Archivi categoria: cognomi e nomi

Le origini Valborberine di Papa Francesco

di DANILO ROVEGNO

La sera del 13 marzo 2013 viene eletto sul trono di Pietro il Cardinal Jorge Mario Bergoglio che si definisce, nel Suo primo discorso, il Vescovo “preso quasi alla fine del mondo”.

Papa Francesco, è il nome che assume il nuovo Pontefice; nato a Buenos Aires il 17 dicembre 1936.

Il suo cognome lascia subito trasparire l’origine italiana.

Suo Padre Mario nasce a Torino il 2 aprile 1908 da Giovanni Angelo [Portacomaro (AT) – 1884] e da Rosa Vassallo [Piana Crixia (SV) – 1884]

Sua Madre Maria Regina Sivori nasce a Buenos Aires il 28 novembre 1911 da Francisco [Buenos Aires – 1874] e da Maria Gogna nata il 3 giugno 1887 in provincia di Alessandria. Continua a leggere


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La leggenda della principessa Gavina

di ANDREA MERLO

Si è più volte dibattuto il tema di una reale esistenza della principessa Gavina, la bella e giovane rampolla reale capace di dare il nome a Gavi, la città che l’aveva ospitata, quando era giunta, fuggiasca, dalla sua corte provenzale.

Ella non figura nella storia e di lei ci narra soltanto la leggenda, con una vicenda intrigante e suggestiva, capace di suscitare curiosità e interesse, anche se priva di riscontri certi.

E’ d’altronde questo aspetto che crea netta distinzione tra storia e leggenda. La prima si basa su ferrea testimonianza di dati scritti e riscontrabili, mentre la seconda si avvale soltanto del racconto basato su credenze popolari e sovente arbitrariamente arricchito nel passaggio da narratore a narratore, se non, addirittura, frutto di fantasiose immaginazioni. Continua a leggere


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PAOLO GIACOMETTI nel giudizio di un contemporaneo

Fra le tante carte, ricordi e vecchi documenti che lo scultore novese Pietro Lagostena conservava, ho rinvenuto due pagine del periodico “Il Teatro Illustrato“ che portano la data del 1884, riguardanti il commediografo novese Paolo Giacometti.

Se ne trascrive qui il testo integrale a beneficio di chi voglia conoscere il pensiero della critica contemporanea sull’illustre concittadino, quando egli era ancora in vita.

L’estensore dell’articolo che si firma “ Unus Nullus “ pare voglia fingere di offrire un benevolo giudizio su Paolo Giacometti e d’altra parte essere dispiaciuto di non poter nascondere quelli che per lui erano grossi difetti disseminati nella grande produzione giacomettiana.

Inoltre lo stesso articolista cerca di rendere altisonanti e spropositate le lodi per i pochi lavori per lui meritevoli, onde nascondere quelle opere che, sempre secondo il suo giudizio, erano da dimenticare.

Tuttavia si può ben comprendere la difficoltà dell’ignoto “Unus Nullus“ nell’indagare a fondo nell’opera complessiva del Giacometti, considerando la vastità della sua produzione ed essendo il Nostro la figura più seguita ed onnipresente nei teatri italiani, dove il 70 / 80 per cento delle opere rappresentate usciva dalla sua inesauribile penna.

Riconosciamo che nella produzione di Paolo Giacometti vi sono senz’altro lavori per uso immediato di rappresentazione ed opere che egli stesso non considerava, ma basterebbe solo il suo capolavoro  La morte civile per nobilitare tutta una vita di autore.

                                                                                           Carlo Tono

 

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Il più vecchio, credo, degli scrittori drammatici italiani viventi ed il primo di tutti…per ordine cronologico.

Per assai tempo fu egli solo a divertire dalla scena i suoi connazionali, che in quegli anni fortunosi, avevano poca voglia di essere divertiti. Gli tenne poi dietro Gherardi del Testa, quasi suo coetaneo (non c’è che una differenza di due anni nella fede di nascita), poi più tardi Tebaldo Ciconi e Paolo Ferrari.

Ho detto che non erano tempi in cui gli italiani avessero gran voglia d’essere divertiti. Artisticamente, la noiosa regolarità e la meticolosa mediocrità della commedia del Nota avevano stuccato e sfiduciato il pubblico delle produzioni nostrane, mentre dalla Francia veniva irruente la fiamma delle opere sceniche piene di vita, di passione, di movimento, a cui aveva dato la stura la rivoluzione del 30, mercé una falange di scrittori, tutti di grandissimo ingegno, alcuni di genio.

Politicamente, la gioventù italiana arrabbiata, vergognosa della tirannia davvero umiliante che doveva sopportare, prestava poco propizio ambiente alla creazione di lavori scenici, i quali, più di qualunque altro prodotto dell’arte, hanno bisogno di trovare radici e cure e ispirazione e soccorso nella vita comune, nella coscienza nazionale. Gli scioperi, gli spensierati, gli indifferenti alla cosa pubblica, i gaudenti, non badavano che a cantanti e ballerine, i forti, i generosi, i patriottici più o meno congiuravano, i governi, cominciando da quello Austriaco che dava il tono a tutti i tirannetti della politica, facevano di tutto perchè l’opera e il ballo, i meriti della gola e delle gambe occupassero l’attenzione, l’entusiasmo e gli ozi delle cittadinanze.

Paolo Giacometti, nato nel 1816 a Novi – mezzo ligure, mezzo piemontese – di padre uomo di leggi, fu destinato allo studio della legge ancor esso e ottenne la laurea di avvocato all’università di Genova. Ma la vocazione del commediografo contrastava in lui agli studi del giureconsulto.

Malgrado la sua laurea avvocatesca, non credo che il Giacometti abbia mai capito bene una parola delle Pandette. Sebbene, prima ancor che compisse vent’anni, s’era già fatto applaudire in una tragedia intitolata Rosilde, che non aveva versi sbagliati, quantunque non ne aveva molti di belli, che si vantaggiava d’un certo movimento scenico e palesava agli occhi degli intelligenti buonissime disposizioni drammatiche nel giovanissimo autore.

A questa prima, in quattro anni successero quattro tragedie – una per anno – e due drammi in prosa ; quelle mediocre, non ostante le lodi date loro dal Nicolini, questi un po’ meglio che volgari.

E’ strano che la vocazione di Giacometti cominciò per sviarsi, prima di prendere il suo giusto indirizzo, e poi, in seguito, anche dopo aver trovato la sua strada, si piacque di uscirne fuori, senza troppo guadagno né della fama dell’autore, né del divertimento del pubblico.

La vocazione di Giacometti, secondo me, era essenzialmente dell’autore comico, il suo ingegno, e forse anco il suo carattere, mi sembra di quelli affatto impressionabili, che attingono dal mondo circostante idee, pareri, gusti, maniere; la qual cosa è essenzialmente propria dello scrittore della vera commedia, ed è anzi condizione imprescindibile per riuscire nell’opera. Vivendo in mezzo a società di costumi precisi, spiccati, originali, il Giacometti ne avrebbe scritto a meraviglia la rappresentazione scenica, che è la commedia propriamente detta.

Nella società incerta, confusa, scolorita delle città italiane nel secondo quarto di questo secolo, la vocazione comica del Giacometti fu confusa, incerta, scolorita anch’essa, e poche volte le avvenne di trovare la nota giusta, potente originale.

Egli aveva una certa facilità nel far versi, che, in lui giovane, poteva dar ansa all’orgogliosa speranza di essere poeta; era il tempo in cui si magnificavano più del bisogno le liriche dialogate che il Nicolini dava fuori con il nome di tragedia “Anch’io son tragico“ dovette esclamare il Giacometti, e a questa esclamazione sacrificò nel principio della sua carriera e anche a varie riprese in seguito, con versi endecasillabi in azioni drammatiche classicamente divise in cinque atti.

Eppure il primo successo veramente grande, veramente generale in Italia, veramente di buona lega che egli ottenne, gli aveva additato la strada giusta, avrebbe dovuto essere per lui una rivelazione : fu Il poeta e la ballerina  commedia in tre atti, rappresentata per la prima volta sul finire dell’anno 1841. Aveva posto felicemente la mano sopra  un argomento vivo e reale della società sua contemporanea, aveva saputo tradurre sulla scena un torto, un ridicolo, tipi e caratteri del giorno in cui viveva, vi aveva fatto abbastanza bene rispecchiarvi la gente cittadina dell’Italia di allora, la quale profondeva applausi, corone e denaro alle ballerine, e lasciava morire di fame i nobili ingegni.

Era una satira in dialogo, come dev’essere la vera commedia, ma una satira fatta con misura, con brio, con garbo. Poco dopo confermava la natura della sua indole comica con la bella commedia Quattro donne in una casa, una delle meglio riuscite e delle più vere del teatro moderno italiano.

Per disgrazia perdurava in lui la tentazione della tragediae i versi endecasillabi gli ronzavano nel cervello più seducenti del canto delle sirene. Numerose assai sono le sue tragedie, fra le ottanta produzioni drammatiche da lui scritte, e accolte tutte da applausi di pubblici a cui facevano illusione un momento una certa abilità scenica, che non manca mai, e la retorica declamatoria del verso ; ma credo inutile scriverne i titoli ; nessuna di esse vivrà, mentre vivranno e hanno per merito il diritto di vivere, con le Quattro donne in una casa, le commedie La donna e la donna in seconde nozze.

Al commediografo così favorito dalla natura mancarono prima, come ho già detto, una vera e spiccata natura da copiare, poi lo studio attento, minuto, paziente di quella larva di società che pure egli avrebbe incontrato nel suo cammino. E’ diventata una frase volgare, che pare ormai quasi una sciocchezza a forza di essere ripetuta, quella che in Italia non c’è stata dal 1830 al 1860 una società con costumi propri. e con vita originale; eppure è una verità sacrosanta, a cui devesi, in parte, lo ripeto, la povertà del nostro teatro. La prima commedia in Italia che fu veramente moderna e viva, fu la commedia in dialetto, perché ritrasse la plebe, nella quale soltanto vi era originalità di modi, di usanze e di esistenza.

I commediografi in lingua, non pensando a coltivare quel filone di maniera che avrebbe loro presentato il popolo, fecero in salotti convenzionali il ritratto d’una società fittizia, in cui si mossero e dialogarono in modo poco possibile delle contesse e dei duchi, delle civette e dei cavalieri inverosimili, con passioni condotte sulla falsariga e con ispirito spiluzzicato dalla raccolta dei bons mots francesi.

Paolo Giacometti, per di più, benché nato nel ceto signorile, fu tratto dalle condizioni e dagli avvenimenti della propria vita a partecipare l’esistenza randagia, zingaresca delle nostre compagnie comiche condannate a un nomadismo perpetuo, non ebbe relazioni con la sfera elegante delle varie cittadine, camminò poco sullo spazio sdrucciolante dei saloni dell’aristocrazia o anche della borghesia arricchita, non osservò direttamente, attentamente, minutamente, non riprodusse dal vero, ma copiò modelli di altre letterature, inventò, cercò indovinare, diede troppo sovente un tuffo nel convenzionale.

Egli seguendo la tradizione comica italiana, si aggregò come autore a parecchie compagnie drammatiche, e toccò il bastone di maresciallo (come suol dirsi) di questa povera carriera, quando venne accolto da ultimo agli stipendi della famosa compagnia reale piemontese. Gli uomini e le cose continuò sempre a vederli  dal buco del sipario e a giudicarle dal retroscena; l’immagine forzata a un’opera eccessiva e poi già stanca, tenne in lui il posto dell’osservazione, i suoi personaggi s’allontanarono sempre più dalla realtà per essere automi meravigliosamente semoventi abbigliati alla francese.

Un’altra passione infelice venne a turbare la schiettezza della vocazione comica nel Giacometti oltre la passione della tragedia, voglio dire quella del dramma lagrimoso, piagnucolente, a tinte forti e catastrofi terribili. A ciò concorse una grande sventura intima che orribilmente fece soffrire il suo cuore sensibile. Infelice, disperato, fatto buio, tutto il suo orizzonte, tutto il suo avvenire, non vide più che nero nella vita nella complicazione dei casi, nell’uomo in se stesso. Le lacrime del suo dolore, la rabbia contro l’ingiusto destino, la protesta per la sua immeritata sventura, le mise tutte nelle scene terribili, nei monologhi disperati, nelle favole assurdamente tristi de’ suoi drammi; disimparò l’allegria, il sorriso, lo scherzo ingegnoso, e quando più tardi volle tornare a quei veri e cari elementi della buona commedia, la quale è, a dirla schietto, l’arte scenica per eccellenza, non ne fu più capace, e lo scherzo riuscì freddo e scipito, il sorriso stentato, l’allegria affatturata.

Paolo Giacometti, che conta ora 68 anni fu da giovane non bello, ma simpatico; di statura piuttosto alta, magro, osseo aveva qualcosa del don Chisciotte, senza però l’ingenuità bonaria dell’eroe di Cervantes. Il sorriso del nostro ebbe sempre qualche cosetta di amaro, lo sguardo qualche cosa di triste, di scoraggiato, l’espressione di tutta la fisonomia un non so che di scontento. si sarebbe detto che ai suoi sogni, alle sue aspirazioni, alle sue speranze, alle lusinghe  degli esordi, non aveva la sorte corrisposto, né nella vita né nell’accoglienza del pubblico, né nell’evoluzione medesima del suo ingegno.

Eppure i suoi coetanei l’applaudirono molto,  forse anche troppo; ma egli si sentì colla finezza del suo criterio, che quegli applausi soverchi erano senza echi nel futuro, Oggi è troppo trascurato, troppo dimenticato, e alla sua anima delicata e sensitiva doveva essere riservato anche questo grandissimo dispiacere di vedersi dalle generazioni che immediatamente seguirono alla sua, assegnato nel panteon dei moderni autori un posto che la sua giusta coscienza gli dice inferiore al suo merito, al suo reale valore.

Dovrebbe però confortarsene; quella stessa giusta coscienza di sé dovrebbe persuaderlo d’una verità che a me sembra si possa affermare fin d’ora; che cioè parecchi scrittori odierni, di cui il nome va ora più ripetuto ed esaltato dagli echi compiacenti della pubblicità organizzata ad arte di soffietto passeranno affatto nell’oblio, e il nome dell’autore delle Quattro donne in una casa starà nella storia del teatro comico italiano.

Unus Nullus

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Targa in bronzo eseguita dallo scultore Pietro Lagostena in occasione delle manifestazioni indette per ricordare i cinquanta anni dalla morte di Paolo Giacometti – Novi Ligure anno 1932

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L’incipit dell’articolo su Paolo Giacometti (da: Il Teatro Illustrato, 1884)

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L’annotazione a matita Drammaturgo poeta e patriota Paolo Giacometti di Novi Ligure è di Pietro Lagostena

 


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Lo stato civile di Novi Ligure fino al 1865 nei registri dell’Archivio storico comunale

di DIMITRI BRUNETTI

In momenti recenti l’Archivio storico della città di Novi Ligure è stato oggetto di un importante intervento di riordino con la schedatura analitica della documentazione più antica e la redazione di un nuovo inventario di descrizione. L’intervento, ora in corso per il carteggio più recente, ha portato all’individuazione di fonti inedite per la ricostruzione delle vicende della città e del territorio e alla messa a disposizione dei ricercatori anche di materiali già conosciuti, ma che ora sono più facilmente reperibili e inseriti in un contesto più ampio. Continua a leggere

Francesco Carenzi, un Novese Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri

di FRANCESCO MELONE

Il 5 maggio 1898, durante una seduta straordinaria, il Consiglio Comunale di Novi Ligure deliberava di eternare i nomi del capitano medico Antonio Demicheli, del sergente Carlo Bignami e dei soldati Luigi Capurro e Giuseppe Disarello, novesi caduti in Africa nella battaglia di Adua, aggiungendoli a quelli delle guerre risorgimentali iscritti sull’obelisco in Piazza Indipendenza. Al Cap. Demicheli, inoltre, sarebbe stata dedicata una lapide da apporre nel cimitero. Continua a leggere

I cognomi novesi nel 1810

di PIER ELIGIO BERTOLI

Nel 1806 la Savoia, il Piemonte, la Liguria ed una piccola parte dell’Emilia e della Lombardia furono unite, per disposizione di Napoleone Bonaparte, all’Impero francese (Fig. 1) Nel 1815, con il Congresso di Vienna, si ebbe la cosiddetta Restaurazione, che riportò pressappoco i confini a come erano prima della Rivoluzione Francese.

Per dieci anni anche Novi fu francese. Le strade divennero rues e tutti i documenti amministrativi dovettero essere redatti in lingua francese.
Nell’archivio storico di Novi1 presso la Biblioteca Civica esiste, compilato nel 1810, un “Registre des individus de la Commune de Novi de l’âge de 12 ans et au dessus”. La parola “Novi” è scritta a mano in un frontespizio prestampato che verosimilmente il governo imperiale inviò a tutti i Comuni di nuova acquisizione. Si può pensare che questa elencazione di soli maschi oltre i dodici anni d’età avesse un fine fondamentalmente militare. Continua a leggere