di MARCO RESCIA
Il presente articolo non vuole essere un trattato d’importanza scientifica e nemmeno una vera e propria storia dell’alimentazione, sia pure di area locale. Il discorso, infatti, procede per scorciatoie e si avvale di semplificazioni per comodità d’intesa. Alcune illazioni, da verificare, sono proposte come punti di attrattiva verso una sorta di patriottismo gastronomico
La coltura che sfamò i popoli
L’occupazione militare degli antichi Romani sui territori della Padania e della Gallia fu avvalorata con l’insegnamento, dato alle popolazioni soggette, per la retta coltivazione di alcune graminacee di sobria esigenza e di sicura resa.
In primis, il frumento, poi: l’orzo, il farro, la segala, la spelta. Tutti semi che, se resi in farina, impastati con acqua e cotti fornivano alimenti sazianti e di gradevole sapore. Tra i primi atti della colonizzazione romana ci fu la jugeratio, ossia il frazionamento delle piane in unità agricole da distribuire ai legionari ed ai loro benemeriti ferderati.
Al seguito delle truppe di conquista, operarono gli agrimensores, tecnici che intervenivano con le loro livelle a croce, munite di traguardi penduli. Queste davano, in un colpo, l’orientamento solare, l’orizzontalità del terreno, e l’incontro a squadra delle linee di ripartizione. Con talee metodo, si divideva il suolo coltivabile in riquadri della misura di un “jugero”.
L’unità di parcellazione era di circa m. 35 X 70 e comprendeva tanta terra, quanta ne poteva arare, circa in un giorno, una coppia di buoi aggiogati, di qui il nome: jugerum da jugum (giogo). Le centurie di quei riquadri costituirono l’unità egualitaria dei poderi da distribuire (m. 300 X 700).
Ciascuna fattoria era servita da una carraia rettilinea di confine, ogni cinque di quelle strade, ce n’era una detta quintana, ogni dieci, una maggiore chiamata decumana.
Con la fotografia aerea, si rileva benissimo il reticolo di quell’antico tracciato nella pianura Fraschettana.
I Liguri
Quando i Romani si affacciarono nella Padania, al tempo delle guerre annibaliche, i Liguri si trovavano ad un livello di civiltà non molto dissimile da quello dell’età del bronzo. L’alimentazione di quel popolo doveva consistere in prodotti boschivi come castagne, funghi, erbaggi e frutta con l’apporto di una pastorizia ridotta perché condotta in aree vicinali. Virgilio, nelle Georgiche scrive adsuetumque malo Ligurem (e i Liguri abituati a nutrirsi di frutti).
Sicuramente migliori erano le abitudini alimentari degli abitanti della pianura, prevalentemente Celti, che potevano disporre di colture più espanse e di allevamenti più estesi.
I Liguri, che si attenevano alle alture appenniniche, vivevano forse instato di sottonutrizione, per cui pare che i loro caratteri sessuali secondari fossero meno differenziati, come si osserva in alcune tribù africane, tanto che Plinio, naturalista romano, scrisse che “presso i Liguri, le donne mal si distinguono dagli uomini”. Se l’informazione di Pilnio era vera e non frutto di voci detrattive, una componente del fenomeno poteva essere anche la inumana fatica cui erano soggetti indifferentemente i due sessi. Infatti ancora Virglio, in una rassegna di popoli italici, favorevoli alla causa di Enea, dice Ligures patientes labori (i Liguri atti a sopportar la fatica).
Alcune usanze delle età preistoriche sopravvissero, presso quelle popolazioni, fino a qualche tempo fa. Forse da non molti anni è tramontato l’impiego, in cucina, di una pietra ovale, ben scelta nel greto del fiume, per pestare il sale. Usò, nel territorio di Bosio, sino ai primi decenni di questo secolo, condire a pastashuta cu a sbulfeta, che è l’atto di irrorare, con uno spruzzo boccale di noci, olio ed aglio lungamente masticati, il piatto proprio e quello dei commensali. Il gesto, per noi riprovevole, era ritenuto espressione di amorevole cortesia verso il convitato. U pèstu richiama alla mente quei battuti di erbe crude che certo furon alla base di menù trogloditici.
La grande fame
La calata dei Goti, quando tutto, fanciulle comprese, era ad libitum degli invasori, creò, per i residenti, gravi problemi esistenziali. I conquistatori si fecero mantenere dalle popolazione soggette e dettero fondo alle loro scorte.
Nei rapporti tra la gente padrona, in arme e il resto, costituito in gran parte di produttori agricoli, funzionavano penditia e prestazioni obbligate d’ogni genere.
Nel 556 papa Pelagio scriveva che “i campi d’Italia sono così desolati che nessuno può riportarli a cultura”. Analogo fenomeno si verificò nella piana fraschettana e in quella della valle d’Orba. Sui campi segnati a riquadro già coltivati a grano, nel corso di qualche secolo, nell’età goto-longobarda, crebbe una selva di querce, olmi, oppi, ontani, pioppi e salici. La foresta tuttavia tornava comoda al ceto dei conquistatori fanatici di caccia. A questo scopo, i villici della curtis dovevano allevare e nutrire a dovere grandi mute di cani, per uso dei dominatori, pena gravi punizioni in caso di trascuranza.
Il dominio dei biondi giganti
Segue la dominazione dei Longobardi, stirpe altissima dalla capigliatura chiara: (uomini m. 1,80-1,90, donne 1,75). Continua a gravare sulle nostre terre un’atmosfera cupa ed arretrata desumibile dai prodotti di un’arte grezza, anche se piacevolmente decorativa, e più ancora dalle figurazioni umane, disegnate con mano bambinesca. Quanto sono ormai lontane le sculture imperiali romane e gli affreschi di Pompei!
Tuttavia si delineano, nel sec.VII, miglioramenti nelle condizioni umane per merito della regina Teodolinda che cristianizzò la sua gente. La regina longobarda sostò sovente a Marengo nella Villa Regia e, a Tortona, nel convento di sant’ Eufemia. Molte donne del popolo fecero battezzare le figlie con il suo nome con atto ammirativo e propiziatorio.
L’agricoltura ordinaria andava migliorando per gli insegnamenti dell’agronomia abbaziale e l’allevamento del bestiame fu intensificato.
I signori dominanti conservarono alimentazione prevalentemente carnea, evidentemente non temevano l’uricemia. Nella sepoltura dei guerrieri nordici veniva messa una razione di carne, scorta proteinica per la vita ultraterrena. Gli scavi, fatti nei loro insediamenti, rivelano cascami di ossa spolpate di grandi quadrupedi.
Forse quel popolo dai frequenti trasferimenti, ci lasciò l’uso delle carni conservate per prosciugamento all’aria, come la bresaola e la slìnziga della Valtellina.
Il farro ed altri cibi poltacei del Medio
Il farro è una graminacea il cui nome botanico è triticum dicoccum o triticum spelta. Il chicco fusiforme, è solcato da scissura, avvolto in robusta cariosside ed ha colore biondo carico del grano maturo.
Gli antichi Romani facevano grande uso di questa sementa, che tostavano e macinavano per farne focacce salate, cibo rituale per matrimoni e sacre funzioni.
Nell’età medievale il farro era un ingrediente di quelle minestre poltacee, che, assunte in abbondante misura, servivano a placare la fame della gente italica di facile accontentamento alimentare.
Oggi la minestra di tal germe, da piatto di tradizione conventuale e contadinesca si è fatta portata ambita, rara fuor di Toscana. Più che il sapore, che è piattamente sapido, sostengono questa vivanda nostalgie storico-evocative e forse una spseudo contrizione per il nostro mangiar d’oggi troppo ricco.
Nelle abbazie e negli ospitali
Le liste di cibo più documentate, nell’Età di Mezzo, sono quelle conventuali ed ecclesiastiche, anche perché la maggior parte degli scritti di quel tempo sono dovuti a gente di chiesa.
La struttura religiosa, poi, con le sue abbazie, ospitali, commende e mansioni, aveva immensa importanza nella vita civile. Gli xenodochia (istituti ospitali) erano centri dispensatori di cibo e di istruzione nutrizionale. I monaci o i cavalieri ospitanti assicuravano ai viandanti, pellegrini o mercatori, ricetto per tre giorni e tre notti. Il servizio era gratuito ma, dai romei più ricchi, il cenobio attendeva un contributo. Se i transitanti cadevano ammalati venivano ricoverati nelle infermerie, sempre in funzione, specie presso le sedi dei monaci-cavalieri di San Giovanni.
La porzione, pitancia, (da pietas?) nei conventi ospitali, era pressoché‚ simile per religiosi e pellegrini. Di quel sobrio pasto abbiamo un menù dettato, secoli prima, da prete Rinolfo per pranzi caritatvi sostenuti da un lascito da lui fatto ad una chiesa lucchese: Scapilo grano pane cocto et duo congia vino et duo congia de pulmentario: faba et panico mixto bene spisso et condito de uncto aut de oleo (uno scopello di frumento ridotto a pane, due misuredi vino e due dizuppa:miscela di fave e di panico, ben densa condita di grasso fuso o di olio)
Negli statuti dell’Ordine Cistercense del 1221, si dice: visitatores una tantum pictancia sint contenti, exceptis ovis, caseo et butyro (gli ospiti di passaggio si acconentino di una portata unica che non comprenda uova, formaggio e burro).
La polta vegetariana, che, nelle comunità religiose, aiutava a perseguire la virtù, era verosimilmente un piatto unico in cui si ammollava, un pane tondo, segnato a croce dallo spacco di cottura.
La stoviglia di contenimento era la scodella: patena in modo cavitatis scuti (piatto foggiato a guisa di incavo dello scudo) detto, da talesomiglianza, scutella (scodella). Le ciotole erano tal quali quelle che sono ancora murate sulle facciate e contro i campanili delle abbazie a fare decorazione e, nel contempo, richiamo per i pellegrini in transito, almeno là dove non siano state sconficcate da ladri antiquariali.
La loro capacità era di circa due litri , ma si facevano anche mezze misure per ragazzi. L’interno della coppa era istoriato a fasce e il fondo di essa con simboli sacri, con stemmi conventuali o con teste di profilo. Immagini da contemplarsi a porzione esaurita e a campo nettato. Il vasellame policromo, poi, faceva decorazione, nei refettori, quando riposava nelle rastrelliere.
Se compariva in tavola la carne, come gratificazione festiva, questa veniva portata alla bocca con le mani, al massimo, con il coltello da viaggio. Infatti l’unica posata da tavola era il cucchiaio: di legno, di peltro, di bronzo, d’ottone, da portarsi, infilato nella cinta del cappello, dai pellegrini e dai viaggiatori in genere.
Per inciso, si rammenta che, per tutta l’antichità, si consumava carne di polleria, di ovini, caprini e suini. Buoi e mucche venivano il più possibile risparmiati: gli uni per il lavoro, le altre per il latte e la riproduzione.
Non tutti i giorni dell’anno, sulle mense conventuali, si replicava il piatto di zuppa vegetale con pane intriso.
C’è un decretum pro monasterium dell’anno 1374 che recita: pitantiae modus et ordo sic conscripti observerentur. in primis videlicet quod pitantiarius, qui pro tempore fuerit, omni anno, singulis festivitatibus, duo ova in brodio, pepere et croco bene condito, omnibus et singulis fratris tenebitur ministrare (modo e cadenza del pastosiano osservati così come sono scritti. Nel senso che, in primo luogo il frate dispensiere di turno, al tempo delle singole festività, sarà tenuto a somministrare a tutti i confratelli, due uova a testa, in brodo ben insaporito con pepe e zafferano).
Si trovano anche menù per foresterie conventuali meno pitocchi, come i seguenti: Statuimus quod, singulis diebus, habeant duo pulmentas, sicut habetur in abbatia, silicet pisa vel fabas et poream et solitum generale, quae omnia more solito condientur (abbiamo disposto chequotidianamente abbiano due minestre, tal quale tocca in convento, e poi puré di piselli o: serviatur nobis de duobus potagiis, in primo ferculo, videlicet depisis albis et purea aut de ciceribus et caulibus et rapis (ci venganoserviti, in prima portata, due minestre sicuramente di piselli bianchi ed un passato di verdura oppure ceci, cavoli e rape). Piselli e fave si devono intendere essiccati per farne scorta.
Nelle carte antiche si trovano anche menù per pranzi abbaziali esenti da rigore pauperistico; eccone uno del 1221: In unoquoque autem convivio, fercula: primum salsamentum; 2°pulmentum, ita ut in duas capetas dividatur gallina; 3° duae carnes calidae cum porro et lucanicis; 4° assatura et de cervisia bona (in ciascun banchetto, quattro portate: per primo salame; secondo: pietanza in misura tale che una gallina si divida in due coppe; terzo, due porzioni calde di carne con porrata e salciccia; quarto: una grigliata e della buona birra).
Non mancavano dolci di semplicità elementare: Laganum quoddam genus ista cibi quod prius in aqua coquitur, postea in oleo frigitur, et sunt lagana de pasta, quasi membranulae, quae statim in eo oleo frifitur; illa vulgo dicuntur scutella ista laxania et coquetur ita, postea melle condiuntur (la frittella è un tipo di vivanda che prima viene cotta in acqua, poi viene fritta nell’olio; vi sono pure frittelle di pasta, sottili come pergamene, che si rosolano subito in olio. Le prime vengono dette popolarmente “conchette”, le seconde “lasagne” e si cuociono come s’è detto, poi vengono addolcite con miele).
La parola cibum meglio cibus (succo nutritivo) veniva anche usata per indicare il viscere beneficato dal medesimo: cibum est intestinum iens ad culum sentenziarono i monaci.
Le signorie del bengodi
Nel Rinascimento ci fu tutta una rivalsa sul Medioevo. L’affermarsi del neoplatonismo e la conseguente laicizzazione del pensiero liberarono, in grande parte, la gente dai complessi penitenziali.
L’emancipazione delle plebi agricole dalla servitù del fondo ed il relativo scollamento dal pauperismo endemico creò, di conseguenza, un’agricoltura più consapevole ed un artigianato più intelligente il che contribuì a migliorare l’assetto sociale. Il tutto alimentò il tripudio del mangiare meglio.
Il rinnovato ordinamento derivò anche dal ricambio nelle gerarchie del potere. Essendo terminate le discendenze nobiliari di etnia germanica ed essendosi sbriciolato l’Impero, subentrarono signorie non meno autoritarie ma assai più illuminate. S’avvertì una ventata di vitalità italica sostenuta dall’intraprendenza militar-commercial di Genova e Venezia, centri trainanti per tutte le entità marinare.
L’emulazione venne prima dalle crociate poi dai vantaggi a spese dell’Impero ottomano. Nel cuore della pianura padana, il ducato di Milano fruiva di opimi redditi agrari e insieme dei commerci di transito verso la Tedescheria.
Novi fu compreso in quel regime dal 1392 al 1529. Tortona vi rimase fino al 1734. Il benessere di recente acquisito esplodeva vistosamente nelle ostentazioni di sfarzo tra cui la pompa dei banchetti. A tale ebollizione di sfoggio dettero contributo, oltre ai tradizionali ordini nobiliari, anche i nuovi ceti intermedi, costituiti, in genere, dagli accoliti delle grandi
Corti, dai ranghi militari e dai nuovi proprietari terrieri sorti dal degradare dei feudi e dalla erosione dei patrimoni abbaziali.
Anche la pittura annota la mutazione. Le nuove “ultime cene” vengono ambientate in aule meno squallide con tavole meglio imbandite. Il clou verrà raggiunto da quelle rappresentazioni grondanti scialo dei grandi pittori veneziani: Tiziano, Tintoretto, Veronese.
Non erano mancati, nelle età precedenti, saggi di eccessi culinari. Celio Apicio, dissennato ghiottone romano, vissuto ai tempi di Tiberio, dialpidò in banchetti folli, cento milioni di sesterzi e poi si uccise perché glie ne erano rimasti soltanto dieci milioni. Il crapulone consigliava: arrosti di cigno, di pappagallo, di struzzo, di fenicottero, di porcospino e il ghiro cotto al miele.
Neanche il Medioevo era stato tutto ascetismo. Si ha notizia di festini barbarici rozzi ma opulenti, con strabilianti bevute e forse con risse furiose. I banchetti carolingi traboccavano di cacciagione arrostita, di torte, di pasticci farciti, cosparsi con pepe, zenzero, cannella, ginepro, zafferano, garofano, noce moscata e con l’aggiunta di salsa d’aglio e di senape. Tutta roba per stomaci robusti.
A stare ai dipinti del tempo, il convito si fa scena, spettacolo, recita, con tutti gli ingredienti del fasto, compresa la presenza di splendide donne. Le salsiere, scrigni per intingoli esaltanti l’Afrodite, diventano capolavori d’arte; il vasellame si fa splendido, l’addobbo fastoso.
Popolano la scena, oltre ai commensali splendidamente vestiti, donzelli e serventi in abiti policromi; Il mastro-scalco, nell’atto di sezionare gli arrosti, si cimenta in esibizioni prolungate e teatrali.
La successione delle portate diventa interminabile; oltre al solluchero del palato, compare il perverso piacere dello sperpero, in antinomia alle antiche privazioni. Per sostenere l’enfasi del simposio, i cuochi s’impuntigliano in preparazioni complesse e le portate diventano oltremodo elaborate.
Trascegliamo da un menù curiale del’500: “Ravioli senza spogli (malfatti) serviti con cascio, zuccaro e cannella. Sommata (pancetta) alessata in vino, tagliata in fette, servita con sugo di melangole (arance agre)e zuccaro sopra”.
Starnotti (giovani pernici) ripieni, arrostiti allo spiedo, serviti con lemoncelli tagliati e zuccaro sopra.Pollanche affagianate (frollate a modo dei fagiani) servite con capperetti e zuccaro sopra.
Gelo (gelatina) in cannoni grossi di più colori.
Piccioni casalenghi ripieni con pezzi di cocuzze (zucche) e mortadelle.
Lingue di vitella ripiene, alessate e poi involte nella rete (omento) arrostite allo spiedo, servite con sugo di melangole e zuccaro sopra.
Non manca la nostra “cima”: Pancette di vitella ripiene alessate, tagliate in fette, coperte
d’agliata (battuto di noci con gli ingredienti che seguono) mandorle, mollica intrisa nel brodo, zenzero e aglio in quantità.
Schiena di castrato alessata, poi arrostita sulla graticola, servita con aceto rosato e zuccaro sopra.
Bottareghe acconcie in insalata.
Sfogliatelle piene di biancomagnare (pastella) fatte con polpedi pesce cappone o di luccio.
Gelo (gelatina) di lucci con tarantello (ventresca di tonno) dissalato, sotto.
I prodotti delle Nuove Indie
La scoperta dell’America fornì nuovi apporti all’alimentazione europea. Prodigioso fu l’avvento della patata che, con il suo sviluppo sotterraneo e quindi al sicuro dalle intemperie, mise le folle quasi totalmente in salvo dalle carestie. Ottime conquiste poi furono il mais, i fagioli, i pomodori, il cacao e la tapioca,
La polenta di granoturco sconfisse quella di gran saraceno, ricordata ancora nei Promessi Sposi ed oggi relegata alla Valtellina, come cibo di tradizione e di nostalgia.
Il viver barocco
Le singole signorie, dal ‘400 al ‘600 si corroborano sempre più ed assumono consistenza di stati veri e propri. L’orizzonte politico si amplia, non sempre in meglio, sino ad implicarsi in rischiosi intrecci internazionali. Tutto l’Oltregiogo resta sotto la Repubblica genovese dal 1529 al 1796, con gli inconvenienti della dipendenza un’autorità lontana, ma anche con i giovamenti del far parte di un sistema vitale ed evoluto.
La mania dell’ostentazione ricorre all’esotismo dell’arredo, del vestire e del mangiare. Ad esempio: nella tarsia dei mobili entra la tartaruga dei mari indiani e le essenze lignee tropicali come la rosa alberiforme.
Nell’abbigliamento si adottano piume di struzzo per i grandi cappelli maschili e per complemento alle pettinature e ai copricapi femminili.
Per i cibi, si ha l’adozione del gallo selvatico d’America: il tacchino (non migliore del nostro urogallo ma più allevabile),del pavone, di nuove spezie. A questi rifornimenti provvedeva l’attivissima” Compagnia delle Indie Orientali”.
Anche nei parchi delle ville signorili si faceva mostra di piante esotiche. Erano ricercate le Magnolia, la Ginco biloba, la Tuia. Qualche cedro del Libano piantato fra Seicento e Settecento, sopravvive tutt’oggi.
E’ vero che le popolazioni della Padania subirono la batosta della grande peste del 1630, che impose un dolente e riflessivo arresto all’ascesa del lusso. Ma dopo, insieme ai complessi espiativi si fece avanti l’ansia di rifarsi della grande paura.
L’internazionalità dei commerci mise subito a disposizione le raffinatezze della cucina francese e le delizie procurate dai droghieri olandesi, oltre al cioccolato, alla vaniglia, al tè il tabacco da fiuto e da pipa.
Nei nostri luoghi, alla base della aumentata produttività alimentare, sta una buona razionalizzazione del mondo agricolo. Statuti, editti, regolamenti, autorevolmente ingiunti, ottengono un grande ordine nelle campagne con l’intervento di campari e di valutatori con la supervisione sulle pertinenze dei fondi, sui drenaggi e sui livellamenti.
L’esigenza di rifornire gli eserciti, ora di aumentate dimensioni e spessoin guerra, incrementò gli allevamenti, specie quelli bovini. Da un certo tempo in poi, la carne non è più quella grazia di Dio che capitava raramente sulle mense.
Salì in auge l’arte dolciaria stimolata dalla scuola parigina, ed aiutata dalla disponibilità di zucchero in luogo del miele. Tramontano, o restano confinati in aree regionali, i dolci compatti, quali quelli di frutta solidificata al forno, o quelli a base di mandorle e nocciole, per lasciare posto a una pasticceria più soffice, per l’impiego di fecole, farine lievitate e sfogliate, con profusione di creme zabaioni, e panna montata.
Intanto le bottiglie e i fiaschi di vetro soffiato andavano mutando il modo di stipare il vino e financo il governo del suo sapore. Non più solo l’uso di botti e botticelle e poi il travaso direttamente ai boccali. Ora la conservazione, l’invecchiamento e la presentazione in tavola si fanno in vetri spesso timbrati e blasonati.
I Francesi inventarono la spumantizzazione, i Piemontesi i vini medicati come vermout e vino chinato.
Scompare il mangiare per vivere, subentra il vivere per gustare. Questo non vale per tutti i ceti; ché la rigorosa stratificazione sociale, basata sui valori nobiliari e non sui meriti, comportante subordinazioni e servaggi, rallentano la diffusione della ricchezza.
I danni delle occupazioni straniere
I transiti più grevi di soldatesche estere si ebbero, da noi, nel 1745-49 e nel 1799 nonché nel primo quarto dell’800.
Le prime invasioni furono l’effetto di una estensione locale della Guerra di Successione Austriaca.
I passaggi e i ritorni di truppe d’Austria e di Piemonte furono terribili per le nostre popolazioni. Pesò ‘arroganza degli imperiali e la fredda estraneità dei soldati sabaudi, spesso di etnia savoiarda e di parlata francese.
Le angherie operate sui civili non si contano. Tralasciando la tracotanza nella fase di alloggiamento e stallaggio, qui preme rilevare il drammatico impoverimento della gente comune, causato dalla confisca delle scorte, dalla ingiunzione di fornire derrate per gli occupanti, e la pretesa di una incessante, copiosa panificazione. Si aggiunga l’obbligo di provvedere foraggio e strame per la cavalleria e, per tutti, legna da riscaldamento. In più si doveva una contribuzione in moneta, per integrare la paga ad ufficiali e a graduati della guarnigione. Durante le guerre napoleoniche, fu confiscato l’argento delle chiese e degli oratori, specie i terminali dei grandi crocifissi, per battere nuove monete a Parigi.
La situazione si ripeté nel 1799, con qualche mitigazione nel tratto, ma con l’aggravante dell’alternanza delle occupazioni avverse, prima quella dei Francesi poi quella degli Austro-Russi e con l’orrore degli opposti cannoneggiamenti e degli scontri in armi, alle porte di Novi e dentro la Città.
Anche in questo secondo caso, si ripeté il flagello degli acquartieramenti forzati e delle forniture gratuite, accompagnati dal timore per la presenza dei Cosacchi dal comportamento imprevedibile.
Da quei contatti etnici non derivarono particolari acquisizioni alimentari, anche perché‚ allora fu tutto un dare, da parte nostra, e scarsissimo avere.
Può essere che gli Austriaci del primo insediamento abbiano trasmesso l’uso dei kifer se lo stesso non avvenne per altre vie e con diverso significato. Si tratta di una forma di pane fusiforme, curvata a mezzaluna, ancora in uso ai nostri giorni. La strana michetta sarebbe stata modellata, la prima volta dai Viennesi assediati dai Turchi, nel 1685.Il pane, a forma di simbolo islamico, sarebbe stato ostentato beffardamente dall’alto delle mura, agli assedianti ottomani, per mostrare, con scaltro espediente, che i cittadini disponevano ancora di farina in abbondanza.
Il traffico del vino
Il vino è quella bevanda che, contrariamente all’acqua, riposta in barili non si corrompe. Questa proprietà rendeva, un tempo, tale liquido prezioso per approvvigionare le navi in partenza per i loro viaggi.
La materia prima abbondava sulle colline dell’Oltregiogo, specie nel Gaviese, nell’Ovadese e nel Novese. Altri rifornimenti potevano provenire dal Monferrato.
La richiesta di prodotti agricoli, oltre che dalla marineria giungeva anche. dalle molte chiese liguri, erette per devozione o per voto.
Le alture gaviesi producevano vini bianchi, non dolci né frizzanti, buoni appunto per dir messa. Questa pareggio tra abbondanza di alimenti contro disponibilità di merci d’Oltremare, tra Piemonte e Liguria, alimentò nei secoli un commercio leggendario, non ancora estinto ai nostri giorni.
Il traffico si sviluppò essenzialmente sulla strada della Bocchetta. Il trasporto avveniva a dorso di mulo, con il someggio di botticelle a forma di sigaro appiattito, da sospendersi in coppie al basto. La loro contenenza era standardizzata nelle misure di capacità in uso, un quarto di brenta, mezza brenta, una, da adattarsi alla capacità di portanza della bestia.
Lo sciacquio, durante il viaggio, non danneggiava il contenuto, poiché‚ il liquido, così mosso, si arricchiva di sostanze tanniche traendole dal faggio o dalla rovere dei contenitori.
Dal ‘200 all’800, si poterono vedere sulla strada, che da Carrosio, Voltaggio, Molini sale alla forcella della Bocchetta, teorie lunghissime di animali someggiati, con i loro conducenti, sia all’andata che al ritorno he, viste di lontano, parevano processioni di formiche. Poi subentrarono i carri e, in vantaggiosa alternativa, la ferrovia dei Giovi e quella di Ovada-Acqui.
I mulattieri trovavano, lungo il percorso, i loro punti di sosta segnati dalle frasche o dai vessilli delle osterie, dove era bello fermarsi e forse barattar motti e punzecchiature con i cavallari Mandrogni, che, forse, trafficavano più di losco.
Il mangiar borghese dell’Ottocento
Non si può unificare tutto il secolo XIX in un unico giudizio storico. Il primo trentennio di esso, malgrado gli sconvolgimenti delle guerre napoleoniche, si assimila, nei modi di vita, all’ultima parte del Settecento.
Il ristagno epocale, in Piemonte e Liguria, è dovuto alla restaurazione sabauda con i regni statici di Carlo Emanuele IV, di Carlo Felice e del primo Carlo Alberto malgrado le sue entrature liberali e lo strenuo azzardo della guerra contro l’Austria.
La zona centrale dell’Ottocento, fino al 1870, è agitata dalle guerre d’indipendenza, con i duri arruolamenti e le grevi spese militari.
La fine del secolo è caratterizzata dall’avvento, specie nell’Italia del Nord, dalla rivoluzione industriale con i progressi e con gli inconvenienti di rimbalzo.
L’industrializzazione delle masse ed il conseguente urbanesimo dischiudono problemi impensati prima o soltanto latenti. La questione sociale si presenta, per tempo, in tutta la sua preoccupante interezza e, a volte, nella sua estrema drammaticità.
I linimenti vengono cercati negli ideali mazziniani cui seguono le iniziative delle Società di Mutuo Soccorso. Subentra poi, con tutta la sua virulenza, l’ideale marxista che innesca una decisa lotta di rivendicazione sociale.
Intanto l’agricoltura, fatta più scaltrita dai ritrovati tecnici e scientifici, fornisce maggiore copia di prodotti ed una loro aumentata diversificazione.
Di quella varietà di apporti approfitta l’arte della cucina sostenuta dall’aumentata possibilità economica della nuova borghesia industriale, più avanzata di quella agricola.
La vita cittadina, in continua intensificazione, diffonde anche alle classi meno abbienti, modelli di vita prima ignorate.
Contemporaneamente si diffonde la conoscenza e il consumo dell’alta cucina nei ristoranti celebri e finanche nel wagon-restaurant dei treni di lusso. Agevolata dalla distribuzione di paghe più diffuse e più costanti da parte delle maggiori industrie, aumenta la partecipazione dei ceti più modesti ai benefici del ben mangiare.
Molte osterie si tramutano in trattorie e, nel contempo, nascono ristoranti e “alberghi” spesso con l’aggiunta di inopportuno sussiego.
Più di recente si va diffondendo il successo dell’“agroturismo” che accomuna famiglie di tutti i ceti in gaie scampagnate grazie alla diffuso possesso dell’automobile.