anche “luogo di cacciagione”

Ma il nuovo feudo, visto nella realtà e per giunta nel cuore dell’inverno, si era rivelato una gran delusione. Lo sappiamo dalla prima missiva[34] che donna Isabella mandò da Pozzolo al potente Segretario ducale milanese Cicco Simonetta: “Poi che io giunsi qua, più fiate ho mandato a cacciare per potervi visitare [omaggiare] di qualche selvaggina, come il debito mio richiede ritrovandomi in questo luogo, qual è luogo de cacciagione; ma fin ad ora non ne ho potuto avere ventura [fortuna] come desideravo”. Isabella mandava a Milano quel poco che i cacciatori avevano trovato ma approfittò dell’occasione per lamentarsi: “Io sono certa che se VS fosse stata informata delle condizioni di questo luogo, che è un porcile disfatto, mi avreste fatto provvedere di altro”.

Dopo lo sgombero delle truppe di Colleoni, infatti, Pozzolo sembrava ridotto tanto allo stremo che donna Isabella si diceva certa che “da qua a un anno non siamo per cavarne alcun frutto”, in quanto “questi uomini non hanno da vivere” nemmeno per loro; anzi “una gran parte di essi sono per partirsi”, migrando in cerca di miglior futuro. Due giorni dopo, la raggiungeva a Pozzolo il marito Micheletto, e anche lui scrisse[35] per ringraziare il Simonetta di “essere stato favorevole in farci avere questo luogo”. Poi Micheletto, che si firmava “Conte di Cotignola”, scrisse[36] anche al cugino Duca: “Sono otto giorni che son venuto in questo luogo che VS s’è degnata donarmi, il quale luogo ho carissimo”, assicurava; però avvisava che Pozzolo per il momento gli sarebbe stato soltanto “di spesa, senza niuna entrata”.

Un suo eventuale coinvolgimento nelle vicenda che stiamo ricostruendo va visto in questa ottica cioè come una scappatoia per realizzare qualche guadagno extra, in attesa che il feudo di Pozzolo ricominciasse a rendergli quanto gli avevano fatto sperare.

 

E’ luogo buono, dilettevole e fertile

Lo Sforza aveva cercato di consolare[37] il parente poco riconoscente che si lamentava : “L’avete trovato assai in disordine per le guerre che sono state di là ma, da quest’anno in avanti, ne riceverete diletto e piacere e buon godimento perché è luogo buono, dilettevole e di buona utilità e fertile”. Poi a metà del 1457 il Duca gli aveva scritto[38] un po’ scocciato per il fatto che, malgrado gli avesse ordinato di consegnare al Capitano del divieto l’Urbano Bianchi di Novi accusato di contrabbando, quella consegna non aveva avuto luogo anzi pareva[39] che “quei bovi e il carro di biada che furono tolti a Urbano Bianchi” fossero finiti proprio nelle mani dei figli di Micheletto, cosa certamente non prevista dalla legge.

Il Duca era abbastanza adirato perché nel frattempo era intervenuto in favore del novese Bianchi proprio il suo diretto signore Pietro Fregoso, che in quel momento era anche Doge di Genova e che era meglio non urtare per una questione così banale. Ma la risposta[40] del Capitano dei divieto non lasciava speranze. Impossibile restituire a Bianchi il carro sequestratogli, dato che il tutto era già stato “venduto all’incanto e spartito il bottino fra quelli che aveva partecipato” al sequestro. Poco dopo il Podestà di Pozzolo veniva convocato[41] urgentemente a Milano, seguìto[42] da un armigero di Micheletto. Nell’agosto 1457 il Duca venne[43] addirittura di persona nell’Oltrepò con la scusa “di pigliarsi alcuni piaceri così di levrieri come eziandio di falconi e di astori”.  Non è escluso che in quella occasione lo Sforza abbia incontrato il parente Micheletto e che le cose siano state sistemate bonariamente.

Micheletto risultava[44] debitore di 800 ducati verso il gentiluomo veneziano Marco Cornaro nonché di “una certa quantità[45] di denari” verso Giovanni da Tolentino, e in entrambi i casi il cugino Duca lo aveva invitato ad onorare i debiti.

Violenza carnale nella Fraschea

“Un genovese partendosi da Alessandria con una sua donna e andando verso Genova, fu assaltato da un famiglio di Antonio Trotti e da un famiglio di Ventura da Montesicardo, Capitano del divieto di Alessandria e, dategli delle bastonate, gli tolsero le sue robbe e denari e violata la donna, usarono con lei carnalmente”. Così il Duca di Milano scrive di aver appreso al suo Commissario dell’Oltrepò, ordinandogli di “drizzare un paio di forche nel luogo dove hanno fatto questo eccesso e vi siano appiccati per la gola” (ASMi Missive 34. Milano, 15 settembre 1457). Ma poi il famiglio del Trotti dichiara che è stato un alessandrino a incaricarlo “di pigliare questa donna, che dice non essere mogliere di quel genovese ma femmina [pubblica], e che era mal trattata da lui che dàvale delle botte e che voleva tornare a Borgoglio, in casa della suocera di questo Antonio, donde era partita”. Per questo, i due tipetti “gliela tolsero, senza che le facessero violenza né disonestà alcuna né che usassero carnalmente con lei”. Infine la donna è stata liberata da soldati “del signor Michele [Attendolo] e condotta a Borgoglio in casa della suocera”. Una settimana dopo, il Duca riceve un messaggio dal suo Commissario: “Per mancamento del boia, che non ho trovato”, è stato lui stesso ad impiccare il famiglio di Ventura”. “Hai fatto molto bene ad impiccarlo tu stesso”, lo loda il Duca, “e ti commendiamo solamente di quello che hai fatto”; quanto al famiglio di Antonio Trotti, il quale giura “che non ha conosciuto carnalmente detta femmina” (malgrado il suo socio sostenesse il contrario), gli si diano altre due strepate di corda e poi lo si rilasci se non confessa. (ASMi Missive 34. Milano, 22 settembre 1457).

56 pagine di interrogatori

Che cosa c’era nelle 56 pagine di documenti che arrivò da Milano a Tortona? Abbiamo cercato di riprendere le parti essenziali perché il testo integrale sarebbe troppo noioso, come noiosi sono i testi delle tante intercettazioni che dilagano sulla stampa attuale. Più illuminanti sono invece certe espressioni usate dai testi oppure l’accenno a luoghi e situazioni ancora riconoscibili oppure le frasi gergali spontanee che talvolta i testi usano. Interessanti poi sono nomi e cognomi. Alessandro de’ Bonaconti di Pisa, Podestà di Pozzolo, aveva assunto da una trentina di testimoni sotto giuramento le informazioni che qui abbiamo sintetizzato:

► Mastro Donato da Milano, abitante a Pozzolo Formigaro, richiesto se sa di alcuna frode commessa dal commissario Michele Colli, risponde sotto giuramento che cinque persone si sono messe in società per comprare grano in paese e farlo condurre a Novi. Sono: lo stesso Colli, GianGiorgio Cavanna di Novi (scrivano del Commissario), un certo Matteo da Cairo di Novi, Gasparino Conte di Novi e lo stesso teste. La società funziona così: Donato compra il grano a Pozzolo, lo fa portare dal mulattiere Pietro da Cremona al Mulino[46] del Manuele, con una bolletta del Commissario; poi, dal Molino, Matteo da Cairo e Gasparino Conte prendono il frumento e lo portano a Novi e, una volta vendutolo, consegnano il ricavato a GianGiorgio Cavanna oppure al Commissario. Il guadagno se lo dividono fra loro cinque alla pari.

► Pietro da Cremona, il mulattiere appena citato, conferma che Donato da Milano gli dà il grano da portare al Molino del Manuele con la scusa di macinarlo; poi lui, con una bolletta del Commissario lo porta al Molino a dorso di mulo. Considerando che Donato non poteva avere tanto grano, dopo un po’ il teste gli ha chiesto di chi fosse e Donato gli ha risposto: “In questa società siamo cinque soci: uno sono io, poi Matteo da Cairo e Gasparino Conte ambedue di Novi, GianGiorgio Cavanna di Novi” più un altro che non volle nominare; ma lui crede che sia proprio il Commissario, il quale rilascia le bollette e non fa controllare che quel grano sia effettivamente trasformato in farina, come invece fa con gli altri Pozzolesi. Il teste aggiunge di aver portato al mulino 4 sacchi e mezzo di grano, che poi aveva portato a Novi. Sempre a Novi, per ordine del Commissario, ha portato 2 salme di biada da cavallo e un sacco di frumento.

► Melchione Bianchi di Voltaggio fa il mugnaio al molino del Manuele; dichiara che mastro Donato da Milano gli ha ordinato che il grano portato da Pietro da Cremona doveva consegnarlo a Matteo da Cairo e a Gasparino Conte di Novi, che sono in società con lo stesso mastro Donato, ma non sa se questa società comprenda altri. Il grano portato al molino potrebbe essere circa 27 sacchi nell’ultima quindicina e quello portato a Novi circa 13 sacchi.

►Giuliano de Cellere dichiara che nei giorni precedenti un certo Beltrame Cavanna di Novi  aveva 2 sacchi di biada da cavallo in casa di Giacomino Remolti  e chiese al teste se poteva portali a Novi con la licenza del Commissario, che avrebbe mandato il suo garzone in signum licentie concesse. Non sa se il Commissario ha fatto portare altra biada a Novi ma certamente ne fece portare 8 sacchi fuori dalla porta di Pozzolo nell’aia di Donato da Milano, anche se non sa che cosa ne abbia poi fatto.

► Lorenzo de Gandis dichiara che nei giorni scorsi mentre era vicino alla porta del paese, il Commissario lo chiamò e gli disse in segreto: “Lorenzo, quando andrai a seminare la terra che hai vicino al castello di Gazo?”, e Lorenzo gli rispose: “Non so quando. Che volete?”. E allora il Commissario gli aveva detto. “Quando andrai a seminare fammelo sapere perché voglio fare un favore ad un amico”.

Viene fatto un elenco di coloro che hanno avuto dal Commissario il permesso di portare fuori da Pozzolo frumento e altri cereali. Essi sono:

–        Antonio Mastracci, Francesco Griferio e Zanetto de la Sorbeta, tutti di Gazo, ariatores di Zanotto di Grondona, che gli ha dato 8 mine di frumento; lo hanno portato via col permesso del Commissario, pagando 2 soldi per staro

–        Bartolomeo e Ubertino de Rigordio, tutti e due di Gavi, ariatori di Bartolomeo de Gandi, che hanno portato via 9 mine di grano e 5 stari di segale, pagando 1,5 soldi per staro

–        Lorenzo e Leonardo di Gavi, ariatori di Remolto dei Remolti, che hanno portato via 6 mine di frumento e stara 5 di segale

Seguono altri cinque ariatores.

Dieci giorni dopo, altre informazioni vengono prese da Antonio de Rangoni, che è il Vice del Commissario dell’Oltrepò Giorgio d’Annone. Il verbale dice testualmente che si sta ricercando “la verità che il Duca vuole avere contro Michele Colli”:

► Matteo Pastore: con licenza del Commissario ha portato 9 sacchi di grano da Pozzolo in Frascheto, di cui 6 erano “de brazata” di un certo Tommaso da Novi e gli altri 3 il Commissario li mandava a Novi “pro faciendo pane” per sé. Ha anche portato 9 grossi sacchi di grano a macinare al mulino del Manuele ma proprio in occasione di quel trasporto, il Podestà di Pozzolo ha arrestato lui e il suo servo, che infatti si trova ancora in carcere

Tre giorni dopo, altri interrogatori davanti al Podestà di Pozzolo, Pietro da Cremona:

► Pietro da Cremona, ripete quanto detto due settimane prima. Aggiunge di aver sentito un alterco in casa del Colli, che disse: “Non mi interessa il guadagno purché abbia i miei denari”

► mastro Donato da Milano, detto ‘di Argenta’, abitante a Pozzolo,viene di nuovo interrogato a piede libero. Dichiara che due mesi fa, mentre era in casa del Commissario di Pozzolo, un certo GianGregorio Cavanna, suo parente, gli ha detto: “Vediamo di guadagnare qualcosa. Io sono lo scrivano del Commissario”. Lui rispose: “Non voglio occuparmi di queste faccende perché sono cose pericolose”. Tre giorni dopo, sempre in casa del Commissario, il Cavanna lo sollecitò ancora a voler guadagnare qualcosa sul grano; e lui non volle sentire ragioni. Ma una terza volta, presente il Commissario e in casa sua, il Cavanna lo sollecitò ancora. Fu così che si decise ad entrare in quella società, dicendo che avrebbe trovato altri soci fidati a Novi. E proprio quel giorno, lui e il Cavanna andarono a Novi e fecero un accordo con Matteo del Cairo e con Gasparino Conte, che dovevano venire entrambi a prendere la farina al mulino. I soldi per comprare il grano li ebbe dal Commissario e dal Cavanna; comprò 22 sacchi di grano e li mandò al Molino su un asinello mediante Pietro da Cremona. La farina fu poi portata a Novi e lì Matteo e Gasparino ebbero la metà del guadagno.

► Bentivegna di Romagna fu Oldrisio, armigero della squadra di PietrAntonio Attendolo. Dichiara che ben vedeva gli atti, i mormorii e le trame riguardanti il Colli, contrari agli ordini da lui ricevuti per combattere il contrabbando, e perciò sospettava che fosse lui a permettere gli sfrosi di grano. Il Cancelliere del Colli, cioè il Cavanna, gli aveva detto che il grano si vendeva bene nel Genovesato: “Perché non cerchi di guadagnarci qualcosa?”, gli aveva suggerito, e lui gli aveva risposto: “Ho paura del Commissario”. E allora  Cavanna replicò: “Fidati di me, il Commissario Colli può ordinare alle sue guardie che non dicano niente”.

► Pietro Giovanni da Cotignola[47] fu Bettuccio, altro armigero dei fratelli Attendolo, dichiara che il Cancelliere del Colli, suo compare, gli disse: ”Vorrei mandare 4 o 5 sacchi di grano da seminare a Gazo, territorio genovese”. Lui gli rispose: “Compare, farei tutto per voi, tranne questo”. Al che il Cancelliere gli replicò: “Compare, portatelo perché il Commissario è d’accordo”. E così lui accettò. Un giorno che era nella camera del Podestà di Pozzolo, sopraggiunse il Cancelliere e disse loro: “Voi Podestà e tu Pietro Giovanni, venite dal Commissario ché abbiamo una buona notizia”. Andarono dal Commissario e lì il Cancelliere disse:”Voi Commissario e Podestà giurerete sull’anima vostra di essere fedeli l’uno all’altro” e così giurarono nelle mani del Cancelliere.

► Alessandro Bonaconti di Pisa, Podestà di Pozzolo, dichiara che GianGregorio Cavanna, scrivano del Colli, gli disse: “Il Commissario afferma che ha sentito dal Duca nostro che voi Podestà avete commesse molte frose di grano e ha ordinato di sorvegliarvi affinché non ne commettiate altre. Ma il Commissario vuole esservi amico e vi consente di far portare grano dovunque e a chiunque vorrete. E lui stesso metterà a disposizione i mulattieri e farà aprire le porte a vostra richiesta ed è contento che ne teniate le chiavi, se volete, per fare meglio trasportare il grano”. La stessa ambasciata il teste la fece a mastro Donato da Milano, maniscalco.

► Pietro Primo di Novi conferma che il giorno di S. Michele un certo Zanino Bovone gli chiese sulla piazza di Novi se voleva condurre un carro di farina che aveva al mulino di Facino Ponzano e lui gli aveva risposto di sì, purché gli desse 3 soldi per sacco; poi andò al mulino e lì vide sacchi così grossi che rifiutò di caricare sul suo cavallo. Aggiunge che il Podestà di Pozzolo era andato al mulino insieme a 5 guardie a cercarlo; lui allora non era al mulino e perciò il Podestà se ne andò lasciando lì le guardie che, non appena egli giunse al molino, lo trascinarono dal Podestà, che lo mise ai ferri per due ore, poi se lo fece portare in ufficio e lo interrogò su chi aveva portato al mulino il grano di Matteo Pastore. Lui rispose che non lo sapeva, e il Podestà: “Non sono stati forse mastro Donato da Milano e Pietro da Cremona che hanno portato quel grano per ordine del Commissario?”. Lui rispose di no e che non conosceva il Commissario. Allora il Podestà, mentre tutti erano usciti dall’ufficio, gli disse:

–        “Non vuoi guadagnarti dieci ducati?” . Lui rispose:

–         “Volentieri, perché ne ho bisogno”.

E il Podestà disse:

–         “Tu non vuoi dire la verità. Ti darò tante strappate di corda che dirai la verità”.

Lui ribatté:

–         “Voi fate male, perché non sono suddito vostro”.

E il Podestà:

–     “Ti farò dire la verità, tu sai tutto contro il Commissario”.

Quando fu rilasciato, sentì il Podestà che parlava col notaio Giacomo Chianino, che voleva prestare fidejussione per il carcerato Pietro da Cremona, e gli diceva: “Voglio una fidejussione di 200 ducati”; al che Chianino rispose: “Non ci sto perché né la sua roba né la mia valgono tanto”. Allora il Podestà gli obiettò: “Vai tranquillo perché stiamo investigando non contro gente di Novi o di Pozzolo ma soltanto contro il Commissario Colli”. Uscito da lì, incontrò per strada il signor Micheletto Attendolo che veniva a Pozzolo, a cui disse:

–         “Il Podestà fa male ad arrestare noi”, e allora Micheletto gli disse:

–        “Il Podestà non agisce contro voi di Novi né di Pozzolo ma agiamo contro quel poltrone del Commissario Colli, che faremo impiccare per la gola”.

► Melchione Bianchi di Novi, mugnaio. Ricorda che Matteo Pastore e Giacomo Girardengo gli chiesero che lasciasse portare un carro di grano dal Molino fino a Novi ma lui rispose:

–         “Non voglio che il grano esca dal mulino se non come farina”. Il Girardengo gli obiettò:

–         “Bada a quel che fai; quel grano è del Commissario di Pozzolo”.

 

► Finalmente viene chiamato a deporre Michele Colli, che si difende: “Non bisogna dare alcuna fede ai testi, per molte ragioni: il Podestà, come lei sa, è mio espresso nemico. Lo stesso vale per il figlio del Podestà”. Colli chiede che sia interrogato Gasparino Conti e gli si chieda cosa avvenne quando è stato interrogato se fosse socio del Podestà, e lui si rifiutò di rispondere e di dire le menzogne che si pretendevano da lui. In quella occasione, il Podestà sbottò:

–         “Almeno, se non vuoi giovarmi, non cercare di fregarmi”.

E Gasparino gli chiese:

–      “Che cosa volete da me?”.

–      “Voglio che stia fuori di qua in modo che non possa deporre”.

 

► Pietro Gallo fu Giovanni di Novi. E’ bubulco di Matteo Pastore di Pozzolo e in estate mentre Tommaso Carnevale e Giovannino Bovone entrambi di Novi, ariatori di Matteo Pastore, suo padrone, avevano guadagnato una certa quantità di grano con l’accordo che Matteo dovesse far portare le loro “bracciate” a Novi con un permesso, e una mattina Carnevale e Bovone caricarono il carro di Matteo Pastore nel Castello di Pozzolo e, aperta la porta del Castello, vennero all’aia di Matteo, dove il teste dorme e tiene i bovi, e quando furono lì, dissero a Pietro:

– “Alzati, Pietro, e attacca i buoi e vieni con noi a casa di Matteo e lì troverai il carro carico di grano e lo porterai a Novi, quel grano è delle nostre bracciate”, e così fece. Lui pensa che il grano, in tutto 8-9 sacchi, fosse trasportato con il permesso del Commissario ma non vide la bolletta. Alla festa di S.Michele, mentre scaricava del mosto, il suo padrone gli disse: “Scarica e poi porta i bovi all’aia e va a dormire, e domani mattina vieni ché troverai il carro caricato di grano da portare al molino del Manuele”. Infatti al mattino andò in Castello  e trovò il carro carico di grano. E il suo padrone gli disse: “Va al molino con il carro e consegna il grano e dì al mugnaio che non lo macini senza mio permesso”. Lui eseguì e consegnò 9 sacchi di grano. Il mugnaio gli disse che allora non aveva acqua abbastanza per macinare ma l’avrebbe avuta in un paio di giorni. Venerdì e sabato andò a seminare le terre del suo padrone, il quale la domenica andò al molino e chiese al mugnaio: “Quando hai intenzione di macinare il grano che ti ha portato il mio servo? Ti manderò pane, vino e carne come è l’usanza”; ma quello stesso giorno il Podestà fece arrestare il teste e lo tenne ai ferri domenica e lunedì; martedì se lo fece portare, gli tolse i ceppi e gli chiese di chi era il grano portato al molino. Lui naturalmente rispose che era del suo padrone. “Tu menti, perché è del Commissario. E te lo proverò”, e lo rispedì in cella con i ceppi e ve lo tenne per 18 giorni. Un certo Teodoro Bianchi di Novi, amicissimo del teste e compadre del Podestà di Pozzolo, venne al carcere e gli disse in presenza del Podestà: “Tu devi dire la verità su chi è il padrone del grano che hai condotto al molino”. Lui rispose: “E’ di Matteo Pastore, mio padrone, come ho già detto”. Allora il Podestà sbottò:

–         “Starai in carcere tanto tempo finché dirai la verità e ti pentirai”.

Un’altra volta venne il suo amico Bozo Bianchi di Novi insieme al Podestà e si ripeté la stessa scena. Finalmente giovedì scorso il Podestà lo ha scarcerato e lasciandolo uscire gli disse: “Domani verrai a Pozzolo e sabato andremo da Giorgio d’Annone a Tortona”.

► Marchione Bianchi, di Voltaggio, molinaro nel mulino del Manuele, conferma che mastro Donato da Milano fece portare circa 20 sacchi di grano in più volte da Pietro da Cremona e gli disse che la farina era a disposizione di Gasparino Conte e di Matteo del Cairo, e perciò lui diede 12 sacchi di farina ai due, che la portarono a Novi, mentre il resto del grano, 7 sacchi, lo ebbe Viva da Cotignola. Conferma che il Commissario di Pozzolo andò al suo mulino e gli chiese: “Cosa ne hai fatto dei 4 sacchi di grano che ho fatto portare da Pietro da Cremona?”. Lui obiettò che era da poco tempo al molino e il Commissario rispose: “Ti manderò Pietro da Cremona, che ti informerà dei miei 4 sacchi di grano”. Più tardi Viva prese 2 sacchi e Micheletto Attendolo altri due sacchi della farina, che il Commissario aveva ancora al molino.

► Giovanni Scotti fu Giacomo, di Pozzolo. Mentre si trovava in Val Borbera era stato chiamato a Pozzolo da Micheletto Attendolo, che gli aveva detto: “Vai a Tortona e lì troverai il nostro Podestà e farai quel che ti dirà”. Andò a Tortona e nella chiesa dell’Abbazia di S.Stefano il Podestà, minacciandolo di vietargli di tornare a Pozzolo, gli chiese se sapeva qualcosa dei contrabbandi del Commissario. Lui rispose che non ne sapeva nulla. E il Podestà: “Vedo che non vuoi dire la verità!”. Aggiunge che non bisogna dar fede a Donato da Milano, che è un uomo vile e poverissimo nonché famulo del Podestà, e addirittura è andato in giro a sollecitare altri testi a deporre contro di lui. I quali testi sono vili persone, subornate con preghiere e minacce.

Seguono i “Capitoli che intende provare il Podestà di Pozzolo sulla lite che ha con il Commissario”:

1) Giacomo Girardengo, incantatore del dazio della gombeta sul grano di Novi andò da Melchione Bianchi e da Francesco de Pegnis, partecipi degli introiti del molino del Manuele e disse loro: “Nel vostro mulino ci sono 9 sacchi di grano. Siete contenti che lo possa far portare a Novi in frumento ?”. E allora Melchione e Francesco risposero che non volevano consentire.

2) Pietro Prinus si accordò con Giovanni Bovone perché portasse quei 9 sacchi dal Molino a Novi per due soldi e 6 denari al sacco sia in frumento sia in farina e, quando Pietro chiese a Giovanni se poteva portarlo senza rischi, Giovanni gli rispose: “Ti darò la licenza del Commissario di Pozzolo e se ti imbatterai in qualcuno, dirai che è il grano della moltura”, e così gli diede una bolletta sigillata col timbro del Commissario e firmata dallo stesso Commissario.

3) GianGregorio Cavanna, Matteo del Cairo de Peregrini e Gasparino Conte de Peregrini si intendevano con il Commissario di Pozzolo per portare il grano da Pozzolo a Novi.

 

Interrogatorio da fare a GianGregorio Cavanna da parte del Podestà di Pozzolo:

1)     Se GianGregorio andò dal Podestà e gli disse: “Ho una buona notizia per voi, venite a parlare con il Commissario” e così andarono dal Commissario, e GianGregorio disse queste parole: “Signor Podestà, non siete contento di mettervi d’accordo con il Commissario?”, e lo stesso disse al Commissario: “Non siete contento di accordarvi col Podestà di tener segreto quello che farete?”, e così entrambi risposero di sì e si scambiarono il giuramento.

2)     Se GianGregorio andò a casa del Podestà e gli disse da parte del Commissario che mandasse grano verso il Genovesato in quanto il Commissario era d’accordo

3)     Se GianGregorio andò dal Podestà e gli disse da parte del Commissario che era contento di dare metà di tutto il guadagno che avrebbe fatto sul grano portato fuori da Pozzolo.

22 novembre 1457, Novi

Informazioni assunte da Onofrio Borri, cancelliere di Giorgio d’Annone, sulla lite fra Michele Colli, Commissario del divieto a Pozzolo, e il Podestà di Pozzolo:

► Matteo del Cairo: mentre nel mese di settembre usciva da Novi per andare a Sant’Antonio di Viana chiese a Gasparino Conti di comprare certe mercanzie come fanno di solito i soci nelle mercanzie. Così Gasparino, mentre Matteo era assente, comprò da mastro Donato 7 sacchi di grano che erano nel molino del Manuele .

In casa di Teodoro Bianchi, presenti il teste e Gasparino, il Podestà gli disse: “Poiché non puoi giovarmi, almeno dì la verità!” e lui rispose: “Se dovessi perdere mille vite, dirò sempre la verità”. Una volta chiese a Donato: “Come fai a portare questo grano al mulino senza che il Commissario o il Podestà se ne accorgano?”. E Donato gli rispose: “Io lo faccio sapere a tutti e due e in questo modo vado tranquillo”. Il teste osservò: “Mi sembra una buona via, quando lo porterò dal molino a Novi, lo faro portare da persone fidate”. Non ha mai fatto una società con il Commissario per condurre grano fuori dal territorio ducale.

► GianGregorio Cavanna: nega di avere mai fatto società con il Commissario, mastro Donato, Matteo e Gasparino. Ma è vero che Matteo, Gasparino e Donato avevano una società. Ha portato 22 sacchi di farina, di cui il Commissario non sapeva niente. Conferma che il Commissario disse a Pietro da Cremona: “Vai al mulino e dì al molinaro che accetti il mio grano perché voglio farne farina per mio uso”. Il teste gli aveva osservato: “A che serve gridare? È meglio per voi avere la farina a Novi che non al mulino perché se la volete vendere guadagnerete il 30% in più di quanto valga a Pozzolo Formigaro”, e allora il Commissario: “Non voglio fare questo guadagno ma voglio che questo grano vada al molino per macinarlo per uso mio. E ora va al molino e dì al molinaro che voglio avere il mio grano perché non mi interessano questi guadagni. Altrimenti vado con le mie guardie e gli metto per aria il molino”.

Conferma che era assillato dal Podestà perché tessesse un accordo fra Podestà e Commissario; lui andò dal Commissario e gli chiese se voleva accordarsi col Podestà. Glielo chiese non una ma dieci o venti volte. Il Commissario gli rispose: “Che cosa vuoi che faccia? Lasciami fare il mio lavoro e lui faccia il suo e in questo modo le cose marceranno bene”. Il teste gli osservò: “Non c’è bisogno che siate così rigido” e il Commissario: “Che vuoi che faccia?”. Il teste: “Che danno vi può fare accordarvi con il Podestà seguendo l’istruzione mandata dal Duca?”. E il Commissario:”Purché non debba trasgredire, sono contento di accordarmi col Podestà e con chiunque voglia comportarsi onestamente. Ma se ha intenzione di sfrosare e contravvenire alla legge, non voglio saperne nulla e non me ne parlare nemmeno, perché la mia intenzione é di osservare gli ordini del Duca”.

– Il teste: “Il Podestà non ha intenzione di sfrosare, per quel che posso comprendere. Piuttosto mi ha detto che, essendo d’accordo con voi, non sarà necessario per voi fare sorveglianza, perché ci penserà lui”.

– Il Commissario: “Cosa vuole da me?”. Lui disse che il Podestà voleva avere metà delle entrate relative alle licenze delle bracciate.

– Il Commissario: “Vai, sono contento di mettermi d’accordo. Ma alla fine vedrai che mi vuole ingannare, perché vorrà sfrosare e io non sarò d’accordo”.

– Il teste: “Lo vedremo presto”, e così uscì dalla casa del Commissario e andò dal Podestà, che gli chiese: “Come procede la cosa?”. E lui: “Buone nuove, ho tanto pregato il Commissario che è contento di accordarsi con voi, a patto che vengano osservati gli ordini ducali”. Il Podestà: “Per me va bene”, e subito i tre andarono dal Commissario e si misero a sedere. Il teste disse: “Podestà e Commissario, il vostro gran difetto è di non sapere vivere e intendervi fra voi. La vostra discordia ingrassa i contadini e danneggia il Duca. Perciò vi esorto e prego che dimentichiate il passato e in futuro vogliate vivere fraternamente. Voi, Commissario, non volete accordarvi con il Podestà e dargli metà del guadagno delle licenze delle bracciate avendo il consenso del Duca di poterlo fare?”.

Il Commissario: “Ci sto a vivere d’accordo col Podestà e dargli metà del guadagno, a condizione che riguardo ai contrabbandieri chi più può, si dia da fare affinché si esegua la volontà del Duca”. E allora il teste disse al Podestà: “Io sono contento di bene vivere con il Commissario e mi darò da fare perché le sfrose non vengano commesse”. E così Podestà e Commissario giurarono in mano del teste, dopo di che il Podestà e il teste se ne andarono dalla casa del Commissario.

28 novembre 1457

►Pietro da Cremona viene interrogato per strada fuori Novi da Onofrio, cancelliere; ammette che a Novi lui fece fare società con Matteo e Gasparino: “Noi ci guardavamo dal Commissario come dal fuoco”, e la società fu fatta prima che lui andasse a stare con il Commissario. Lui e Donato hanno guadagnato 12 libre di Milano. Prima che lui andasse a stare col Commissario, Bentevegna gli chiese: “Portami del grano a Gazo o a Novi e io vi pagherò, perché ora è tempo”. Il Commissario tutti i giorni rincorreva i frosatori. Sentì il Commissario che diceva al Podestà: “Signor Podestà, di quelle 1400 lire chiesti dal Duca non fate alcuna resistenza  a preghiera di questi villani, perché farò in modo che si riducano a 1200 e anche a 1000, e poi dividete fra di loro. E il Podestà aveva risposto: “Non mi voglio impacciare di niente per questi villani. Se il Commissario mi lascia fare e vuole darmi retta, in pochi giorni gli metterò in tasca 200 o 300 lire”.

► Gasparino Conti de Pelegrini: nel molino del Manuele gli furono presi 7 sacchi di grano che gli aveva venduto Donato di Argenta e fu catturato dal Podestà, da Viva da Cotignola e dalle guardie del Podestà. Lui fu fatto prigioniero perché testimoniasse contro il Podestà. Un giorno, mentre era in una chiesa di Novi, Donato gli disse: “Vieni a Pozzolo che ti farò restituire il tuo grano” ma lui rispose: “Cosa vuoi che venga a fare a Pozzolo?”. E allora Donato:”Se non vuoi venire, scrivi a qualche tuo amico che lo ritiri per conto tuo”. Lui obiettò che non voleva il grano ma i denari che aveva sborsato. Mentre lui era in casa di Teodoro Bianchi insieme al Podestà, e a Teodoro e Marchione Bianchi, il Podestà gli disse dopo molte discussioni: “Taci, non dire più niente”, e lui: “Tacerò se il Doge di Genova non mi costringerà a parlare ma voglio capire come procedono i fatti miei”, e allora il Podestà gli disse: “Ti prometto e sta sicuro che non perderai il grano tuo”. E Teodoro Bianchi: “ Ti promettiamo che ti faremo restituire il grano che ti è stato preso”. Il teste disse:”Fatevi i fatti vostri”, e non accettò quella promessa. Il Commissario non gli ha mai parlato se non una volta che lui faceva colazione con un mercante di drappi; non sa nulla della società, e quel che faceva con Donato, lo facevano senza che il Commissario sapesse niente, e si guardavano da lui.

Mastro Donato è un pubblico sfrosatore e vive di contrabbando e lo ha defraudato vendendogli del grano e facendolo poi catturare.

Come faccio a portare questo grano?

Informazioni assunte da Onofrio Borri, cancelliere di Giorgio d’Annone, da alcuni testi citati da Roffino di Regalza, messo del Comune di Novi:

▼ Marchione Bianchi di Novi dichiara che Giacomo Girardengo gli giurò sul Vangelo che quei 9 sacchi di grano che erano nel mulino erano del Commissario. Pietro Prino si accordò con Giovanni Bovone e gli disse se voleva portare quei nove sacchi di grano dal mulino a Novi e Pietro gli rispose di sì purché si accordassero sul prezzo, che accordarono in 2.5 soldi per sacco; poi Pietro disse: “Come faccio a portare questo grano ché se mi trovano le guardie le cose si mettono male?”, e allora Bovone disse: “Io ti darò una licenza fatta dal Commissario; tu dirai che si tratta del grano di moltura, come dice la licenza”, e infatti gli diede una licenza col sigillo del Commissario. Tuttavia non portò il grano perché fu catturato nel molino da Viva di Cotignola

▼ GianGregorio de Cairo, Gasparino Conte e Matteo del Cairo più un altro di Pozzolo di cui non si ricorda il nome. Mentre era su un’aia a Pozzolo gli diedero 8 stara di grano ma lui non poteva portarlo fuori dal paese: “E’ necessario che tu ti accordi con il Commissario e con GianGregorio come faccio io. Ma non andare a dirlo in giro perché la prenderebbero a male”. Allora lui andò a parlarne con GianGregorio ma non lo trovò perché era andato a Gazo e così tornò a Novi. Un giorno mentre era in piazza a Novi vide alcuni che venivano da Pozzolo con tre asini carichi di grano e andavano a Gavi. Chiese a uno di loro: “Questo è grano della tua bracciata?” e quello rispose di sì. Il teste: “Come hai fatto a estrarlo da Pozzolo?”. “Ho dato 2 soldi per staio al Commissario e mi ha fatto la licenza”. Il teste: “Io ho a Pozzolo un po’ di grano. Credi che mi farà una licenza?” e l’uomo: “Credo di sì, come ha fatto a me”.

23 novembre 1457

Pietro Prino fu Giovanni. Nel giorno di San Michele,  Giovanni Bovone lo incontrò sulla piazza di Novi e gli disse: “Vuoi andare a prendere certi sacchi di farina che ho al lumino?”, e il teste: “Andrò se mi paghi”. “Quanto vuoi?”. “Mi devi dare 3 soldi per sacco perché è tempo di seminare”. Ma Bovone gli voleva dare soltanto 2 soldi e 6 denari per sacco. Allora lui disse: “Andiamo a vedere questi sacchi”. Andò a mulino e chiese al molinaro: “Quali sono i sacchi di Bovone?”. “Sono questi”. Lui gli diede una pedata ma si accorse che erano così grossi che non volle caricarli sul suo cavallo. Ma prima che andasse al molino, Bovone gli aveva dato una bolletta dentro una borsa, dicendogli: “Questa è la bolletta per portare la tua moltura”.

► Giacomo Girardengo fu Nicola di Novi. Fa l’incantatore del dazio della gombeta cioè  preleva per ogni mina di frumento forestiero condotto in Novi una gombeta (1,214 litri) e mezza. Mentre una volta Francischello de Avondani gli stava parlando di grano che era nel molino, il teste gli disse: “Il grano nel molino è del Commissario” ma intendeva parlare del Commissario di Novi.

► Giovanni Bovone di Novi. Non si è mai accordato con Pietro Primo per portare 9 sacchi di grano dal mulino del Manuele. A Novi non si trova una sola persona che parli bene di Melchione Bianchi. Di lui si dice che intrallazza col Podestà di Pozzolo.

Melchione e Teodoro Bianchi sono amici del Podestà. Lui lo sa perché è stato due anni a Pozzolo e li ha visti conversare insieme.

Ho consumata la vita e scorticati i cavalli

Non si sa quale sia stato l’esito pratico di questa valanga di interrogatori, condotti da giudici diversi. L’impressione che se ne ricava è di una notevole confusione ma anche di qualche tentativo di evitare che la verità venga a galla. Qualche tempo dopo, è lo stesso commissario Colli (che si dichiara ancora “iniquamente accusato di frose di grano da Viva”) a ricostruire la sua vicenda in una lunga lettera[48] al Duca di Milano. Questo documento è purtroppo rovinato in due angoli e non può essere decifrato integralmente. Il Colli, dopo avere ricostruito le accuse rivoltegli, ricorda di essere stato “subtilmente ricercato[49] delle imputationi” rivoltegli e di avere “speso e consumato la vita e lo fiato, et scortegato li cavalli per lo continuo cavalcare, ora a Tortona, ora a Novi, ora a Genoa, ora ad Alessandria et alle volte anche a Milano” per seguire quell’inchiesta che non finiva mai. “Finalmente”, dice il documento, Colli “è stato assolto dalle inique accuse di Viva da Cotignola e del Podestà, con grande & detestabile loro vergogna e confusione”. Anzi i suoi accusatori sono stati condannati a pagare alla Camera ducale 100 fiorini ciascuno e a rimborsare 38 ducati d’oro per le spese sostenute dall’accusato, che sostiene di avere speso in realtà 150 ducati.

Il Podestà è mercante di simili novelle

Ma dopo quella sentenza, aggiunge Colli, il Podestà di Pozzolo “ha suscitato una nuova trama, come mercante di simili novelle, facendo saltar [fuori] un villano di Pozzolo ad incolpare uno che era stato famiglio” del Colli quando egli stava in paese. Questo famiglio era stato accusato di aver rubato al Podestà “una borsa nella quale erano ducati XIIII d’oro e una correggia fornita d’argento” e, con questa scusa, il rimborso dei 38 ducati dovuti al Colli era stato bloccato. Tutto questo, “per straccare” il Colli, “acciò che abbandonasse l’impresa contro il Podestà”. Lui però, dice che si farebbe turco piuttosto che arrendersi, e perciò ha fatto venire a Pozzolo il famiglio accusato ed alcuni testimoni, “a confusione del Podestà e del villano”, suo complice.

Risultato, anche questa seconda accusa è caduta. Ora il Colli ha chiesto il rimborso al Commissario dell’Oltrepò, il quale gli ha consigliato di rivolgersi direttamente al feudatario Micheletto Attendolo, in quanto il Commissario ha ricevuto ordine dalla Corte “di non impazarsi degli uomini del signor Micheletto”, forse per evitare altre complicazioni. Intanto “già è passato un anno che lui [Colli] è menato per strazi [lungaggini] e parole, consumandosi come la candela”. Chiede perciò che il Podestà venga convocato a Milano finché non avrà pagato quello che gli deve. Infatti più documenti[50] successivi ordinano ai Pozzolesi di pagargli alcuni arretrati dovutigli.

Due suoi nemici però hanno giurato di fare la pelle al Podestà “o in cammino ossia in Milano” e hanno già cercato di ammazzarlo una volta a Pozzolo “di notte tempo, e buttarlo in un pozzo”, scrive[51] ancora in sua difesa Micheletto, chiedendo che non sia costretto ad andare fino a Milano. Poi Micheletto si ammala[52] e la faccenda si prolunga. Guarito, chiede[53] al cugino Duca la grazia “di poter condurre a Serravalle una certa quantità di marzòla e un poco di frumento che ho avuto per il mio censo”.

Bonaconti, il Podestà di Pozzolo, viene convocato a Milano, ma Micheletto Attendolo interviene[54] ancora in suo favore: “Pare che sia stato infamato da alcuni frosatori perché ha discoperto i loro mancamenti molto disonesti”. Il Duca si degni “di dargli credula fede, perché non Le dirà bugie”, e soprattutto “gli dia spedito spacciamento, in modo che per colpa delle male lingue non abbia cagione di sovrastare là” a Milano “perché nelle parti di qua è di bisogno più per lo Stato di VS che per i fatti miei”.

Da spelonca di ladroni a Paradiso terrestre

Quando poi il suo Podestà finalmente va nella capitale, vi viene imprigionato sotto l’accusa “di avere furato gualdi, fieno e vino”, e Micheletto tornerà a difenderlo[55]: il Duca “non voglia prestare fiducia ai maldicenti”; il buon Podestà “è ito de dì e de notte per questo paese perseguendo i cattivi, in modo che dove questo paese era una spelonca di ladroni, ora è un paradiso terrestre”. E una settimana dopo insiste[56] ancora: “Si degni di dare spacciamento al mio Podestà, considerato che ne patisco grande detrimento, poiché egli attende a ogni mio fatto” cioè all’amministrazione del feudo. Se proprio è colpevole, il Duca gli dia “la penitenza che merita ma non stia lì a perdere tempo” in quanto “con questi uomini non posso intendere niuna mia faccenda per la sua assenza, che a me è di grande danno”.

Il Duca ordina[57] ancora al Commissario dell’Oltrepò “di intendere la differenza tra Michele Colli e il Podestà di Pozzolo” perché, scrive, “vogliamo chiarire quello che vuole la ragione” ma gli comanda espressamente di agire “non guardando in volto ad uomo del mondo” cioè proprio a nessuno, fosse anche un pezzo grosso … come Micheletto Attendolo ?

Ad agosto 1458 il processo è ancora indeciso. Il Duca scrive[58] infatti al suo Commissario dell’Oltrepò  di sbrogliare “la differenza vertente tra Michele Colli e il Podestà di Pozzolo per l’imputazione che fu fatta a Michele”.

Graziato per una mina di frumento

Il Duca scrive al Capitano del divieto: “Poiché gli uominidarme della compagnia del figlio del signor Michele hanno trovato un poveruomo di Pozzolo, chiamato Arrighetto, che conduceva una mina di frumento contro gli ordini nostri, intendiamo che tu procedi contro di lui. Abbiamo fatto grazia a quel pover’uomo per amor di Dio e ti diciamo che non devi procedere contro di lui ma rimettergli ogni pena e condanna (ASMi Missive 44. Milano, 17 ottobre 1458)

La sentenza è favorevole al Colli ma il Podestà di Pozzolo non intende pagare per tutti e così verrà convocato[59] alla Corte milanese. Non si presenta e verrà riconvocato[60]. Sei mesi dopo, la questione è ancora per aria. Il Podestà ha ricevuto un’altra convocazione a Milano ma non si presenta in quanto ci sarebbero due fratelli (Angelo e Nicolò da Brignano) che avrebbero intenzione “di ammazzarlo durante il cammino oppure a Milano”. Così almeno sostiene[61] Micheletto, aggiungendo che già ai due “gli bastò l’animo di volerlo ammazzare”, cioè hanno tentato di farlo fuori a Pozzolo “di notte tempo e poi buttarlo in un pozzo, della qual cosa si sono vantati alla presenza di più testimoni”. Micheletto è fermo nel difendere il suo funzionario: “Non voglio acconsentire alla morte sua, perché non fui mai becchino di persona alcuna”; poi la butta un po’ sul ridicolo: “Considerato che il Podestà è copioso di carne e grasso di persona, malamente potrebbe venire”. Se fosse davvero una questione di Stato “lo farei portare in braccio, se bisognasse, ma credendo che sia per colpa di quei giotti [malfattori] non mi pare necessaria la venuta sua”.

Poco dopo Micheletto riceverà[62] un’altra tirata d’orecchie: “I fratelli Pietro e Tomeno Ponzani, nostri cittadini di Tortona, ci hanno fatto grave querela perché, avendo loro un mulino sul fiume di Sclivia (sic), al quale gli uomini di Pozzolo sono obbligati ad andare a macinare i loro grani”, e sarebbe il Molino del Manuele, “voi glielo proibite e li costringete ad andare a macinare ad una altro molino che avete preso a fitto”. “Queste sono cose disoneste e che fanno sdegnare i nostri cittadini”, taglia corto il Duca, ordinando che tutti tornino a macinare al Molino del Manuele.

Micheletto Attendolo insiste[63] a difendere i propri sudditi: “Michele [Colli] da Vigevano pretende da loro 12 fiorini al mese per il tempo che stette qui all’ufficio sulla frose delle biade, e in più gli domanda 38 ducati che, secondo lui, la Comunità gli è obbligata a far dare dal passato Podestà”. Non è vero niente, sostiene, “perché quando Colli venne qui all’officio, si accordò con gli uomini per 3 mesi e non per più, per i quali 3 mesi il Colli è già soddisfatto”. In definitiva, per non costringere i suoi sudditi ad andare fino a Milano, chiede che quella causa venga affidata al Podestà di Tortona o di Alessandria. Ma la burocrazia sforzesca è ancora più ostinata e insiste[64] ancora perché “mandando Noi alle parti di là Michele [Colli] da Vigevano per alcune faccende, abbia la sua soddisfazione dagli uomini di Pozzolo per quei 38 ducati che gli restano”.

Non sappiamo come finì veramente questa complicata bega. Tre anni dopo, Micheletto Attendolo muore nel suo Castello di Pozzolo. Il figlio Raimondo comunica[65] al Duca: “Giunto che fui a casa, trovai il signor mio padre molto aggravato, e così passò di questo mondo”. Arriva a Pozzolo una lettera[66] di condoglianze del cugino Duca, diretta alla vedova Isabella, e ai figli Raimondo e Giacomo: lo Sforza si duole “gravemente, pur considerando che Micheletto era già in decrepita età et che ha speso i suoi anni tanto laudabilmente et virtuosamente”.  Micheletto ha vissuto circa 83 anni, che per quei tempi sono un record.

Michele Colli lavorava ancora al servizio degli Sforza. Lo troveremo ancora fra i personaggi che cinque anni dopo organizzano[67] il viaggio da Genova a Sale della promessa sposa del nuovo Duca Galeazzo Sforza. E più tardi sostituirà suo fratello Gerardo all’Ambasciata milanese a Venezia.

 

NOTE

[1] ) N.Covini, L’esercito del Duca. Roma 1998.

[2] ) Archivio di Stato di Milano (d’ora in avanti ASMi), Missive 34. Milano, 15 dicembre 1456.

[3] ) ASMi, Missive 34. Milano, 14  ottobre 1456.

[4] ) ASMi Sforzesco 715. Alessandria, 21 dicembre 1456.

[5] ) ASMi Missive 34. Milano, 1 febbraio 1457.

[6] ) ASMi Missive 33. Milano, 13 febbraio 1457.

[7] ) A Tortona il Guidobono poteva contare sui raccolti dell’Abbazia di San Marziano, che era stata retta da suo fratello Ilario, mentre di Carbonara era il diretto feudatario.

[8] ) ASMi Missive 34. Milano, 23 febbraio 1457.

[9] ) ASMi Missive 34. Milano, 28 febbraio 1457.

[10] ) ASMi Missive 34. Milano, 15 luglio 1456.

[11] ) ASMi Sforzesco 411. Genova, 3 agosto 1456.

[12] ) ASMi Missive 34. Lodi, 8 settembre 1456.

[13] ) ASMi Missive 34. Milano, 12 novembre 1456.

[14] ) ASMi Missive 33. Milano, 2 marzo 1457. “Ma non vorremmo aprire la via ad altri di richiedere simili  licenze”, diceva la lettera.

[15] ) ASMi Missive 33. Milano. 8 marzo 1457.

[16] ) ASMi Sforzesco 769. Tortona, 26 aprile 1457.

[17] ) ASMi Missive 33. Milano, 1 maggio 1457. Era genero di Antonio Guidobono.

[18] ) ASMi Missive 33. Milano, 14 maggio 1457.

[19] ) ASMi Missive 33. Milano, 24 maggio 1457.

[20] ) ASMi Missive 34. Milano, 2 maggio 1457.

[21] ) ASMi Missive 34. Milano, 8 giugno 1457.

[22] ) I.Cammarata, La Torre della discordia, Novinostra Anno XLIII, n.4, dicembre 2003.

[23])  ASMi Sforzesco 715. Bosco, 16 giugno 1457.

[24] ) ASMi Missive 34. Milano, 17 giugno 1457.

[25] ) ASMi Missive 33. Milano, 14 luglio 1457.

[26] ) ASMi Sforzesco 769. Tortona, 7 agosto 1457.

[27] ) ASMi missive 34. Milano, 28 settembre 1457.

[28] ) ASMi Sforzesco 769. Pozzolo Formigaro, 30 settembre 1457.

[29] ) ASMi Sforzesco 1586. Milano, 11 ottobre 1457.

[30] ) Viva da Codignola era stato a Pozzolo Formigaro, non sappiamo per quale ragione, e aveva presentato al Duca una relazione su questa sua visita. Era probabilmente un parente o comunque un compaesano di Micheletto Attendolo.

[31] ) ASMi Missive 34. Milano, 4 ottobre 1456.

[32] ) Il grande quadro (circa 3 metri x 2) si trova attualmente al Louvre e venne dipinto attorno al 1450, quindi prima che Micheletto si ritirasse a Pozzolo Formigaro.

[33] ) “A 9 di novembre la magnifica d.Isabella da Diano si partì da Milano per andare a Pozzolo Formigaro” (Biblioteca Ambrosiana, Trotti 230).

[34] ) ASMi Sforzesco 768, Pozzolo Formigaro, 1 dicembre 1454. Isabella si firma “Comitissa Cotignole”.

[35] ) ASMi Sforzesco 768, Pozzolo Formigaro, 3 dicembre 1454

[36] ) ASMi Sforzesco 768, Pozzolo Formigaro, 3 dicembre 1454.

[37] ) ASMi Missive 20, Milano, 6 dicembre 1454.

[38] ) ASMi Missive 34. Milano 2 maggio 1457.

[39] ) ASMi Missive 34. Milano, 8 giugno 1457.

[40] ) ASMi Sforzesco 715. Bosco, 16 giugno 1457.

[41] ) ASMi Missive 34. Milano, 5 luglio 1457.

[42] ) ASMi Missive 34. Milano, 8 luglio 1457.

[43] ) ASMi Missive 34. Milano, 18 agosto 1457.

[44] ) ASMi Missive 34. Milano, 28 gennaio 1458.

[45] ) ASMi Missive 44. Milano, 11 aprile 1458.

[46] ) Questo mulino, detto Mulino del Manuele, è un impianto tuttora esistente e raggiungibile dalla strada Pozzolo Formigaro- Villalvernia. Sorge sulla riva sinistra della Scrivia in territorio di Villalvernia. I Pozzolesi avevano un accordo per andarvi a macinare il loro grano.

[47] ) Il suo cognome fa chiaramente capire che questo armigero era un compaesano o parente degli Attendolo, che aveva seguito fino a Pozzolo.

[48] ) ASMi Famiglie 55. La lettera è senza data.

[49] ) Interrogato.

[50] ) ASMi Missive 49, Milano, 21 luglio 1460 e 13 settembre 1460.

[51] ) ASMi Sforzesco 769, Pozzolo Formigaro, 11 febbraio 1458.

[52] ) ASMi Sforzesco 769. Pozzolo Formigaro, 5 marzo 1458.

[53] ) ASMi Sforzesco 769. Pozzolo Formigaro, 9 marzo 1458.

[54] ) ASMi Sforzesco 769, Pozzolo Formigaro, 29 marzo 1458.

[55] ) ASMi Sforzesco 769, Pozzolo Formigaro, 11 aprile 1458.

[56] ) ASMi Sforzesco 769. Pozzolo Formigaro, 18 aprile 1458.

[57] ) ASMi Missive 44. Milano, 6 maggio 1468.

[58] ) ASMi Missive 44. Milano, 16 agosto 1458.

[59] ) ASMi Missive 45. Milano, 16 febbraio 1459.

[60] ) ASMi Missive 45. Milano, 15 giugno 1459.

[61] ) ASMi Sforzesco 769. Pozzolo Formigaro, 11 febbraio 1460.

[62] ) ASMi Missive 44. Milano, 20 luglio 1460.

[63] ) ASMi Sforzesco 769. Pozzolo Formigaro, 22 luglio 1460.

[64] ) ASMi Missive 49. Milano, 13 settembre 1460.

[65] ) ASMi Sforzesco 770, Pozzolo Formigaro, 16 febbraio 1463.

[66] ) ASMi Missive 52, Milano, 22 febbraio 1463.

[67] ) Vedi Novinostra, dicembre 2010. I.Cammarata, 1468, Il matrimonio del secolo passa per la Frascheta.


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