(L’ingegno versatile di un pioniere nel Medio Oriente)
PICCOLA GALLERIA NOVESE
Erano gli anni delle <Belle époque>: Rontgen però non aveva ancora intravisto le strane radiazioni che egli chiamò raggi X: Hertz non aveva ancora aperto la strada del miracolo marconiano della telegrafia senza fili, i fori alpini erano ancora un ambizioso progetto che avrebbe collegato la penisola con il resto dell’Europa.
In una serata grigia del grigio autunno della bella e regale Torino una vettura con tiro a coppia portava un gruppo di studenti del Politecnico festeggianti il loro giovane compagno che aveva che aveva conseguito a tempo di record la laurea in ingegneria.
Alto slanciato, biondo; biondi i baffi, bionda la barba lasciata crescere in modo naturale – il giovane nella primissima giovinezza era stato invitato a posare per la figura del Crocefisso – d’eloquio brillante e parco nello stesso tempo, col sorriso che scopriva i regolarissimi denti, Ara Giulio Cesare Sovera.
Egli proveniva da una famiglia di costruttori. Il nonno aveva drizzato, tra l’attonita ammirazione della popolazione, un muro pericolante della <Castigliona>, usando travi ricoperte di catrame e sfruttando l’enorme forza derivante dalla dilatazione lineare. Il padre Giuseppe aveva costruito strade e ponti, specie nel Veneto, dove compiva lunghe trasferte. Il giovane ingegnere si mostrò subito intraprendente e parve anzi ricercare avventure pericolose, accogliendo l’invito di una ditta francese, che in cambio di un compenso favoloso lo impegnò per una costruzione da eseguirsi all’estero in un pese sconosciuto. L’ing. Sovera si imbarcò a Marsiglia insieme ad alcuni provetti muratori novesi che dovevano fornirgli il nocciolo della maestranza qualificata. Non conosceva la sua destinazione che era scritta in un plico sigillato consegnatogli al momento dell’imbarco da aprirsi solo in alto mare. Nel Golfo del Leone il plico rivelò il paese dove l’ingegnere e gli altri novesi erano diretti: la Persia.
Quale paese era la Persia? Una enigmatica burocrazia che dilazionava un permesso e mercanteggiava un’autorizzazione con indolente indifferenza. Maestranze semiselvagge piene di sospetto, che dalla religione di Allah e dalla mollezza del clima traevano un atteggiamento fiacco e staccato. Uomini grami, travagliati dai morbi, che soffrivano le loro pene negletti negli angoli remoti. Inafferrabili bellezze muliebri che lasciavano intravedere lo splendore bruno degli occhi attraverso il fluttuare dei veli dietro le imposte appena socchiuse. A queste donne però il costume della contrada non risparmiava i lavori pesanti come l’attingere l’acqua, mentre i mariti seduti su stuoie intessevano i celeberrimi tappeti.
I lavori per la costruzione di immensi essicatoi per bozzoli si facevano non lungi dalla sponda meridionale del Caspio. In Europa trionfava allora la seta per gli abiti e le trine, di cui le abbondanti vesti femminili erano riccamente adornate. Ma la produzione europea di bozzoli aveva costo elevato: già anche i nostri concittadini – tra cui i fratelli De Negri – avevano fatto frequenti viaggi in Cina per commerciare i bozzoli con cui alimentare le nostre fiorenti filande. Ma il mercato cinese era noto anche alla concorrenza: la Persia invece era un paese non ancora in contatto con i mercati occidentali e la merce vi veniva offerta a prezzi irrisori.
Due anni durò il soggiorno persiano, seguito da un secondo un poco più breve a distanza di un anno. Il ritorno avvenne una volta via terra attraverso la Russia zarista (notevoli le avventure del passaggio di frontiera), la Germania guglielmina (come ricordava l’eccezionale rapidità degli ascensori di Berlino!) ed in fine a Parigi, la <Ville lumièr>.
Quando, già anziano, l’ingegnere Sovera raccontava l’attraversamento dell’Europa compiuto negli ultimi anni del secolo scorso e punteggiava il suo racconto additando all’interlocutore questo o quel oggetto ricordo, era seguito con meravigliata ammirazione: tappeti, vassoi sbalzati a mano, un narghilè tempestato di turchesi.
All’alba del nostro secolo lo troviamo, ancora pe la ditta francese, a dirigere i lavori di un setificio nell’alta valla del PO. Là i bimbi lo amavano e lo temevano nello stesso tempo come un gigante buono.
Poi la vecchiaia del padre lo richiama nella città natale: qui costruisce palazzi dalla linea sobria, villette che si distinguono per un qualcosa di civettuolo, fabbricati industriali che sfidano per solidità il tempo.
Ma la sua opera non si limita a Novi; ogni paese del circondario conserva qualche sua opera: qui ha aperto una strada, là ha progettato una fognatura, altrove impianti di irrigazione.
Quale ispettore delle utenze di caldaie a vapore corre l’intera Provincia, quale perito liquidatore lo troviamo in svariatissime località; è tecnico di fiducia dei più bei nomi dei nostri luoghi.
Oltre al lavoro solerte ed appassionato ha interessi vivi e svariati: è l’organizzatore e l’animatore delle feste – il valente pittore concittadino Dini Perolo lo ha fermato appunto su una tela come direttore d’orchestra; al pianoforte rivela doti di artista e trascina in ritmi frenetici i ballerini – nella prima giovinezza aveva dedicato ad una fiamma giovanile una sua mazurca <La prediletta>.
Né la maturità vede il suo generoso spirito ristare: prende parte alla vita politica, è più volte consigliere comunale ed assessore.
Con l’entusiasmo di sempre si dedica, quale vicepresidente, alla <Società Ginnastica <Forza e Virtù>; con la passione e l’entusiasmo che gli furono blasoni di vita, organizza la prospera Croce Verde Novese, di cui fu presidente per un ventennio. Ah! La commozione di quella domenica del 1926 quando nel nostro teatro letteralmente gremito, al termine di una commossa orazione, ha appuntato la medaglia d’oro al petto del milite più valoroso, G.B. Gemme, quel <Bacicein>, che tutti ancora ricordano, e il fluttuare delle bandiere delle Società consorelle – Crocebianca, Croce d’Oro …- che eseguivano il reciproco saluto come un fraterno abbraccio! ….
Come mi tonano ancora in mente i nomi di tanti militi, che prestavano la loro opera del tutto disinteressatamente: Cosso, Camera, Pedemonte! ….
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Passano gli anni, la vita dell’Ingegnere Giulio Cesare Sovera volge al tramonto: forse non gli mancò l’amarezza di chi si prodigò e non fu equamente riconosciuto, schivo, anzi ritroso di fronte a ricompense cavalleresche.
Avrebbe potuto dire col grande Pontefice :<Dilexi justitiam…> solo fece suo il testamento spirituale del Parini: <Me non nato a percuotere – le dure illustri porte…>. Ma in regime fascista alle esequie di lui, che non ebbe mai tessera, il gonfalone del Municipio e il primo cittadino di allora; per la famiglia, nel contenuto dolore, la consolazione che la straordinaria dirittura morale e la generosa bontà dell’Uomo siano state nella morte aureolate dalla Fede.
A.Br.
articolo tratto da NOVINOSTRA – giugno 1963