Archivio mensile:Dicembre 2022

Francavilla Bisio

    Avendo desiderato essere ammesso a far parte, quale socio sostenitore, della Società Storica del Novese, fui invitato a collaborare alla rivista Novinostra con qualche articolo di carattere storico, interessante la regione Novese; ben volentieri ho aderito.

È naturale che incominci con le due località, prossime a Novi, di Francavilla e di Bisio, che particolarmente interessano non soltanto me, ma nei secoli interessarono la mia famiglia.

    Francavilla e Bisio nell’ età feudale, ebbero vita separata. I due borghi facevano Comune a sé, con i loro due castelli, fino a che, essendo venuti verso la fine del secolo XVIII in possesso entrambi della famiglia alessandrina dei Guasco, nell’anno 1873 furono uniti in un solo Comune con la denominazione Francavilla Bisio.

    Brevi cenni storici esporrò separatamente delle due località.

    Incomincerò con Bisio. Questo luogo anticamente era compreso nel Comitato di Tortona, poi passò sotto i Marchesi di Gavi. Di costoro e del relativo marchesato, uno dei più antichi d’Italia, parla diffusamente lo storico Cornelio Desimoni, sia nella sua monografia sui Marchesati d’ Italia, come, e specialmente, negli Annali storici della città di Gavi.

    Il Marchese di Gavi. Alberto, nel 1127 diede Bisio all’Abate di Sant’Andrea di Sesto (come allora si chiamava l’odierna Sestri Ponente), dell’ordine dei Benedettini Cistercensi, il quale esercitò su Bisio effettiva signoria, pur lasciandolo godere dai Signori che, dal nome della località, si dissero Signori di Bisio.

L’Imperatore Arrigo VII, con diploma 2 febbraio 1312, infeudò Opizzino Spinola di Lucoli diversi paesi, sotto la denominazione di Valle Scrivia: in detto feudo fu compreso anche Bisio, per quanto appartenesse alla valle del Lemme. L’Abate di Sant’Andrea di Sesto faceva opposizione all’infeudazione di Biso allo Spinola e continuò a tenere questa terra fino a che, con permesso del Papa, non rinunciava al suo possesso.

Fu allora che l’Imperatore Sigismondo, che era disceso in Italia per incontrarsi con il Pontefice e per mettere ordine alle cose politiche italiane, distaccò Bisio dal feudo marchionale di Gavi, al quale in realtà era rimasto sino ad allora aggregato, non ostante i Marchesi di Gavi ne avessero dato il possesso all’Abate dei Cistercensi, e il 15 luglio 1414 lo infeudava a Agostino Doria, del fu Tobia, investendolo del mero e misto imperio e del diritto di spada fino all’ultimo sangue.

    Nel detto anno 1414 moriva l’ultimo degli antichi Marchesi di Gavi, sui possessori originari, e il feudo di Gavi ritornava alla Corona.

    L’escorporazione di Bisio da Gavi e la sua infeudazione al Doria fu un giuoco di buona politica, più utile all’Imperatore e alla causa dell’Impero, che non al Doria stesso.

Sigismondo, come i suoi predecessori, si era illuso che, venendo in Italia avrebbe sottoposto gli avversari e entusiasmato gli amici, invece ovunque incontrò indifferenza, diffidenza e in più luoghi ostilità.

    Allora, prima di ritornare in Germania, allo scopo di premunirsi specialmente contro Filippo Maria Visconti che non gli si era rivelato amico, cercò di appoggiarsi a Genova e, volendo preservare la Repubblica da un attacco improvviso da parte di Milano e darle modo di prepararsi ,permise all’alleata, a guisa di antemurale, il feudo di Bisio, staccandolo dal marchesato di  Gavi e dandolo ai Doria, la cui famiglia da tempo immemorabile parteggiava per l’Impero; e perché il Doria potesse agire con massima energia contro chiunque attentasse all’integrità del feudo stesso e agli interessi dei feudatari ligi all’Impero, e quindi a quelli stessi dell’Imperatore, lo creò Marchese di Bisio.

    Nella seconda metà del sec. XV Antonino Guasco , appartenendo alla storica famiglia alessandrina con Scipione (ricordato anche dal Tasso nella sua Gerusalemme Liberata ) aveva partecipato  alla prima Crociata, e che era comparsa in Alessandria negli anni 1165-1168 per contribuire con altre famiglie alla fondazione di questa città, pensò di accaparrarsi Bisio acquistandolo il 6 aprile 1473 da Filippo Doria; e il Duca di Milano , Galeazzo Maria Sforza , il 12 gennaio 1474, investì anche lui con i medesimi diritti di  mero e misto imperio e di spada fino all’ultimo sangue e con ogni giurisdizione e obbedienza.

     In virtù di tale investitura, uguale a quella dell’Imperatore Sigismondo ad Agostino Doria, Bisio godette di una larga autonomia, quasi, cioè come un piccolo Stato sovrano, al quale mancava solo il diritto di batter moneta, per essere parificato ai grandi feudi principeschi imperiali, come era già avvenuto per il vicino feudo di Tassarolo degli Spinola.

Il detto Antonio Guasco, oltre ad essere infeudato di Bisio, lo fu pure di Gavi, di Ottaggio (ora Voltaggio) di Fiaccone (ora Fraconalto), di Parodi e di tutto il Parodese, tutte le località nelle vicinanze di Bisio. Morto nel 1481, fu sepolto con la moglie Sigismondina Spinola in un antico mausoleo, che ancora oggidì si ammira, sopra la porta laterale verso la piazzetta, nell’interno della chiesa parrocchiale di Gavi, del quale luogo, come si disse, egli era feudatario.

Da Antonio, Bisio rimase sempre nella famiglia Guasco fino a che, perduta con l’abolizione della feudalità la qualità di feudo, continuò ad essere come è tutt’ora, bene prediale della famiglia e suo titolo marchionale: sono quindi ormai 488 anni che Bisio è posseduto ininterrottamente in linea retta, cioè di padre in figlio, dalla famiglia dei Guasco.

Il suo castello ché, tale era nel medioevo come confermato dalle investiture che lo denominano castrum Bisii, mentre in seguito, venendo meno il suo scopo di difesa, andò trasformandosi in maniero, fu costruito in varie epoche, e specialmente nell’interno si rilevano i diversi tipi di struttura.

Vi è una parte antica, che rimonta all’epoca nella quale era Signore di Bisio l’Abate Mitrato dei Cistercensi, e ha annessa la Cappella, i cui quadri sacri, dei quali uno raffigurante San Bernardo fondatore dei Cistercensi, e vari arredi sacri, indica che essa sussisteva già in detta epoca. Altra parte, il cui fabbricato è di maggiore mole, si fa risalire alla fine del sec. XVI, o al principio del sec. XVIII, e altra fu costruita soltanto al principio del sec. XIX, con un’aggiunta ancora posteriore.

Le presenti notizie sono state desunte specialmente dal Dizionario Feudale degli Antichi Stati Sardi e della Lombardia, opera poderosa, nota fra i cultori di storia della quale fu autore un personaggio della famiglia, Francesco Guasco (1847-1826), mio padre.

Emilio Guasco

(da Novinostra N.3 – 1962)

(continua)


Pubblicato in storia di novi il .

Novi e il novese durante la guerra per la successione austriaca – pt.2

(da Novinostra 1962/4)

6 – Le difficili trattative per la resa di Genova e la successiva dura occupazione austriaca.

    Le Trattative per la resa – decisa, come già visto, dai Serenissimi – vengono iniziate ai primi di settembre del 1746 col duro generale austriaco Brown.

    Come osserva il Vitale – ai cui fondamentali scritti ci atterremo particolarmente nell’ esposizione che segue – poco giova a mitigare il suo aspro atteggiamento l’opportunistica affermazione dei parlamentari liguri che la guerra contro l’impero è stata imposta alla Repubblica da momentanee difficoltà di difesa, ma che … la devozione dei Genovesi alla Imperatrice Maria Teresa è rimasta immutata. E poco serve poi, anche presso il Generale Botta – ben presto sopraggiunto da Novi per condurre a termine le trattative – il ricordo della sua ascrizione alla nobiltà cittadina decretatagli da Genova nel 1745.

    Le trattative sono invero assai difficili; vi è però, un punto di convergenza fra i negoziatori che, alla fine, porta all’accordo: il comune desiderio di escludere il Re di Sardegna.

    Da un lato, infatti, il generale Botta non ha solamente ricevuto dalla Corte di Vienna la direttiva di spillare a Genova la massima possibile quantità di denaro, ma anche quello di ostacolare in ogni modo l’ingrandimento del Piemonte e particolarmente di frenare le sue mire sulla Liguria.

    Dall’altro lato, i Genovesi sono addirittura ossessionati dal timore del Regno di Sardegna, che ormai da tempo conduce, con tenacia e successo, la sua politica avanzata verso la Lombardia e l’accerchiamento della Repubblica: talché essi pensano che una occupazione austriaca di Genova può essere un malanno doloroso ma transitorio, mentre un’eventuale occupazione piemontese potrebbe significare la fine della Repubblica.

E, le loro preoccupazioni non erano infondate: quello che allora tanto temevano, doveva accadere meno di un secolo dopo, quando col trattato di Vienna del 1815 – che chiuse l’agitato periodo della Rivoluzione e di Napoleone – la Liguria fu definitivamente annessa al Piemonte.

    Ma tutti gli Italiani oggi ben sanno che il sacrificio dell’autonomia ligure, considerato dai Genovesi in quel momento così penoso ed umiliante, rappresentò invece, sostanzialmente, il primo fortunato e deciso avviamento verso l’auspicata unità nazionale italiana.

    Si determinava comunque, in quel settembre del 1746 – osserva ancora l’insigne storico di Genova – una situazione paradossale: i Genovesi vedevano nel generale Botta, nel contempo il nemico oppressore e il più valido sostenitore della loro presente e futura indipendenza insidiata dal Re di Sardegna.

    In conclusione, il Botta – continua sempre il Vitale – agitando lo spauracchio della definitiva occupazione sabauda, il 6 settembre ottiene la resa di Genova: consegna delle porte, cessazione di ogni ostilità, prigioniero di guerra l’esercito, consegna delle armi e dell’artiglieria, obbligo di soddisfare rigorosamente le contribuzioni imposte dall’autorità militare ed infine – condizione particolarmente onerosa ed umiliante (fa ancora scuola l’esempio di Lugi XIV!) – l’obbligo del Doge e dei Senatori di recarsi a Vienna per presentare le scuse all’Imperatrice Maria Teresa. Ma, almeno Genova evita una vera e propria occupazione militare ed il saccheggio! Il forte di Gavi è anche ceduto, mentre la guarnigione spagnola assediata in Tortona resiste fino al 27 settembre, quando – scarsa di viveri e priva ormai di ogni possibilità di soccorso – si arrende alle condizioni di essere imbarcata e restituita in patria a cura dell’assediante.

    Inutile dire che, all’annunzio del realizzato accordo circa la resa di Genova, enorme è l’indignazione del Re di Sardegna, escluso dalle trattative, pur essendo, ufficialmente, il comandante supremo delle forze alleate in Italia: egli definisce l’accordo stesso < una odiosa capitolazione> degli Austriaci ai Genovesi, non lo riconosce e continua l’assedio di Savona, eroicamente difesa da Agostino Adorno.

7 – La sollevazione Genovese di Balilla ed il ripiegamento degli austriaci su Novi.

    Intanto la situazione va rapidamente evolvendo: il Botta – che ha posto il suo quartier generale a Sampierdarena e che segue fedelmente le due accennate direttive della Corte Imperiale  – si rende del tutto <spiacente a Dio ed ai nemici sui> : Genova diventa , di giorno in giorno più indignata per le enormi contribuzioni che egli impone e per la brutalità delle sue truppe ,mentre, dall’altro lato, Carlo Emanuele III lo accusa di sentirsi troppo genovese e di avere <criminali compiacenze> per i suoi compatrioti.

    In verità, scrive il Vitale, il generale Botta, nato a Pavia da padre lombardo e madre di Parma (il nome Adorno era stato portato in dote, con alcune terre a Silvano d’Orba, da una gentildonna genovese ad un suo antenato) non era, ne aveva alcun motivo di sentirsi genovese: erano quindi infondati i rimproveri del Re Sardo, come quelli dei supposti concittadini contro il nuovo Coriolano.

    Egli aveva vissuto sempre nell’ombra dell’Impero austriaco e, da buon generale, senza troppo uso di accorgimenti o infingimenti politici, mirava a raggiungere il ripetuto doppio intento di Vienna: fare in Genova più quattrini possibile ed ostacolare le ambiziose aspirazioni dell’alleato Re di Sardegna.

Come è noto, alla fine i Genovesi, esasperati, il 5 dicembre 1746 dopo l’episodio del leggendario Balilla si sollevano in massa e cacciano gli Austriaci.

    Il Botta deve ripassare con le sue truppe la Bocchetta, travagliato nella triste ritirata dai vallegiani, che assaltano i reparti sui fianchi e sul tergo. Si ritrae così, sino a Novi, nella cui zona raggruppa tutte le truppe sparse nei presidi del Genovesato e della Lombardia, in attesa del rientro in Provenza dell’armata di Brown, che però solo il 1 febbraio ripasserà il Varo, sulla via del ritorno.

Campagna del 1747

    Nell’anno 1747 – ultimo della guerra di successione d’Austria, anche se la pace fu firmata ad Aquisgrana solo il 18 ottobre 1748 – si ebbe, fra l’altro, la memorabile vittoria dei Piemontesi sui Francesi all’Assietta, vittoria che, analogamente a quella non meno celebre riportata in precedenza a Torino nel 1706, riveste notevole importanza ai fini del sempre maggior rafforzamento politico militare  dello Stato dei Savoia, con quelle lontane favorevoli conseguenze, ai fini dell’unità nazionale italiana, che tutti ben conoscono.

1 – L’assedio di Genova.

    Nello stesso anno 1747 si ebbe anche uno dei più famosi assedi di Genova. Il Botta umiliato dallo scacco subito, si predispone alla rivincita, quando viene sostituto, in Novi, nel comando dell’armata austriaca, da una ormai vecchia conoscenza – il generale Schulemburg – con l’ordine di impadronirsi di Genova.

    Dopo vari scontri secondari – alla Madonna della Vittoria, a Rossiglione, a Capanne di Marcarolo e altrove – gli Austriaci l’11 aprile 1747 ridiscendono la Bocchetta, mettendo a orrendo sacco le Valli della Polcevera e del Bisagno (più di 20.000 abitanti ripararono entro Genova, rendendo ancor più grave la sua già difficile situazione) ed iniziavano le operazioni per l’assedio della città.

    Eventi politico-militari si succedettero in quel periodo nei due opposti campi e con contrastanti conseguenze, mentre l’assedio si protraeva, con frequenti scontri tra Austro-Sardi e forze genovesi, fra le quali numerose bande di intrepidi valligiani, generalmente comandati da nobili.

La Francia aiutava Genova come poteva: alla fine inviò, come comandante, il noto Dica di Richelieu (il cui nome ancor oggi porta uno dei vecchi forti sulle alture ad et della città) uomo simpatico, elegante, vigoroso, che alternava le attività militari e diplomatiche con le operazioni … galanti; riuscendo però meglio nelle prime che nelle seconde, come confessò egli stesso poi nelle sue < Memorie>.  

     Alla fine gli Austro-Sardi si trovarono nella necessità di dover togliere l’assedio: le ostilità però, nel Genovesato, si protrassero sino al 15 giugno 1748, quando gli Austriaci si ritirarono, carichi purtroppo di bottino, avendo saccheggiato il paese sino all’ultimo.

2- Piemonte e Genova alla pace di Aquisgrana.

    Alla pace di Aquisgrana (18 ottobre 1748) che riconosceva Imperatrice ed erede degli Stati austriaci Maria Teresa – mostratasi sovrana non inferiore ai più grandi imperatori – chi più guadagnò fu il Re di Sardegna. Questi, infatti, che aveva già ottenuto dal 1735, conseguenza della sua partecipazione alla precedente guerra per la successione di Polonia, il Novarese, il Tortonese e i feudi delle Langhe, guadagnò ora l’Alto Novarese, nonché il territorio di Vigevano, la Lomellina, Voghera e tutto l’Oltrepò Pavese, con Bobbio. Con tali acquisti, egli otteneva anche il notevole vantaggio di portare i confini orientali del Regno in corrispondenza dell’importante linea strategica di ostacolo: diramazioni settentrionali dell’Acrocoro dell’Antola – Stretta di Stradella – Po – Ticino.

    Genova presa nel groviglio dei formidabili interessi europei, dovette rinunciare definitivamente a favore del Re di Sardegna ai feudi delle Langhe ed all’espansione sulla Riviera, ma riebbe tutto il territorio del 1740 – compreso il Novese – ed il marchesato di Finale.

    Osserva al riguardo il Pollini: <Genova aveva riacquistato la sua libertà, ma a nessuno sfuggiva che questa era più apparente che reale e sempre più minacciata, perché lo Stato dei Savoia, che, alle sue spalle, continuava a crescere di importanza territoriale, demografica, politica e militare, aumentava sempre più, di necessità, la pressione, per la fatale spinta che tutti i popoli esercitano in direzione del mare, respiro e vita dei loro commerci e della loro economia. D’altra parte, come già visto, questa era la via che doveva portare all’unità d’Italia.

3- Fine dell’infausta occupazione austriaca a Novi.

    La tanto dolorosa occupazione austriaca a Novi – particolarmente dura quando, dopo la cacciata da Genova, gli imperiali vennero qui a sfogare la loro rabbia – si prolungò notevolmente anche dopo la cessazione delle ostilità e la conclusione della pace.

    Allorché alla fine, il 13 febbraio 1749, l’ultimo reggimento di germanica nazione lasciò la nostra Novi, grande fu il tripudio della cittadinanza, come di tutto il Novese. Ne è testimonianza, tra l’altro, l’ingenua poesia scritta allora da un nostro concittadino – già altra volta ricordata in Novinostra – che finiva con i versi: < Pur sebben siam derelitti – Ed afflitti – E d’argento e d’oro privi – Ringraziam dobbiamo Iddio – Cristo e pio che siam sani e che siam vivi>.

    Il tripudio toccò il vertice – come risulta da vecchie carte – all’arrivo di S.E. Agostino Pinelli nuovo Governatore, inviato da Genova … con la comitiva di alcuni nobili Genovesi Patrizi, preceduti da due liguri compagnie del Regg. Bembo, costeggiato altresì da un buon numero dei nostri cittadini a cavallo e seguito da scelte milizie di fucilieri, che sotto la guida del Sig. Capitano Giuseppe Bianchi chiudevano la marcia.

    Sotto le acclamazioni del Popolo, che con lietissime voci di applauso fu tutto al suo arrivo giubilante, entrò festoso il Pinelli sulle 24 e mezzo per la Porta Cavanna, a prendere a nome e per la Repubblica Serenissima, della città l’attuale possesso.

    E quantunque  venisse la solenne entrata incomodata da spessa pioggia, che sul far della sera cominciò a cadere, pure tale fu la calca, che ripiene a folla e le vie e la piazza, per ove passar doveva infinità di persone, altro non si udiva che i festosi gridi Evviva la Serenissima Repubblica di Genova ; evviva San Giorgio; alle quali voci facendo eco il festeggiante suono dei sacri bronzi risuonò parimente per un’ora continua il strepitoso rimbombo dei fucili, che vomitando ancor essi dalle infuocate bocche i suoi lampi, accompagnarono con lingue di fuoco il giubilo di cittadini ed il canto solenne <Te Deum> che alla presenza dello stesso Governatore, in rendimento di grazia a sua Divina Maestà intuonossi immediatamente nel Duomo ….

    Ed a questo punto, anche noi, ricordato quel solenne … intonamento del canto di riconoscenza all’Altissimo da parte dei nostri antichi padri, metteremo, come essi, una definitiva pietra su questa infausta guerra per la successione d’Austria, conosciuta anche con il nome di Guerra della Prammatica Sanzione.

da Novinostra 1963/1

                                                           ALBERTO MONTESORO
(Generale i Divisione)

                                                                                                                                                  


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