Viviamo in un’età di incertezza e di transizione. La critica ufficiale scoprirà, un giorno, che è esistita una piccola, ma stilisticamente ben caratterizzabile, scuola novese del nostro inquieto Novecento pittorico.
Si ravvicineranno i cieli, i rapporti tonali, di un pittore ormai largamente e meritatamente noto, come Beppe Levrero, a quello di Gigi Podestà. Di là dal diverso temperamento e dal tipo diverso di preparazione, si annoteranno i tratti comuni. Si vedrà meglio allora, il pregio di queste tele, proprio perché, nel raffronto, balzeranno all’occhio le individualità reciprocamente impermeabili di questi inquietanti, suggestivi, poeti del pennello. Ma si scoprirà anche un credo stilistico comune, insieme al quale la loro pittura è germinata.
Le nuvole, che a Podestà riesce a far stare sospese nei suoi cieli con un colpo di pennello si tramuterebbero in angeli, di quelli che usavano dipingere gli artisti molti secoli fa (forse a orientare in questo senso irreducibilmente simbolico l’intuizione di lui, concorsero i lunghi anni durati, quale umile artefice uscito dal popolo, nella modesta fatica di semplice decoratore di chiese).
La sua pittura sta diventando anch’essa cosa nota, apprezzata fuori dalla ristretta cerchia di amici di un tempo. Accade non di rado che amatori vengano per lui da lontano e dal loro pellegrinaggio novese riportino opere sue.
L’orientarsi recente di lui verso formule maggiormente decorative rende possibile il successo di una pittura in sé tutt’altro che facile.
Podestà ha posseduto sempre, oltre che una personalità forte (e costante) un vero genio istintivo del colore; s’aggiunga che la maniera di dipingere propria di questa scuola novese racchiude potenzialità decorative ambientali non meno libere, e indubbiamene più ricche, di quella pittura meramente astratta (dalla quale la separa un diaframma sottile, ma tenacissimo). Facile dunque, il passaggio tra formule di maggior accessibilità; difficile invece il darne un giudizio, a proposito d’un pittore come Podestà.
Per un verso, questo passaggio implica un’attenuazione di quella che chiamerei la maniera forte del nostro pittore, la maniera più intensamente simbolica, nella quale il rasserenamento estetico, quando ha luogo, tanto riesce più interessante e di largo respiro quanto più impegnativo e difficile ne è stato il conseguimento. Le cose che Podestà dipinge sono, allora, corpi che gravano nello spazio pittorico, forme pesanti alle quali rimane inerente questo singolare potere simbolico, benché siano puri rapporti tonali, e la pienezza del dipinto è la regola tecnica che egli deve rispettare perché l’incantesimo di queste forme pesanti non gli riuscirebbe, se tollerasse eccezioni la legge di pesantezza che le investe esistenzialmente, ponendosi come legge del quadro.
D’altro canto, la ricerca pura di questi valori genera sovente tele aventi qualcosa di urtante, ermetiche quindi ai più anche se intenditori. Ciò che essa evidenzia è più spesso una sofferenza delle forme, se così posso esprimermi che non in quella serenità alla quale si collega da molti la nozione di ciò che possa essere l’opera pittorica matura. Podestà ha dedicato e talvolta sacrificato, per lunghi anni, il suo sorprendente genio tonale e coloristico alla ricerca di queste forme pesanti: difficile dire se la formula più decorativa cui oggi sembra indirizzarsi l’appagamento pieno dei suoi tenaci sforzi d’artista o no anche un’attenuazione di essi. Forse, di volta in volta, l’una e l’altra cosa.
Questi appunti rimarrebbero monchi se non accennassi agli effetti che la pittorica della <pienezza> com’egli intuisce e vive, sortisce allorché investe esseri viventi, soprattutto esseri umani. La pesantezza, di cui ho tratteggiato il concetto, attinge significati singolari (pur rimanendo, mi sia lecito insistere, valore tonale genuino, da cui non esulano le verità tecniche acquisite -dai Francesi, in particolare- alla tradizione moderna), quando grava sulle sagome colorate del cavallo, dei buoi, del vecchio seduto fra i solchi, della ragazza campagnola.
A. Galimberti
articolo tratto da NOVINOSTRA – giugno 1963