di FRANCESCO MELONE
Le fiere di merci
« Qual sia, qual fosse già, e qual sia stato anticamente il più utile pregio di Nove, non occorre l’indugio di ricercati preamboli per dimostrarlo, giacché troppo chiaro a giorni nostri per fatto, per tradizione e per scritti altrettanto pregevoli, manifestissimo: le fiere, intendo, celebratissime e il gran commercio d’ onde si è resa Nove e rendesi famosa tuttavia fin oltre i monti.
È superfluo affaticarsi a pro del credito di tal città, la quale, come a tutti è palese, non invidia qualunque altra di Lombardia, essendo ella, per così dire, il Portofranco delle merci di Genova dirette a quella parte. Non vi è popolo di qua del Po che ivi non accorra per provedersene, non vi è feudo che ivi non porti i suoi prodotti, grano, vino, fieno, risi, legna, erbaggi e tutto il resto che può servire alle bisogna e voluttà dei viventi.
Non è in oggi, come ad altri luoghi, destinato a Nove in dati tempi lo spaccio delle derrate, ma quotidiana però chiamasi la fiera; ed è un piacere, e piacer di ogni giorno, a chi sorge di buon mattino, il vedere come carche di vettovaglie forestiere sono colla piazza le vie d’intorno e come in brieve dai compratori si spogliano ».
Queste colorite notizie si hanno da un manoscritto della seconda metà del 1700, conservato nella Biblioteca covica Berio di Genova, intitolato Saggio storico della Città di Nove, attribuito ad un ragguardevole personaggio di Novi, Tommaso Cavanna, il quale continua di questo passo, illustrando molto efficacemente l’importanza delle fiere di Novi. Egli cita fra l’altro, a conforto di ciò che scrive, le testimonianze di alcuni stranieri di passaggio, come il francese Joseph Lefrancois de La Lande, che aveva visitato Novi nel 1765, il quale nel suo Voyage in Italie, dopo aver magnificato la “ trattura della seta ”, aggiunge: « Le fiere di Novi sono celebri per le operazioni di cambio che vi si fanno e che danno la possibilità di impiegare il denaro con profitto, senza metterlo a interesse» o la citazione del Dizionario Universale degli inglesi Efraim Chambers e George Lewis, edito nel 1778, che riporta:
« Le fiere di Nove, piccola città nel Milanese sotto il dominio della Repubblica di Genova, sono quattro all’anno…. Ciò che principalmente contribuisce a renderle così famose è il grande concorso dei più ricchi mercanti e negozianti dei regni vicini per transigere affari,o negozi e per saldar conti».
Una puntuale spiegazione del successo della nostra fiera sarà poi data da un articolo del direttore del giornale novese “La Società”, apparso il 13 gennaio 1901, che afferma, a commento della proposta del Consiglio Comunale di Novi di uno stanziamento di mille lire per il miglioramento della manifestazione: « Le condizioni di un mercato non dipendono dalla particolare condizione di un piccolo luogo, ma hanno vita in relazioni più ampie e complicate, che si connettono alla generale prosperità delle industrie, dei commerci e dell’agricoltura ».
Ci sono avvenimenti strettamente legati alla vita di una comunità, che finiscono per essere in qualche modo identificati con la storia, la cultura e le usanze di quella comunità. Per Novi Ligure Santa Caterina non vuol dire solo fiera, ma significa rievocare ogni anno buona parte di quanto di tradizione e di costume c’è in questa Città, ed allora diventa importante sapere come tali fiere fossero davvero quel grosso avvenimento che il Cavanna ci presenta e perché siano potute assurgere a tanto.
Quanto alla loro origine, si trova qualcosa di accertato in un altro manoscritto più antico, attribuito a tal Paolo Serra e pubblicato dal sacerdote novese Gianfrancesco Capurro (nato in frazione Merella nel 1810 e morto nel 1882), il quale, oltre ad essere stato filantropo, educatore e patriota, si dedicò fra i primi a studiare gli eventi delle nostre terre con lo scritto Memorie e documenti per servire alla storia della Città e Provincia di Novi” e promuovendo allo scopo anche gli scavi di Libarna.
Le vicende delle fiere a Novi si perdono nella nebbia del Medioevo. Risale infatti al 22 settembre 1388 l’assenso del Duca di Milano, Gian Galeazzo Visconti, sotto il cui dominio si trovava allora la nostra comunità, per l’istituzione di un mercato, che, in base alle sue prescrizioni, doveva essere aperto non più di una volta alla settimana nel luogo detto “Zerbo”, una contrada delle più antiche, corrispondente alla località dove si apriva l’omonima porta, detta anche di “S.Pietro”, per la vicinanza a questa Chiesa. Guarda caso, proprio dove oggi si svolge il mercato settimanale del giovedì.
Nel 1529 Novi, liberata dalla tirannia dei Fregoso, s’era legata definitivamente alla Repubblica di Genova ed occorreva pertanto uniformarsi agli Statuti della Superba. Il 14 luglio 1586, la disposizione del 1388 viene sostituita da un nuovo provvedimento, che tra l’altro, per incoraggiare l’afflusso dei forestieri e dei pellegrini, introduce l’uso di un salvacondotto, il cui possesso prevede l’immunità sui reati riguardanti debiti per la durata di un mese.
Da quel tempo Novi, situata sulle strade che collegano Genova alla pianura Padana, gode di una operosa tranquillità e di un sempre crescente benessere, dovuto soprattutto al commercio di stoffe, tessuti e sete. Ricordiamo che Paolo da Novi, prima di essere eletto dal popolo genovese suo Doge e di lasciare per volere francese la testa sul ceppo 18 giorni dopo, aveva esercitato in Portoria il mestiere di tintore di seta, trasmessogli a Novi dal padre.
Genova è sempre una potenza marinara, per cui anche se le sue colonie in Oriente hanno perduto la loro importanza politica, esse si sono venute trasformando in colossali imprese commerciali. D’altra parte una vasta rete d’affari si era stabilita tra Genova ed i più importanti centri europei, e Novi era il suo primo importante abitato al di là dei Giovi, al confine della Repubblica e ai margini di una ubertosa pianura.
Le merci che l’Oriente poteva fornire, principalmente spezie, tessuti preziosi, tappeti, ecc.,venivano assorbiti da mezza Europa – all’altra metà provvedeva Venezia – ma per ciò che costituiva genere di prima necessità e oggetto di consumo ordinario, Genova doveva dipendere dall’entroterra e soprattutto dalla Lombardia, per cui, prima che le nevi chiudessero i passi sul giogo, doveva pensare a portarsi a casa le provviste per la stagione invernale.
Intanto il 2 agosto 1607 i Rettori della Comunità di Novi, con a capo il SindicoOrazio Cavanna, indirizzano una petizione al Serenissimo Senato della Repubblica Genovese per ottenere l’istituzione di tre fiere annuali, suggerendo di tener conto delle seguenti festività stagionali: S.Giorgio il 23 aprile, l’Assunzione della Madonna il 15 agosto, e S.Caterina, il 25 novembre.
Non veniva chiesto né qualcosa di nuovo, né di particolare. Infatti, con un uso generalizzato in tutto il territorio dell’Oltregiogo, erano sorte nel corso dei secoli, dal XII al XVI, almeno tre fiere annuali, sia pure con date diverse per le varie località. Si aveva così una fiera di primavera, generalmente fissata in un giorno di aprile, la quale consentiva di ripristinare le scorte che l’inverno precedente aveva esaurito o ridotte, una fiera d’estate, in luglio o in agosto, per poter commerciare soprattutto il grano, ed infine quella d’autunno, fissata di regola dopo la vendemmia, per la compravendita delle uve.
Erano richieste inoltre la franchigia per i dazi ed il salvacondotto per merci e persone, di una durata di almeno otto giorni per ogni fiera.
Il Senato genovese accoglie la richiesta in data 29 agosto 1607, con un decreto, che viene reso noto ai cittadini novesi, accorsi in piazza della Collegiata, dall’araldo comunale ”de verbo ad verbum”, cioè con gli opportuni chiarimenti circa le modalità ed i diritti prescritti. Oltre alla Fiera di S. Caterina, il 25 novembre, vengono concesse altre due fiere: di S. Giorgio. il 23 aprile e l’altra di S. Bartolomeo, il 24 agosto. Benché l’allestimento di tre fiere annuali, dimostri l’intensa attività commerciale, quella di S.Caterina finirà poi col prevalere, malgrado la stagione fosse sovente poco favorevole, perché sulle altre si sovrapposero le cosiddette Fiere di Cambio.
Le Fiere di Cambio
Le Fiere di Cambio ebbero grande importanza nella vita economica del Medioevo e dei primi secoli dell’Età moderna. Abbandonata progressivamente l’economia naturale, ossia la pratica del baratto – sale marino o olio rivierasco scambiati con grano o legna e così per altri prodotti – le Fiere di Cambio sorsero accanto a quelle delle merci, naturale evoluzione di queste, in conseguenza del crescente afflusso sulle stesse di monete diverse e spesso alterate, nonché della difficoltà dei pagamenti a distanza, che fece introdurre nel sec. XII l’uso della lettera di cambio, strumento per rendere più sicuro e rapido il movimento del denaro, ed evitare che l’insufficienza del contante fosse d’ostacolo allo sviluppo delle attività commerciali.
Le lettere di cambio, prima forma rudimentale dell’odierna cambiale, erano brevi scritti con cui si ordinava un pagamento in un determinato luogo e ad una data persona, in compenso di un acquisto o per una valuta di valore equivalente riscossa altrove. Secondo l’opinione più comune, furono inventate dagli Ebrei, quando, banditi dalla Francia, si rifugiarono in Lombardia. Con lettere o con biglietti compilati in brevi specifici o riservati termini, affidati a mercanti o a viaggiatori, trovavano il modo di rientrare in possesso di quanto avevano lasciato nei paesi d’origine in custodia a loro amici.
Occorre sapere che anche piccole Signorie potevano avere il privilegio di battere moneta, con regolamenti propri, che raramente tenevano conto rigidamente di appropriati valori rispetto a quelli di altri paesi, per cui è evidente la confusione che doveva nascere nei mercati, uguale quasi a quella delle lingue o dei dialetti, con conseguenze ovviamente ancora più gravi.
La Fiera di Cambio era essenzialmente costituita da un mercato di credito, nel quale la contrattazione non avveniva su merce visibile, ma attraverso una particolare moneta di conto, come quella lionese, sostituita poi dai Genovesi con lo scudo di marchi, valutato alla pari – salvo un aggio di appena l’ 1 % – con le cinque monete d’oro più pregiate di quel tempo (circolanti a Milano, a Genova, a Venezia, a Firenze, a Napoli ): esso si divideva in 20 soldi di 12 denari ciascuno, conformemente alla riforma monetaria di Carlo Magno, ed aveva un valore costante in rapporto alle altre monete, una sorta di Euro dell’epoca. L’intento speculativo consisteva appunto nel lucrare la differenza che il valore della moneta acquistava in dipendenza del corso del cambio. In pratica il funzionamento di queste fiere, ancorché diverso, era simile a quello delle Borse Valori attuali.
Inoltre, le monete, specialmente quelle d’oro (ducati, fiorini, zecchini) non essendo di forma perfettamente rotonda – come lo sono diventate quando si cominciò ad usare per la loro battitura appositi bilancieri, anziché il semplice martello – potevano essere di peso non regolamentale, a causa del fenomeno assai diffuso della cosiddetta “tosatura” del bordo per ottenere, senza alcuna spesa, polvere di metallo prezioso. I cambisti, forniti di apposite bilancine corredate da pesi di confronto tarati, durante le fiere potevano smascherare anche questo tipo di frode monetaria, oltre naturalmente le falsificazioni vere e proprie.
Successivamente intervennero i banchieri, i quali, oltre a speculare sulle quotazioni, imponevano gli interessi, traendone guadagni veramente cospicui, e ciò avvenne quando gli Italiani conquistarono il mercato europeo e ne monopolizzarono quasi interamente il commercio bancario. Essi erano particolarmente attivi nelle fiere della Champagne, in Francia, che duravano tutto l’anno e la loro prevalenza era tale che quando si trasferirono in quella di Lione, il primato passò alla fiera di questa piazza.
Pur restando nelle sedi di quelle di merci, le Fiere di Cambio se ne resero progressivamente autonome, acquistando il carattere di mercati periodici specializzati del credito, dove il fatto economico assumeva un’eminente funzione politica, perché i Sovrani che le controllavano avevano la possibilità di attingervi i mezzi per le loro conquiste e l’opportunità di effettuare versamenti in ogni parte d’Europa.
Non si sa perché i Genovesi un bel giorno abbandonarono Lione. È certo comunque che le loro prime Fiere di Cambio si stabilirono sempre in Francia, dapprima a Montluel, poi a Chambéry, a Lons-le-Saunier (1534) ed infine, nel 1537, nel dominio della Franca Contea, a Besançon, centro che, all’incrocio delle vie del Rodano e del Reno, dava facile accesso alla Svizzera, alla Francia nord-orientale ed alla Germania. Perciò questa fiera divenne ben presto celebre in tutta Europa, tanto è vero che normalmente le Fiere di Cambio venivano dette Fiere di Bisenzone.
Con il trasferimento a Besançon, i Genovesi diventarono i veri padroni delle operazioni cambiarie e da allora provvidero a regolarne il corso con l’emanazione di speciali Statuti, per cui la legislazione dei cambi diventò ben precisa ed attuata rigorosamente: ad esempio, era stabilito il termine per l’accettazione o il rifiuto della lettera di cambio, le partite convergenti sulla fiera erano soggette ad una particolare procedura, con iscrizioni su appositi registri e tutti i trattanti ammessi dovevano versare una cauzione.
I Genovesi rimasero nella Franca Contea fino al 1579, poi se ne staccarono per le gravi difficoltà create dalle guerre di religione e passarono a Piacenza, città che godeva di una felice posizione geografica ed aveva facili comunicazioni con gli Stati interessati a quelle riunioni, seguite sempre con particolare interesse dai Sovrani di Francia e di Spagna, dalla Repubblica di Venezia, dai Ducati di Savoia e di Parma.
Era uso che le Fiere di Cambio, la cui durata era di 8 giorni, si svolgessero di norma 4 volte l’anno: 1 febbraio (Fiera dell’Apparizione), 2 maggio (Fiera di Pasqua), 1 agosto (Fiera d’agosto) e 2 novembre (Fiera dei Santi)
Per la loro organizzazione il Senato ed il Maggior Consiglio della Repubblica nominavano il Magistratus triumvirum super omnibus differentiis cambiorum. La composizione di questo organo variò più volte, ma è da ricordare la riforma dei Capitula del 1622, la quale stabilì che « il console et un consigliere siano sempre della natione degli stessi Milanesi e Fiorentini un anno per ciascuna d’esse nationi ». Nel 1636 sarà aggiunto anche un consigliere veneziano con le stesse modalità. Mansioni assai delicate erano affidate al Pesatore pubblico, che bollava la moneta da usare nella contrattazione ed al Corriere Maggiore o Maestro generale delle poste o Gran Maestro dei corrieri, il quale custodiva i titoli ed i valori, ed era tenuto al segreto verso i mercanti. Ad ogni riunione la cosiddetta Contrattazione eleggeva il Magistrato delle Appellazioni, che era composto da tre Genovesi e da due membri di altri Stati.
I Capitula del regolamento stabilivano un determinato numero di operazioni, che, per spiegare sommariamente il meccanismo della fiera, sono qui di seguito in breve descritte.
Il primo giorno si accettavano le partite; il secondo giorno si faceva il bilancio delle accettazioni, segnando il nome dei debitori e dei creditori; il terzo giorno si effettuavano la regolazione e il protesto delle partite, la denuncia del contante, il prezzo dello scudo di marchi e il listino dei prezzi delle varie piazze; il quarto giorno si facevano negozi privati con la partecipazione dei sensali, allontanati il giorno precedente, ed il Pesatore effettuava la bollaturadelle monete ammesse; il quinto giorno si compilava il Libretto dei cambi e degli avalli (giorno di accettazione, prezzo, luogo, piazza, tariffa) e la registrazione delle cedole fuori fiera; il sesto giorno si esaminavano le risposte alle lettere scritte fuori e si concludeva la stima delle partite sospese.
Praticamente alla fine della sesta giornata la fiera di cambio era terminata, perché gli ultimi due giorni erano dedicati al controllo delle operazioni di chiusura. Infatti il settimo giorno ogni commerciante controllava il suo cosiddetto Scartafaccio ed ordinava i documenti sistemandoli poi negli Spacci per la spedizione, mentre l’ottavo giorno si effettuava la consegna definitiva dei bilanci, controllati dai Puntatori, i quali bilanci dovevano risultare in pareggio per poter permettere al Console la compensazione pubblica dei cambi non regolati in privato; chi era sorpreso in fallo pagava alla fiera seguente capitale ed interessi.
In possesso di tutti i bilanci, il Magistrato dichiarava chiusa la fiera ed il Cancelliere ne dava annuncio pubblico.
Le Fiere di Cambio a Novi
I Genovesi partecipavano assai attivamente alla Fiere di Cambio di Piacenza, ma, avendo capito, con la loro esperienza mercantile, l’importanza del controllo totale di un tale strumento finanziario – controllo che avrebbero potuto esercitare compiutamente solo trasferendolo entro i confini della loro Repubblica e imponendo le proprie norme – quando la guerra della Valtellina nel 1620 creò improvvise difficoltà, ne approfittarono per portare la Fiera di Cambio a Novi, località soggetta alla loro giurisdizione.
Uno dei motivi decisivi a loro favore fu il miglioramento delle vie di comunicazione dal mare al nord e viceversa. Nuove strade, infatti, erano state aperte, come quella che, attraverso la Lomellina, portava da Novi a Gavi ed a Genova.
Il decreto istitutivo, datato 1° dicembre 1621, prevedeva la sua durata per due anni, ossia per otto riunioni, da quella di Apparizione del 1622 a quella dei Santi del 1623, ma dopo tale periodo, in barba alle richieste milanese, bolognese, toscana e veneta, che, con le più aspre proteste, sollecitavano altre sedi, la Fiera rimase nella nostra cittadina, fino al 1692, salvo brevissime parentesi, nel 1642, in favore di Rapallo e di Sestri Levante, nel 1672, anch’esse sotto il dominio genovese.
Di fronte alle obiezioni sollevate anche dal Papa, il Senato genovese indirizzò a Sua Santità una lettera in cui si diceva « ... habbiamo deputato il luogo di Nove posto in pianura ne gli ultimi fini del nostro Dominio verso Lombardia, ampio, commodo e capace per simili affari, sicurissimo per le strade et abbondante di vettovaglie, rinfrescamenti e di tutte le commodità »
Per mantenere le fiere a Novi, Genova, oltre ad offrire ogni comodità di soggiorno e di negozio ai trattanti, arrivò a proporre una scorta di soldati Corsi ai Milanesi, che si dimostravano preoccupati per il trasporto di rilevanti quantità di denaro – ammontante anche a 20.000 scudi – ed una galera ai Fiorentini, che volessero fare una parte del viaggio per mare.
L’interesse dimostrato dai Genovesi per continuare ad avere le Fiere di Cambio entro i loro confini territoriali potrebbe sembrare eccessivo, se non si tiene conto anche del fatto che la funzione di regolazione dei pagamenti e di contrattazione dei cambi era soltanto lo scopo meno importante di queste fiere, mentre nascondeva quello più concreto e sostanziale della funzione creditizia e speculativa.
I banchieri genovesi avevano assunto il primo posto nelle operazioni di finanziamento della Corona di Spagna, sostituendosi ai banchieri tedeschi, indeboliti e danneggiati dalle ripetute bancarotte della Casa d’Asburgo. Infatti Carlo V, nonostante che sul suo Impero, esteso dall’Europa all’America, non tramontasse mai il sole – come egli stesso diceva – fu forse uno dei primi grandi dissestati della storia ed il suo successore, Filippo II, dovette promuovere una sorta di svalutazione monetaria per non pagare i debiti ereditati. I banchieri anticipavano a Sua Maestà Cattolica le enormi somme di cui egli aveva bisogno per le costosissime operazioni di guerra in Fiandra ed in Italia e ne ottenevano in compenso una partecipazione sulle importazioni d’oro e d’argento dall’America.
Trattandosi di somme ingenti (si pensi per esempio, che in una sola volta i Centurione, una delle famiglie facoltose di Genova, anticiparono ben 10 milioni di ducati d’oro, in quel tempo valore monetario enorme), i banchieri, poiché, per quanto fossero ricchi, non potevano da soli averne la disponibilità, si servivano appunto delle fiere per acquistarvi tratte pagabili sulle piazze di Fiandra e di Italia – in quelle regioni cioè, in cui dovevano essere fatti i pagamenti per conto della Spagna – e le ottenevano non pagandole in contanti, ma con altre tratte che rappresentavano i loro crediti presenti e futuri. Il destinatario di questi ultimi titoli di credito aveva naturalmente l’obbligo di pagarli alla scadenza.
È chiaro che con queste operazioni si potevano lucrare cospicui guadagni sotto forma dello sconto sulle tratte che si acquistavano, pagabili fuori piazza a scadenze più o meno lunghe, oltre alle commissioni e provvigioni connesse alle normali operazioni di cambio e di compensazione, operazioni tutte che venivano convertite nella particolare moneta istituita in fiera, con ulteriore possibilità di guadagno.
Viene da chiedersi perché tali fiere non venissero tenute nella stessa Genova; la ragione sta nel fatto che l‘utile derivato dalle operazioni relative doveva essere legittimo anche sotto l’aspetto formale. Vigeva infatti in quel tempo il divieto canonico di percepire qualsiasi interesse sui prestiti o sui crediti commerciali, cosa considerata comunque reato di usura e per il quale erano comminate pene severissime. Perché ad un contratto potesse essere riconosciuto il carattere genuino del cambio, si richiedeva dalle leggi canoniche la diversità di moneta e di luogo, per cui si doveva simulare, per esempio, un contratto di cambio di fiorini in ducati fatto a Genova, che veniva poi rinnovato in senso inverso a Novi: dalla diversa quotazione della moneta scambiata si ricavava l’utile dell’operazione.
Le Fiere di Cambio novesi raggiunsero una grande notorietà, tanto è vero che non si parlava più di “Fiere di Bisenzone”, ma addirittura di “Fiere di Nove “ e, a conferma della grande considerazione di cui godevano in quel tempo, nel citato Dizionario Geografico Universale (vol. VIII, pagg.351-352), le vengono attribuite come importanza il 3° posto fra quelle dell’Europa del tempo, dopo Francoforte e Lipsia, e prima di Riga e Arcangelo in Russia, di San Germano, Lione e Beaucaire in Francia. Un merito questo da non sottovalutare, considerata l’importanza politica ed economica delle città citate, non solo, ma resta comunque importantissimo il fatto che Novi sia l’unica località italiana di cui si faccia menzione in quel Dizionario. In un memoriale presentato nel 1622 al Duca di Parma si legge «...si negotiano tesori grandissimi i quali negotiati in mercantie occuperebbero e pascerebbero genti innumerabili » Insomma, si può affermare senza esagerare che Novi era la Wall Street dell’epoca.
Un altro elemento che denota il rilievo di queste fiere ci viene offerto da un documento, datato 26 novembre 1675, esistente nell’archivio del nostro Comune, in cui viene specificato il contributo degli ebrei novesi alla costruzione della Chiesa Collegiata in cambio della concessione fatta loro di partecipare al mercato cittadino. Sembra che le barriere religiose, in quel tempo molto alte, a Novi non rappresentassero un ostacolo insormontabile. Di fronte alla possibilità, da una parte, di ottenere un finanziamento per la costruzione della Chiesa, e dall’altra di avere uno spazio in uno dei mercati più importanti, ci si metteva d’accordo.
Il vantaggio economico arrecato dalla presenza di alcune centinaia di forestieri in un grosso borgo, qual’era Novi nel Seicento, risultava ovviamente notevole, anche se c’era chi cercava di sminuirne la portata, per non pagare una eccessiva contribuzione ai soldati imperiali. All’intensa attività del già prospero commercio nelle fiere delle merci e nei mercati, che richiamavano folle sempre più vaste, si aggiungeva il periodico convegno dei più facoltosi mercanti e da 60 a 120 banchieri provenienti da tutta Europa
Durante le quattro fiere, e quindi per 32 giorni l’anno, banchieri genovesi, fiorentini, milanesi, veneziani e di altri siti soggiornavano a Novi, con il seguito dei servi, dei segretari e dei sensali. Vi arrivavano con ricche carrozze e quando trasportavano grosse somme di moneta sonante si facevano accompagnare da una propria guardia oppure, come si è detto, da una scorta armata inviata dal Senato genovese.
Alcuni di essi vi mantenevano una propria casa, altri erano ospiti presso amici, altri ancora si sistemavano nelle locande. Gli otto giorni della fiera erano occupati nelle riunioni collegiali delle contrattazioni e nelle trattative private, ma c’era anche tempo per i banchetti, i ricevimenti e gli spettacoli teatrali. Il fiume d’oro, che di là correva in numerosi rigagnoli ad alimentare le più diverse contrattazioni, lasciava certamente qualche preziosa pagliuzza a molti cittadini novesi, ai poveri soprattutto, ai quali andavano le rituali e generose elemosine propiziatrici, raccomandate anche dai regolamenti. Quanti erano in quel tempo questi cittadini ? La “Descrizione dei Luoghi e Terre appartenenti alla Ser.ma Repubblica di Genova” informa che nel 1629 « Novi è un buon Borgo ripartito in quattro parrocchie, o siano quattro quartieri », con 892 famiglie per un totale di 4446 abitanti.
Era logico che altre località brigassero per avere questo tipo di fiere e le difendessero strenuamente quando le avessero avute, come d’altra parte aveva fatto Genova. Il 29 settembre 1685 i Consoli del Collegio dei Mercanti di Piacenza pubblicarono un proclama che annunciava il ripristino delle Fiere di Cambio in quella città. I Genovesi restarono a Novi, ma man mano i commerci si spostarono su Piacenza, fino a quando, nel 1692, con l’estinzione anche di quella di Novi, se ne tenne una sola a Greco, nei pressi di Milano.
A causa della discesa delle truppe tedesche in Italia, nel 1694 i Milanesi stessi chiesero di potersi riunire nuovamente a Novi, spiegando che se ne erano allontanati solo perché non si erano accettati in pagamento i loro “Filippi” – monete così chiamate perché recavano sul diritto il volto di Filippo IV, re di Spagna e Duca di Milano – ma nel frattempo i Genovesi avevano ripristinato le fiere di Sestri Levante e nonostante che i Padri del Comune novese, Giulio Cesare Maino e Giacomo Francesco Cravenna, il 20 novembre 1695 si appellassero ai Reggitori della Repubblica di Genova per farle ritornare a Novi, il Serenissimo Senato deliberò che esse restassero a Sestri per altri tre anni, fino a tutto il 1698.
Venne di nuovo approntato un “Progetto per rimettere le fiere in Nove con la contrattazione dei Milanesi”, a cui seguì una nuova supplica della Comunità novese. Fu condotta allora un’inchiesta, una specie di referendum, presso i trattanti, il cui esito si rivelò largamente favorevole a Sestri; evidentemente, il clima aveva fatto la sua parte. Per Novi non c’era più alcuna speranza ed il Senato stabilì che le fiere continuassero nella cittadina rivierasca. Vi restarono fino al 1708, quando passarono a S.Margherita, ma avevano ormai ben scarsa importanza, perché si stavano affermando le Borse, che ne erano la loro naturale e necessaria trasformazione.
Le Fiere di Cambio cessarono definitivamente nel 1752, quando anche la Repubblica di Genova era già decisamente avviata nella china della decadenza economica e politica, sia per la crisi della fortuna spagnola cui era legata, sia per l’importanza mondiale assunta in materia finanziaria dalla piazza di Amsterdam. Siamo agli albori della nuova era della storia economica, che vede sorgere i primi Banchi Pubblici ed è matrice dell’attuale ordinamento bancario, causata dalla sfiducia provocata dai numerosi fallimenti dei banchieri privati, determinati dall’eccesso della speculazione e dalla immobilizzazione di capitali depositati nei prestiti agli Stati nazionali.
A Novi non è rimasta purtroppo traccia dello splendido periodo delle sue Fiere di Cambio, di cui quasi tre generazioni di novesi sono stati, se non altro, spettatori e non si hanno neanche indicazioni sui locali dove si svolgevano le contrattazioni.
La Fiera di S. Caterina
Con la cessazione delle Fiere di Cambio, quelle delle merci, che nell’arco dei precedenti settant’anni erano rimaste un po’ in ombra e talvolta trascurate, ripresero nuovo vigore. Intanto al 3 agosto 1699 risale una richiesta dei novesi, rivolta al Senato genovese, perché sia autorizzato il mercato settimanale il giorno di mercoledì, mentre, per quanto riguarda le fiere periodiche, il 25 giugno 1756 il Consiglio del Comune di Novi, per mezzo di Giuseppe Vaccari e Angelo Corte invia a Genova una petizione con la richiesta di spostarne le date relative, per evitare concomitanze con altre analoghe, quali le fiere di Alessandria e di Bergamo, impedire quindi una sleale concorrenza commerciale e favorire il naturale flusso dei mercanti e degli acquirenti.
Quella di S. Giorgio si vorrebbe anticiparla al 1° aprile e chiamarla Fiera di Pasqua di Resurrezione, quella di S.Caterina sostituirla con un’altra detta di S. Matteo, con inizio il 21 settembre, per collegarla al mercato delle uve; la loro durata dovrebbe essere di dieci giorni ciascuna, mentre la Fiera d’agosto potrebbe essere abolita.
Il 30 agosto 1757 queste richieste vengono accolte, ma la Fiera di S. Matteo non ha successo, per cui, dopo cinque anni di inutili tentativi di ripresa, i Padri del Comune di Novi rivolgono una nuova petizione perché venga ripristinata la Fiera di S. Caterina, annullando quella di S. Matteo.
Occorre attendere il 7 settembre 1762 per ritrovare nella sua originaria collocazione la Fiera di S.Caterina: un Decreto genovese la ripristina per il 25 novembre di quell’anno, ne stabilisce la durata e le condizioni commerciali. Infatti ai Genovesi faceva comodo questa data perché, non solo terminava all’incirca in quei giorni il periodo della villeggiatura, ma si potevano vendere le merci che avevano ricavato dalle nostre campagne, compreso il vino nuovo. L’esistenza del Palazzo della Dogana ne è una prova.
La sua durata doveva essere ancora di 10 giorni e nel periodo compreso fra i tre giorni prima ed i tre giorni dopo aveva validità un «… generale Salvacondotto Civile, Reale, e Personale per i debitori di qualsivoglia grado e condizione, tanto nazionali, come esteri, esclusi i debiti contratti fatti in tempo e per l’occasione delle Fiere »; i reati commessi in questo periodo dovevano essere giudicati da un Tribunale composto da magistrati novesi. Come già secoli prima, si voleva attirare a Novi il maggior numero di visitatori possibile e far conoscere la manifestazione, così come le Fiere di Cambio avevano portato per l’Europa il nome della nostra Città.
Genova possedeva una loggia a Bruges, nelle Fiandre, necessaria per i vasti commerci che aveva con questa regione e a questo proposito mi sorge il dubbio che il nome di “Leon d’oro”, dato a molti alberghi e trattorie nostrane – uno esisteva anche a Novi e altri si trovavano soprattutto sulle varie vie verso il Nord – derivi dal fiorino d’oro di quei Paesi, su una faccia del quale è rappresentato un leone rampante. Un’altra peculiarità era data dal fatto che durante la fiera giungevano a Novi dalla Savoia certi pesanti cavalli da tiro, di cui Genova, col suo territorio attraversato da territori montuosi, aveva bisogno per i suoi trasporti durante l’inverno.
Da allora, salvo alcune interruzioni dovute a guerre o a sovvertimenti politici, la Fiera di S.Caterina si è sempre festeggiata. Anche durante l’occupazione francese, nel periodo Napoleonico, la fiera non fu mai sospesa, anzi incoraggiata con un proclama del Comitato di Polizia della Municipalità di Nove in data 15 novembre 1797.
Il 10 luglio 1828 veniva affisso per le strade cittadine dal Sindaco De Carlini un bando, nel quale si notificava che, per “Concessione Sovrana” – re era Carlo Felice di Savoia – il seguente 5 agosto, tradizionale festività della Madonna della Neve, avrebbe visto la riapertura della fiera estiva, che rimase fino al 1940 e che oggi è ancora viva come celebrazione religiosa della Patrona della Città di Novi
È vero che il commercio dei bovini e degli equini fu sempre il punto forte del mercato insieme alla “festa” dei tacchini che, vivi, venivano condotti alla vendita, preceduti da un bambino che lanciava loro manciate di granturco e seguiti dal proprietario. Le bancarelle dei venditori, gli artigiani, i giocolieri gli acquirenti si accalcavano allora, come ora, nelle principali vie del centro e nelle due piazze della Collegiata e della Legna (l’attuale piazza Carenzi ). Furono poi costruiti e si utilizzarono anche i portici ai lati della Porta dei Cappuccini o di Pozzolo e si aggiunsero nuovi spazi espositivi nel 1890 con la creazione del nuovo mercato in Piazza del Maneggio, oggi intitolata all’industriale Stefano Pernigotti. Nel 1931 le bancarelle furono posizionate per la prima volta anche lungo il Viale Aurelio Saffi detta comunemente “ della Passeggiata”.
Nel 1838, l’inaugurazione del Teatro “Carlo Alberto”, copia ridotta dell’allora “Carlo Felice” di Genova, offre la possibilità di abbinare commercio e spettacolo, affari ed intrattenimento. Aperto proprio il 25 novembre, coincidenza che attirerà gente anche da centri lontani, il teatro diventerà negli anni una costante di prima grandezza nell’economia della fiera, sviluppando nei novesi un amore per il palcoscenico, che, con alti e bassi, si conserva tuttora.
Per vari anni la Fiera fu dotata di premi per il miglior bestiame ed anche lo sport ebbe un suo ruolo propulsivo, con l’istituzione di gare velocipedistiche, a cui partecipavano i campioni dell’epoca.
Nell’archivio del Comune di Novi è conservato un disegno del 1880 con il titolo “Disposizione dei Baracconi sulla Piazza della Stazione per la Fiera di S.Caterina con distinta del fitto ricavato”. In seguito il Parco dei divertimenti fu trasferito in Piazza XX Settembre – con le giostre spinte a mano dai ragazzi o tirate da cavalli bendati, sino a quelle a vapore – e infine, nel secondo dopoguerra, nella Piazza del Maneggio.
La fiera si è svolta anche durante il corso delle due guerre mondiali e fu sospesa soltanto nel 1944, l’anno dei bombardamenti aerei più rovinosi. Nel 1940 un decreto ministeriale stabiliva la chiusura delle fiere del bestiame, ma nel 1941 venne concesso alla nostra fiera il raduno del bestiame da riproduzione, escludendo, per ragioni di razionamento, quello da macello.
A conflitto terminato ogni attività fieristica venne ripresa, senza variare di molto le sue tradizioni, ovviamente tenuto conto del progresso tecnologico anche in campo commerciale e del tempo libero; così, i buoi ed i cavalli sono stati sostituiti da trattori e da altre macchine agricole, oggi allineate lungo il Viale della Rimembranza, le giostre, assunto un aspetto fantascientifico, ruotano sempre più velocemente, il tiro a segno con le “tre palle una lira” è stato sostituito dai videogiochi, ma una cara consuetudine locale, quello del consumo del “bibéin”, è rimasta immutata, malgrado il volgere dei tempi ed il variare dei costumi.
A questo proposito è possibile azzardare un accostamento. Il quarto giovedì di novembre si celebra tradizionalmente negli Stati Uniti il “Thanksgiving”, la Giornata del Ringraziamento, certamente la festa più popolare per gli americani dentro e fuori il loro Paese, ma soprattutto popolarissima nel New England, dove sbarcarono il 21 dicembre 1620 i pellegrini del Mayflower. Fu celebrata la prima volta dai Puritani esattamente un anno dopo, lo stesso giorno e lo stesso mese, in segno di ringraziamento al Signore per l’esito soddisfacente del primo raccolto contadino. Il culmine della festa nasce in cucina, dove su un piatto troneggia il tacchino ripieno, accompagnato da torta di zucca e verdure varie. Dunque gli ultimi giorni di novembre, al di qua e al di là dell’Atlantico sono decisamente decisivi per i gustosi pennuti originari del Messico, già consumati dalle popolazioni Maya e Incas e portati in Europa da Cristoforo Colombo.
Perciò la novese Fiera di S. Caterina e la statunitense Giornata del Ringraziamento, hanno in comune non solo un’origine seicentesca, ma anche l’indubbio marchio campagnolo, simbolo delle origini contadine dei due appuntamenti annuali, che ogni generazione tramanda a quella che segue.
Fonti bibliografiche
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LEARDI. ERALDO, Novi Ligure, Alessandria 1962, pp. 214-229
LEARDI, FRANCO, Le fiere di cambio a Novi (sec. XVII), in NOVINOSTRA, Anno XI N.3, settembre 1971, pp. 28-31
MELONE, FRANCESCO, Le Fiere di Novi, in Bollettino del Rotary Club Novi Ligure, N.3 1999, pp. 7-16
A.A.V.V. La Fiera di Novi nei secoli, Comune di Novi Ligure, 1981