LA CHIESA DI SANT’INNOCENZO A CASTELLETTO D’ORBA

Figura 1 – Facciata della Chiesa

Uscendo dalla parte alta di Castelletto d’Orba, dopo essere voltati a sinistra per immettersi sulla strada di Moltandeo, si passa davanti al piccolo cimitero posto sull’alto del poggio che occhieggia nel suo fondovalle la turistica e mondana fontana Fonte <Feia>, e sull’altro versante, il compatto gruppo di casolari dei Cassuli.

     Percorse poche decine di metri, una non lunga fila di cupi cipressi fiancheggia l’ingresso dl Camposanto e quasi nasconde tra il suo verde melanconico un’antica chiesetta.

Anche un profano di storia dell’arte sentirebbe di trovarsi davanti a qualcosa di antico che emana dagli scalcinati ma ancor soldi muri del vetusto edificio.

     Lo storico G.B. Rossi nel suo studio < Ovada e dintorni> asserisce che Sant’Innocenzo, così si chiama la chiesetta, fu un tempio pagano che nel 342 d.C. venne ridotto dal Vescovo di Tortona a tempio cristiano. Si deduce l’asserzione dello storico che la costruzione è anteriore al IV Secolo e come tale, anche se ritoccata e rifatta, degna di molta considerazione.

     Nel periodo del primo feudalesimo fu molto contesa tra i Vescovi di Tortona e gli Arcivescovi di Genova; in seguito se la disputarono gli Abati di San Fruttuoso e gli Arcipreti della Pieve di Gavi.

     Con lo scorrere dei secoli comportante molteplici vicissitudini, anche la nostra chiesetta non si sottrasse al naturale invecchiamento ed alle trasformazioni di cui porta palesemente le tracce. 

     Balza evidente che il materiale di costruzione è di due generi e di due epoche ben diverse e lontane tra loro: infatti esso consta di pietre squadrate e ben connesse di origine arenaria dello stesso tipo che si riscontra anche tra le case più antiche di Castelletto, alle quali si sovrappongono nelle parti superiori, laterali e posteriori dei comuni mattoni di epoca più recente.

     La facciata, inquadrata tra due alti e vigili cipressi (fig.1) è di una semplicità austera ed è la parte che più conserva un reverente sapore d’antico.

     Nella sua metà inferiore predominano i grossi e chiari pietroni di arenaria, mentre nella sua parte superiore le pietre si fanno più scure e, presso il tetto, cambiano ridimensionando la fattura. Osservando la facciata balzano subito evidenti alcuni interessanti fregi a bassorilievi ed una finestra ad arco rotondo con una accentuata strombatura.

     Se la finestra, situata sull’unico portale centrale al posto del rosone, arieggia il motivo romanico, i fregi assumono n’importanza più rilevante poiché sono della maniera di quelli della facciata di san Michele in Pavia (longobarda prima e poi lombarda intorno al 1000-1100) e del lato destro di San Lorenzo in Genova (consacrata nel 1118).

Figura 2- Arco del Portale

     L’arco sovrastante il portale (fig. 2) riproduce un fogliame a largo intreccio, fiancheggiato, a sinistra di chi lo guarda, da un fregio che riproduce due volatili fronteggiantisi e, a destra, da due animali non ben definibili, posti di fronte. Sempre secondo il Rossi essi sono, in tutta la loro rozzezza, dello stile dei secoli VII ed VIII, e vogliono riprodurre i precetti fondamentali della simbolica cristiana. Entrando nel Camposanto e girando attorno alla chiesetta, spiccano altri particolari notevoli, ma che denotano chiaramente come da precedenti demolizioni essi siano stati incastonati nei posti meno adatti: sulla facciata posteriore un fregio con alcune semplici croci si trova in alto al centro; sul muro di sinistra un artistico capitello con ricamature a fogliame è in castrato a rovescio tra le pietre comuni quasi sotto il tetto.

     L’interno è a pianta rettangolare, lievemente allargandosi verso l’unico squallido altare posto sulla parete di fondo senza abside.

     La prima impressione che il visitatore prova entrando, è di estrema desolazione. La chiesetta è abbandonata, come dice Rossi, alle ingiurie del tempo e degli uomini. Tutto è stato asportato: non ci sono panche né sedie né balaustra. Solo uno spoglio altare, senza candelabri né fiori né tabernacolo, testimonia una lontana e remota attività religiosa. Ma nell’interno non si è soli, perché cento occhi ci guardano muti e quasi sorpresi: sono gli sguardi buoni dei molti Santi e delle Madonne campeggianti sugli sbiaditi affreschi laterali e di fondo.  Insigne studioso ed artista genovese, il Santo Vari, li attribuisce al secolo Quattordicesimo o, senza dubbio, saranno di quell’epoca poiché, quantunque appaiano assai danneggiati, di essa rivelano tutte le caratteristiche essenziali.

Figura 3-Trittico

     Sulla sinistra dell’altare è un trittico (fig.3) che rappresenta una probabile Santa Lucia tra una lieta e simmetrica pioggia di fiori, una dolce Madonna col Bambino avvicinati da un deferente paggio che porta nella mano destra una lunga penna, ed una solenne chiesa a doppio campanile con due Angeli in adorazione di un Bambino Gesù in atteggiamento patrono. E’ questo un particolare, parchè accanto al trittico ora ricordato stanno altri affreschi di fattura pregevole che purtroppo il tempo e l’incuria hanno deturpato.

Figura 4 – Finestra sovrastata da Fregio

     Notevoli sono le finestruole che dall’interno si aprono verso l’esterno. Una di esse (fig.4) è sovrastata da un fregio leggermente arcuato riproducente un ramo che si snoda tra un grazioso intreccio di fogliame.

     Altri ancora sono i motivi artistici che potrebbero attirare l’attenzione del visitatore: i due curiosi porta-torcia situati agli angoli dell’altare; un arco rotondo sporgente dalla parete sinistra e sovrastante una probabile cripta ormai scomparsa; la colonna di circa tre metri di altezza senza capitello ed affiorante dal muro per metà, le due strane acquasantiere, una in monoblocco con vasca scavata nel capitello ed una ottagonale con i lati irregolari.

     E’ questa la secolare chiesetta di Sant’Innocenzo, che, affacciandosi come da un balcone di poggi su una ubertosa vallata, veglia silenziosa sul sonno eterno di coloro che riposano nel camposanto adiacente.

E’ forse audace l’accostamento alla carducciana <Chiesa di Polenta>, ma anche la nostra chiesa, risalente ai lontani secoli della romanità ed ora abbandonata e dimenticata, sa pur dire al viandante una valida parola di conforto che dissolva ogni meschinità e superbia e che infonda soavità d’ obblio e di pace.

                                                                                                RENATO GATTI

Tratto da NOVINOSTRA 1962 n, 4


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