Caffè Novesi dell’Ottocento

A proposito di vecchi Caffè.Chi volesse risalire alle origini potrebbe rifarsi a Montesquieu e alle sue “Lettere Persiane” che sono del primo Settecento: “Il caffè è molto in uso a Parigi. V’è un gran numero di locali pubblici dove lo si serve: in alcuni si chiacchera, i altri si giuoca…”

O senza correre a Parigi. Una bottega dei caffè si apre a Venezia nel 1685, nota Molmenti. C’è poi la omonima commedia del Goldoni, rappresentata la prima volta nel 1750. In breve: proprio nel raffinato Settecento quasi tutte le botteghe di Piazza S. Marco sono botteghe del caffè. E non parliamo del famoso giornale di Pietro Verri, “Il Caffè”, fondato nel 1764.

Qui da noi è troppo presto. Io penserei piuttosto a qualche antro oscuro con di gran botti in fila e a volte, se permettete, come nota di colore, il lumicino ad olio a tutte le ore della giornata. Comunque, vi ricordate quelle tipiche osterie dove incappa Renzo, nei Promessi sposi? Non sarà stato qui molto diverso da Gongorzola, per esempio. Sappiamo anche di un certo antro sotterraneo, una cantina vera e propria, dove convenivano i canveini come altrettanti congiurati, i bravi “canveini” ossia quelli della canapa, un’industria che diede qui molto da fare, fiorente ancora un secolo fa (1). Non sia per questo, mi si domanda, che “canva” vuol dire qui “canapa” e “cantina”? No “canva” deriva da “cànova” sinonimo di taverna, che potrebbe essere una cantina. Le nostre taverne chiudevano i battenti ai rintocchi dell’Avemaria.

Il Caffè, la Bottega del caffè, è piuttosto da vedersi nell’Ottocento.

Si ingentiliscono i costumi, crescono i bisogni del vivere civile. Col montare a poco a poco su per i gradini della scala sociale si forma una nuova borghesia. Non che scompaiono le vecchie osterie; ma accanto ad esse, e come la locale Farmacia, il Caffè va acquistando un suo carattere particolare e non solo ricreativo, ma artistico, o politico, e in certe occasioni vi trova pascolo pur la polizia. Vi si danno convegno gli oziosi? non solo ma i più quieti ed irrequieti, i più timidi, i più arditi; vi si commentano i fatti del giorno, vi si covano sotto le più audaci novità, apertamente o segretamente il Caffè è palestra di tutti e di nessuno.

Ma lasciando le occasioni straordinarie dell’Ottocento, come il telegrafo, la strada ferrata, ecc. i viaggi si fanno più frequenti, gli scambi più attivi, e rassodandosi certe posizioni, compaiono il “rentier” ed il pensionato, gente che ha tempo da perdere e l’impiega volentieri in un tavolo da gioco. Non mancano i giovani alle loro prime armi e poi gli stessi, reduci a volte da quelle tali campagne risorgimentali, con ognuno la sua da raccontare.  Si diffonde il bisogno della cultura, il giornale quotidiano diviene una necessità. In qualcuno di quei locali si trova perfino penna carta e calamaio ed anche chi in un angolino vi sbriga la sua corrispondenza. Con quelle sediole di velluto, vi ricordate? Divani specchi e tavolini di marmo il locale assume un aspetto tutto suo, un po’ fosco, se volete, un po’ buio un po’ fumoso ma tranquillo.

E’ l’età dei famosi aperitivi, degli amari, come quello che è proprio nato qui, del sorbetto – se non sempre, nelle occasioni più solenni come la Madonna della Neve- e l’orzata e il capillè che io non saprei se non ch’era una specie di cocktail, un intruglio dunque, ma innocente, avanti lettera.

Deprecata o rimpianta, questa particolare civiltà è un ricordo del passato. I caffè odierni? Sono, ha detto bene qualcuno, degli inferni brucianti. Non si è più difesi nemmeno dalla strada perché i muri sono diventati di vetro, le luci al neon vi offendono gli occhi, le juke-box vi straziano gli orecchi: dove raccogliersi e scriver due righe o anche solo leggere il giornale? Vi si perseguitano i sedentari all’antica non fosse che la scomodità delle sedie dette funzionali; i bigliardini hanno preso posto del bigliardo e chi volesse mettersi a giocare, come lo potrebbe in certi luoghi di maggior concorso? Ci sono poi quelli dove si ritira lo scontrino, si fa la coda e via… Addio vecchio Caffè alleato dei romantici e romantico tu stesso!  Il tempo ha fatto giustizia di ben altro che di tutto quel passato.

Questo non è che un rapido cenno d’indole generale ; ma noi si aveva fisso l’occhio per così dire su alcuni nostri esemplari precisamente , il Caffè Rebagliati, il “Balustri” o “della  Srada Ferrata” , quello “Basso” fra quanti se ne potrebbero qui ricordare chè in questo non potremmo da invidiare nulla a nessuno, e poi quello del “Reale” , già Bosero, e poi Aste; e il Caffè della Sirena, il Caffè del Teatro o da “Giuspein”, tranquille oasi di pace: tra lente spire di fumo e un più lento volger di giorni tutti uguali i soliti amici consumavano ivi gli anni e il tabacco . In quello di “Balustro” si diceva convenisse un’accolta di artisti nientemeno. Lo stesso Albalustri, il padrone, era pittore, ed io ricordo un suo ritratto a carboncino dove pur senza pretese non mancavano tutte quelle qualità che sul finire dell’Ottocento facevano l’artista probo esattamente. Di tali saggi a bianco e nero era qui maestro il “Cavanin”, che ho conosciuto vecchio in Casa Spinelli e di cui innumeri sono ancora i ritratti nei salotti specialmente dei nostri maggiori. È il tempo di Isola, di Traverso, del Dini, di Bobbià, non si pensi a volte che in fatto d’arte a Novi si dormisse. E sono gli anni della Boème, non dico quella cantata, ché Novi anche in questo si ebbe i suoi campioni, come potrebbe avere la sua storia.

Un ennesimo pittore dei nostri si sarebbe potuto incontrare al Caffè Rebagliati, all’angolo di via Serra con via Roma, un pittore della famiglia del padrone, se non erro, di cui non so se mai nessuno abbia parlato. Il pittore Rabagliati: che se un’arte compassata e fredda fa parer uggiose certe sue tele di maggior impegno (e ce ne sono alcune in Collegiata come la tela di S. Isidoro, di S. Crispino, il Calzolaio e mi dicono quella di S. Anna) in certi studi di una sola figura, mettiamo pure a volte siano copie, è degno del massimo rispetto. Chi sa dove sono finiti quelli stessi che io ricordo di aver veduto? O non sia il caso di rimetterli in onore?

Pittori a parte, un caro amico di qui che se la passa, beato lui, a Monterosso al Mare, il Comm. Giuseppe Fenoglio (diciamo il nome addirittura senza pretesa di volerlo per questo immortalare – a ciò penserebbe egli stesso preparando per le stampe un qualcosa che a suo tempo si vedrà) soleva piantarsi da ragazzo con tanto di occhi sbarrati, mi diceva, davanti al caffè Rebagliati, le mani sprofondate nelle tasche a cercarvi quei pochi spiccioli che per avventura vi si trovassero. Nei casi più fortunati (credo bastassero quattro soldi) si faceva ardito, entrava deciso, risoluto a battersi al bigliardo con chicchessia. Non so come di solito ne uscisse, in ogni caso solo impaziente di ritentare la prova.

Un altro Caffè, Caffè “Basso”, ci richiama alla memoria un nome caro, degno sempre di tutto il nostro rispetto. Non c’è forse bisogno che io dica di chi si tratta. Nella breve introduzione di quel libro di Versi pubblicato nel 1924 a 19 anni dalla sua morte, si accenna al “grande ingegno e alla strada luminosa che aveva intrapreso verso la gloria”. È più che probabile infatti che se una invida sorte non ce lo avesse rapito nel bel del fiorire, l’Avv. Giacomo Basso (il Caffè era condotto dai suoi famigliari) avrebbe saputo portare in alto il suo nome, e dare lustro alla sua e nostra città che molto già si attendeva da lui fino dalle sue prime prove. Quel libro reca pure, come viatico, una lettera di Arturo Graf. La copia poi che io conservo, mi si permetta di dirlo, è firmata dalla vedova, la compianta signora Maria Basso Pernigotti: quello che per me significa non è a dirsi in due parole.

Ma continuiamo il nostro giro. Da serio ad ilare, come intitolava una rubrica, in uno dei nostri settimanali di quel tempo. Il Caffè detto della politica dal genere dei personaggi che lo frequentavano, e in senso ironico naturalmente, era piuttosto quello del Teatro. Il corifeo un certo Predasso “u Sciampàn”.Il Dini, si veda il quadro qui riprodotto: non avrebbe potuto raffigurarlo altrimenti: un atteggiamento declamatorio che potremmo definire alla Rabagas, se qualcuno dei miei lettori rammenta ancora questa commedia, famosa allora, di Vittoriano Sardou.

Evidentemente lo sentenzioso Sciampàn sta pronunciando una di quelle sue tipiche frasi che i maligni si incaricavano di divulgare via via che fiorivano sulle sue labbra. Questa ad esempio: – E la Fransa ci va aprovo!

 Un altro eroe da Caffè il vecchio Puggein. Ma questa è cronaca soltanto di ieri e parlando di lui verremmo a dir cose a tutti note. In provincia dove siamo certi echi permangono a lungo. È tempo invece di chiudere i battenti. Non è il caso di fare le ore piccole anche qui.

  • Vedi Eraldo Leardi – NOVI LIGURE – Lo Sviluppo topografico, demografico ed economico negli ultimi quattro secoli. – Tip. Ferrari Occella & C – Alessandria 1962.

Angelo Daglio

  Tratto da NOVINOSTRA -N.3 -ottobre 1962


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