Rondinaria di Silvano d’Orba Il luogo dei canali (auriferi)

di GIUSEPPE PIPINO

Nel sito semi-istituzione di Silvano d’Orba è stata recentemente pubblicata una foto dei ruderi del castello vecchio con la didascalia riferita a Rondinaria, provocando l’intervento polemico di molti utenti e, di conseguenza, la dovuta rettifica da parte dei curatori.  Questi, d’altra parte, non avevano fatto altro che riprendere quanto affermato da PISTARINO (1970 e 1978) in due maestose opere, evidentemente fidandosi del prestigio goduto dall’Autore, il quale racconta invece altre bubbole, tra le quali l’identificazione dell’aleramica (e vercellese) corte Auriola con la località Valloria, sita nella valle Stura di Ovada, e del fiume Amporio che circoscrive la corte (oggi Lamporo) con il torrente Piota (PIPINO 1989 e 1996).

Silvano d’Orba è stata a lungo suddivisa in due “ville”, quella inferiore (e settentrionale) dominata ancora dai ruderi del castello medievale dei Zucchi, feudatari dei marchesi di Monferrato, ruderi indicati, oggi, come “castello vecchio”, e la villa superiore, storicamente legata a Genova e dominata dal superbo castello degli Adorno, ultimato nel 1492 sui resti di altro già appartenuto ai Doria.  Rondinaria si trova invece ad una certa distanza, al di la del torrente Piota, nel luogo ove sorge l’odierno cimitero del paese (da tempo unificato): è stata per un certo periodo corte medievale precedente e distinta dai due Silvano e non è stata oggetto del fenomeno di incastellamento peculiare delle terre dell’Oltregiogo (genovese).

La tradizione popolare, enfatizzata e, talora, distorta da “eruditi” moderni, vi vede una grande città romana a guardia di migliaia di schiavi obbligati a raccogliere l’oro contenuto nell’Orba e nel Piota, attività testimoniata dai cumuli di ciottoli, residui dei lavaggi, che si vedono ancora sulle sponde dei due torrenti (e del Gorzente).  Io stesso ho riconosciuto e descritto i cumuli di ciottoli come sicuri residui del lavaggio in grande dei depositi alluvionali delle valli Gorzente e Piota (oltre che della Stura ovadese), lavaggi effettuati ai tempi delle prime colonizzazioni romane (PIPINO 1989 e segg.), ma le costruzioni riferite a Rondinaria sono di epoca medievale, così come lo stesso toponimo, e le incertezze storiche sono ben lontane dalla soluzione.

Ritengo, ora, di poter dare un ulteriore contributo alla conoscenza dell’affascinante mistero, sulla base di un approfondimento della documentazione già segnalata, integrata da altra di recente acquisizione, e sulla base di ulteriori e più approfondite osservazioni sul terreno, oltre che di confronti con la più recente letteratura sull’argomento.

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Aurifodine e Torrazzi

In epoca romana, e per buona parte del Medio Evo, con il termine aurifodinae venivano indicate le miniere d’oro, sia quelle in giacitura primaria, cioè filoni di quarzo aurifero incassati nelle rocce, che quelle in giacitura secondaria, cioè sedimenti alluvionali auriferi, specie quelli terrazzati.  I sistemi di sfruttamento, o meglio, di coltivazione, erano (e sono) diversi a seconda del tipo di deposito, e diverse sono le testimonianze da essi lasciati.

Le notizie storiche antiche, su miniere d’oro, si riferiscono, in genere, al secondo tipo, e le testimonianze più visibili sono costituite da alti cumuli composti da ciottoli omogenei, quanto a granulometria, forma e composizione, ben lavati e disposti secondo file parallele separate dai canaloni di lavaggio.  Le più note sono quelle della Spagna nord-orientale (Las Medulas, etc.), dove secondo la testimonianza di Strabone e di Plinio le coltivazioni avvenivano nel corso del I secolo dopo Cristo, e quelle della Bessa, nel Biellese, che corrispondono alle aurifodine di Ictumuli, coltivate fra il II e il I sec. a.C. da pubblicani romani e per le quali, secondo Plinio (N.H. XXXIII, 4), un antico provvedimento del senato proibiva di utilizzare più di 5000 uomini: queste ultime si trovano sul fianco orientale dell’anfiteatro morenico d’Ivrea, nei comuni di Mongrando, Zubiena e Cerrione, e non vanno confuse con quelle coltivate dai Salassi utilizzando le acque della Dora, secondo la testimonianza di Strabone (Geogr. IV, 6, 7), le quali si trovano lungo il fronte meridionale dello stesso anfiteatro, nei comuni di Mazzé, Villareggia, Moncrivello, Borgo d’Ale, Alice, Cavaglià (PIPINO 2001-2012).  A valle delle cerchie moreniche pedemontane alpine si trovano pure altri depositi, recentemente da me evidenziati (PIPINO 2006, 2012): nell’Ovadese, nelle valli Stura, Piota e Gorzente, si trovano gli unici depositi noti a sud del Po e in relazione diretta con giacimenti auriferi primari (PIPINO 1997, 2001).

Nonostante il plurisecolare livellamento, nell’area che ci interessa i cumuli di ciottoli sono ancora abbastanza evidenti in molte zone, dove raggiungono altezze di tre e più metri, in altre sono coperte da una fitta vegetazione.  Compaiono sui terrazzi del Gorzente poco a valle delle vecchie miniere d’oro della Lavagnina, in località Cravaria, e si estendono, su entrambe le sponde fino alla confluenza nel Piota; proseguono, su entrambe le sponde del Piota, fin sotto Lerma, poi si estendono, su due ordini di terrazzi, sulla sola sponda sinistra, fino alla confluenza nell’Orba, per uno sviluppo lineare di oltre 12 chilometri, interrotto localmente da bonifiche agricole e, specie nella parte finale, da insediamenti urbani e industriali (PIPINO 1997).  Gli affioramenti più consistenti, da me evidenziati e segnalati alla Soprintendenza Archeologica, sono oggi oggetto di tutela, nei comuni di Casaleggio Boiro, Lerma, Tagliolo e Silvano d’Orba.

Allo sbocco del Piota nell’Orba, in territorio di Silvano, i cumuli interessano il terrazzo che domina la penisola di confluenza, quotato 170 metri e rilevato di venti e più metri rispetto all’alveo dei due torrenti (148-150 m), nella cui parte terminale sorge oggi il cimitero di Silvano.  Davanti al cimitero si trovano le parti basali di due torri altomedievali, note da sempre come “torrazzi” e considerati i residui di una grande fortezza tardo-romana o bizantina, quasi totalmente distrutta negli anni 1910-11 proprio per far posto al cimitero.  La zona è indicata, da secoli, col nome di Rondanara o Rondinaria.  In una carta del 1622, conservata negli archivi torinesi (Monferrato, confini vol. S), vi si legge: “Sito dov’era edificata la città di Rondanara”, affermazione derivata, con tutta probabilità, dalla lettura dell’opera di Jacopo d’Acqui, che vedremo.  In carte successive, la regione Rondanara si estende nella piana del Piota, fin sotto Tagliolo.  In quella del 1723, conservata al Museo Storico dell’Oro Italiano, il terrazzo terminale di Rondanara è rappresentato come una distesa informe di ciottoli, con un piccolo castello verso la punta: è questa, probabilmente, la prima rappresentazione dei torrazzi.

La cascina Rondinaria, che si trova lungo la strada della Caraffa, in territorio di Tagliolo, è di costruzione recente, ma si colloca nella regione indicata in carte settecentesche come Rondanara, in area dove sono ancora presenti cumuli di ciottoli, residui delle coltivazioni aurifere romane, che le fonti storiche locali e la tradizione popolare identificano con la mitica città.

carta-compilata

Foto sopra – Parte della carta compilata il 14 gennaio 1723 dall’agrimensore Giorgio Mazzarello di Silvano

Carte e documenti antichi riportano anche i toponimi Bessica, Bessia e simili, tuttora presenti nelle basse piane del Piota e del Gorzente e associati ai cumuli di ciottoli delle aurifodine (PIPINO 1997): il toponimo è estraneo alle parlate locali, ricorda quello della Bessa nel Biellese e, come quello, potrebbe essere messo in relazione con i Bessi della Tracia, abitanti la regione Bessica, che nell’alto Medio Evo designavano i cercatori d’oro per antonomasia (PIPINO 2012).

Jacopo d’Acqui, come noto, attribuisce la distruzione di Rondinaria a Guglielmo il vecchio di Monferrato, e a lui si riferisce DURANDI (1774):  “…Forse fu allora (1224) che il marchese Guglielmo distrusse Rondinaria, le cui rovine si suppongono esistere sotto Tagliolo, e alquanto sopra l’influente dell’Appiotta nell’Orba”.  Lo stesso Autore, come avevo già evidenziato, “…volle ubicare, a nostro parere non in perfetta buona fede, l’aleramica corte Auriola nella valle Stura di Ovada, identificando l’Amporio citato nell’atto di donazione del 933 con il Piota” (PIPINO 1989). L’identificazione, come detto, è stata accolta come verità sacrosanta anche da autorevoli storici alessandrini, nonostante l’evidente infondatezza e nonostante che essa sia stata smentita dallo stesso Durandi , in una pubblicazione successiva,  e poi da altri studiosi.

La prima identificazione fra miniere romane e città di Rondinaria è contenuta, a quanto pare, in un manoscritto dei primi anni dell’Ottocento, opera di Giacomo Carrante prevosto di Mornese, che però fa una certa confusione fra miniere primarie e alluvioni aurifere e localizza la città nella piana sotto Lerma.  Vi si legge, tra l’altro, che le miniere furono attivate dal console romano Marco Popilio Lenate “…per tenere occupati i suoi 40.000 soldati”, e, proseguendo: “…È fama che detti soldati cominciassero a ricercare l’oro nel luogo detto di Silvano e inoltrandosi verso mezzodi sotto Lelmo, inalzassero i molti mucchi di pietre, che ora tutt’ora si veggono nell’alveo del Gorzente…Questa miniera, abbandonata dai Romani, fu per qualche tempo continuata dai Liguri montani….I Liguri suddetti abitavano in Rondinaria che essi stessi si fabbricarono e questa trovasi nel piano sottoposto a Lelmo verso mezzodi, ove tuttora scorgansi avanzi di costruzioni di fabbricati alla romana e qualche casa sebbene in mal’essere ancora in piedi”.  Continua, poi, affermando che da notizie desunte dai libri conservati nel castello di Lerma “…Il castello di Casaleggio e di Lelmo fu fabbricato dai Romani, e quello di Lelmo era l’abitazione del console Lenate, come da iscrizione sulla pietra e sopra una finestra verso il Gorzente”.  Nel contempo (1816) il parroco di Morbello, Sebastiano Stella, segnalava che Piota e Gorzente erano auriferi, ma, avvertiva: “…Gli enormi ammassi, ossia mucchi di sassi fluviatili per tutta la valle estensione di più leghe, indica nongià una gran città distrutta, chiamata Rondinara, opinione popolare, ma bensì che in tutta quell’estensione si è pescato l’oro nativo, e resa perciò sterile”. Qualche decennio dopo don Pietro Peloso, parroco di Lerma dal 1835 al 1854, scriveva: “…Fra questi cinque Paesi quelli che comprendono nei loro territori le sponde aurifere del Piota e del Gorzente…hanno un altro argomento di maggiore antichezza nei copiosi acervi di pietre, che trovansi di qua e di là prolungati a seconda dei due canali ai piedi dei monti.  Il perché Lerma essendo come il centro e presentando una copia immensa di tali pietre…vuolsi  considerare il luogo più antico dei convicini.  Sia che lo scavo di tanti sassi fosse opera degli schiavi come alcuni pretendono, sia che come pensano altri fosse lavoro di milizie stanziate in Italia….ed è si grande la quantità delle pietre scavate nelle lande appié del Masino che in altra parte maggior non si trova, e questo è propriamente  il sito che dall’ignoranza del volgo assegnasi alla tradizionale ma favolosa città di Rondinaria”.

Ritornando a Silvano d’Orba, altre informazioni locali stanno alla base di quanto riportato da CASALIS (1850): “…Nella regione detta Mogliette, sito pieno di pietre e lasciato a bosco…esistono ruderi di due monumenti antichi, presso l’uno dei quali i coltivatori rinvennero monete d’oro di antichità romana. Quei ruderi e la quantità di sassi esistenti per lungo tratto fanno supporre che vi esistesse qualche città o paese…Gli avanzi della vicina antica Rondinaria, di cui rimangono ancora due torri, attestano l’antichità di questo luogo”.  Secondo CARLINI (1879): “Narrano alcuni istorici come nel territorio di Silvano esistesse l’antica terra di Rondinara o Rondanara, e ne segnalo il luogo in una regione chiamata Mogliette, alquanto sopra il confluente del Piotta, ove scorgonsi ancora, oggidì ruderi di torri e di mura, segnati dalla popolare tradizione quali avanzi di un antica città distrutta dai Saraceni”.  Successivamente  ROSSI (1896 e segg.) riporta notizie apprese da altri “eruditi” locali (Guasco, Martinengo, etc.), pur dimostrandosi spesso scettico sulle informazioni ricevute: nel capitolo dedicato a Silvano, scrive, tra l’altro: “…Comunemente si ripete che l’antica Rondinaria fosse nell’altopiano tra la Piotta e l’Orba, al cui confluente veggonsi ancora alcuni resti di torri e qualche tratto di muraglia….Volendo di que’ ruderi dare qualche schiarimento v’ha chi asserisce che fossero colà situate le abitazioni occorrenti alle caccie, che si praticavano nella selva dell’Orba dai re longobardi. Altri poi con fondamento forse maggiore opina che tali macerie appartenessero ad una di quelle stazioni di schiavi, che sotto l’ultima dominazione romana si stabilirono sulle sponde di alcuni torrenti o fiumi, obbligando que’ miseri (per lo più cristiani) a lavare le sabbie aurifere”.  Nel capitolo dedicato a Lerma, leggiamo invece: “…La tradizione, poi, dice che sulla sponda sinistra del Piota esisteva una città chiamata Rondinaria; ma i critici della storia provarono che Rondinaria consisteva in gruppi isolati di costruzioni fortificate aventi il loro centro sotto Lerma, che servivano d’asilo agli schiavi romani addetti alla ricerca dell’oro nell’alveo del Piota Amporium”.

 

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Le informazioni contenute nelle reiterate pubblicazioni del Rossi sono, forse, alla base della decisione di tutelare il sito da parte dell’allora Soprintendenza ai Monumenti che, nel 1908, notificò al Comune di Silvano d’Orba il valore monumentale dei torrazzi.  Ciò nonostante, e senza darne comunicazione, nel 1910 il Comune scelse e iniziò i lavori per il nuovo cimitero proprio in questa zona, preferendola ad altra, nonostante il maggior costo preventivato per demolizione dei ruderi antichi, fino a profondità di due metri e mezzo, e trasporto delle macerie.  Venuto per caso a conoscenza dell’inizio dei lavori, cominciò ad occuparsene l’ispettore Giovanni Campora che, sollecitando l’intervento della Soprintendenza e della Prefettura,  riuscì ad ottenere un arretramento della costruzione e la conservazione dei due torrazzi, dei quali ci ha lasciato una sommaria descrizione.

“…Si tratta dei resti di una costruzione militare” consistenti in “…due torri mozze a quattro o cinque metri da terra” distanti fra di loro circa 60 metri, e i resti della cortina sul lato verso l’Orba, il tutto a formare “…una vasta costruzione militare di forma rettangolare, con torri quadre sporgenti agli angoli, delle quali le due suaccennate sussistono ancora…mancano le torri d’angolo verso l’Orba, franate per le corrosioni del fiume…Sul lato di mezzogiorno, prospiciente nella direzione di Ovada, un cumulo di sassi, con un renato al centro, lascia argomentare l’esistenza di un’altra torre, forse la guardia della porta…Le Torri che ancora rimangono hanno al piede due feritorie per la difesa radente…Tutta la costruzione è fatta di ciottoli del fiume vicino, meno le torri, le quali hanno pietre un pochino più grosse e sono squadrate quelle degli angoli…murati con calce un po’ magra, ma buonissima”.  All’interno “…non doveva avere grandi costruzioni…si trovarono tracce di pochi sassi e delle fondazioni di muri di circa 0,70 di spessore.  Mi fu riferito che si trovò l’abside di una piccola chiesuola construtto con istrati di ciottoli messi a spinapesce…Mi fu detto che si trovarono tombe al piede di certi muri interni; tombe di forma strana, si direbbero fosse comuni: erano larghe circa 0,50, lunghe molti metri: la copertura era fatta di rozze lastre locali”.  La costruzione secondo l’Autore, sarebbe “…opera dell’ultima decadenza romana…un praesidium costrutto tra la metà e la fine del sesto secolo, per precludere ai Langobardi la conquista della Liguria marittima”, un forte bizantino, in definitiva, che “…non era isolato, ma faceva parte di una linea strategica che da Acqui andava a Libarna” (CAMPORA 1911).

Altri dettagli si ricavano dai rapporti inviati dall’Ispettore al Soprintendente (D’Andrade): “…Le mura delle torri hanno circa due metri di spessore…Il muro a spinapesce della torre sud-est è una rifondazione, o meglio una protezione posteriore”, oltre che dal rapporto finale da questi inviato al Ministro:  “…il funzionario poté vederne ancora due (tombe) che non erano ancora state distrutte…e le fondamenta di una piccola chiesa con resti della sua abside e di una parte dei muri laterali, stati distrutti man mano che si riportavano in vista…il mio funzionario credette che la chiesa che ivi esisteva avesse pianta basilicale…Durante i lavori di scavo sono stati rinvenuti una moneta romana, quattro chiavette del sec. XIV, due punte di freccia ed altri oggetti il cui uso è difficile precisare: tutti questi oggetti, meno la moneta romana già stata venduta…accrescono la suppellettile del piccolo museo di questo ufficio”.

 

A seguito della Legge di tutela n. 688 del 1912, il 19 novembre 1937 fu ufficialmente notificato, dal Ministero dell’Educazione Nazionale a Farina Domenico, abitante a Genova, l’importante interesse dei “resti del castello delle Torrazze” di sua proprietà.  In applicazione della successiva Legge n. 1089 del 1939, la Soprintendenza chiese al Podestà di Silvano d’Orba l’attuale indirizzo del proprietario e, il 13 maggio 1943, i resti furono iscritti alla Regia Conservatoria delle Ipoteche di Novi Ligure, su richiesta del Ministero.

Da notare che, sulla base di quanto sopra, in seguito solo la torre nord, di proprietà privata, risulta formalmente vincolata, mentre per quella sud, di proprietà del Comune e più interessante, non si trova traccia di vincoli ufficiali.

Nel marzo del 1962 Fausto Bima, Amministratore Delegato di Edindustria scrisse al Soprintendente ai Monumenti, anche per conto della Pro Loco di Ovada, segnalando le due costruzioni e chiedendo informazioni al riguardo: segnalava, tra l’altro, che, “…ad un filo di terra si trovano le fondamenta di un muro che, evidentemente le collegava”.  La lettera fu inviata, per competenza, alla Soprintendenza alle Antichità e, probabilmente, senza alcun esito.  Infatti in seguito, rispondendo ad una delle “Lettere al Direttore”,  BIMA (1964) lamenta l’assenza di tutela dei ruderi e, per il resto, riassume quanto riportato dagli storici locali.  Nel contempo se ne occupava anche Natale Magenta, della Società Storica del Novese, recatosi sul posto per verificare la notizia del ritrovamento di una “…tomba verosibilmente romana” nei pressi del cimitero e dei ruderi delle torrazze, ma i lavori agricoli avevano finito per obliterarla del tutto: nell’articolo poi pubblicato (MAGENTA 1964), l’Autore si limita a riportare le notizie storiche locali, senza descrivere i ruderi, dei quali raccontò invece al consocio Marco Rescia, ispettore onorario della Soprintendenza. A seguito della segnalazione di questi, il 13 ottobre 1965 il Soprintendente scrisse al Sindaco di Silvano lamentando che “…la Torre del Cimitero…è da tempo adibita a deposito di attrezzi e il suo stato di consistenza desta serie preoccupazioni data la mancanza del tetto parzialmente crollato”, e chiedendo ulteriori delucidazioni e documentazione fotografica per “…adottare gli opportuni provvedimenti nei confronti del proprietario”.

Il proprietario della torre incriminata era, come detto, lo stesso Comune che, a quanto pare, provvide allo sgombro.  Inoltre, da notizie raccolte sul posto si ricava che nei primi anni ’70 furono eseguiti limitati scavi archeologici “…dei quali non si riesce a conoscere i risultati: la guardia comunale di allora ricorda che gli scavi, profondi circa due metri, misero alla luce i resti del muraglione esterno che univa le due torri e che nell’angolo di quella più settentrionale vi erano dei gradini e una porticina diretta verso l’altra torre” (PIPINO 1997).

Va detto che la parte basale residua dei due torrazzi, oggi affiorante, non presenta tracce di porte di accesso: l’accesso a quella meridionale era stata ottenuta praticando una breccia nella parete sud.  Come ebbi occasione di scrivere (PIPINO 1996): “…A quanto pare CAMPORA non poté accedere, o comunque non descrive, l’interno della torre più meridionale dove si notano i resti di una tipica volta a crocera…i cui grandi archi esterni  appaiono essere stati riempiti in un secondo tempo con grandi ciottoli lasciando al centro una feritoia a scopo difensivo”. Gianni Rebora, che accompagnai per un sopralluogo, assieme a Emilio Podestà, mi faceva però notare che la costruzione ad archi esterni era così strutturata per impedire il completo crollo della parete in caso di breccia: in effetti, l’apertura recente, praticata nella parete sud in corrispondenza di una feritoia, si sviluppa sotto un arco rimasto integro.  Il terrazzo più settentrionale non presenta questo motivo esterno, e nemmeno vi sono tracce di volta interna.  Inoltre, mentre questo appare completamente isolato, all’angolo nord-occidentale di quello meridionale sono ancora presenti i resti della cortina, che si sviluppa per una diecina di metri in direzione dell’altro e alla quale sono collegati, ortogonalmente, resti di 4 mura dirette all’interno della struttura.

L’osservazione delle foto aeree del 1977 e dei successivi lavori di ampliamento del cimitero, proprio in direzione sud, mi fecero escludere la possibile presenza, ventilata da CAMPORA (1911), di altra torre al centro della cortina meridionale:  il “…cumulo di sassi, con un renato al centro”, non era altro che la prosecuzione, verso nord, della estesa zona a cumuli paralleli, separati da canaloni.  A seguito di periodici tagli di alberi, potei invece osservare interessanti resti immediatamente ad ovest e a nord dell’edificio cimiteriale.

Lungo il ciglio del terrazzo, ad una quindicina di metri della parete esterna del cimitero, restano ancora residui della cortina orientale del fabbricato antico, consistenti in frammenti di mura, spesse circa un metro, fatte di grossi ciottoli legati con malta simile a quella dei torrazzi:  localmente si eleva ancora per oltre un metro, in molti punti è però visibilmente franato insieme all’orlo del terrazzo.  Nella parte più settentrionale si collega con evidenti resti della cortina settentrionale, di analoghe caratteristiche costruttive, mentre all’interno dell’area da loro delineata, poco distante dal muro del cimitero, si notano, tra mucchi di sassi informi, resti di pareti poco più sottili e più accurate.  Sul versante occidentale, circa a metà del muro del cimitero e distante circa due metri da esso, ci sono i resti di un’altra torre, della quale ben esposti l’angolo sud-orientale, composto, come le altre, da lastre squadrate di arenaria locale, e un tratto della parete occidentale, fatta di ciottoli, con spessore di poco inferiore ai due metri.

In occasione di un taglio di alberi, collaborai alla rimozione di una grossa radice cresciuta proprio al centro della torre, fino alle sue fondamenta.  Dal terreno smosso recuperai una diecina di frammenti ceramici, uno di pietra ollare a pareti sottili, uno di vetro e alcune ossa carbonizzate, il tutto poi consegnato alla Soprintendenza.  In fondo potei osservare un cordolo di basamento fatto di lastroni ben squadrati di locale arenaria, poggianti, con abbondante malta, su due strati di ciottoloni, e  la presenza di un condotto a perdere, evidentemente per le acque piovane, costituito da una canaletta di una trentina di centimetri di base, fatta di lastre di arenaria, inclinata di 25-30° in direzione sud.

Le osservazioni personali mi portarono a modificare, di poco, lo schema della probabile fortificazione bizantina proposto da Campora, ipotizzando quello illustrato nell’allegata piantina.  Da notare che la pianta risultante è del tutto simile a quella di  Ksar Graouch, in Cirenaica, facente parte delle fortificazioni bizantine della province africane del VI e VII secolo, analizzate a fondo da PRINGLE (1981).  Come per queste, inoltre, la nostra fortificazione sorge nelle immediate vicinanze del materiale da costruzione, rappresentato dai ciottoli dei vicini cumuli e da lastre di arenaria delle sottostanti formazioni terziarie (PIPINO 1995), lastre che affiorano lungo le scarpate e che hanno dato il nome a particolari zone di prelievo (Chiappara, Chiappella, Chiappino).   Essa, inoltre, presenta “… analogie tipologiche e costruttive con altri edifici, come il castellum di Morozzo (CN) che con i vicini e analoghi edifici di Centrallo, Cervere e Roccavione potrebbe far parte del nostro stesso allineamento, e ancor più il castrum di Castelnovate (Vizzola Ticino, VA) che con le vicine analoghe costruzioni di Vergiate, Somma Lombarda, Arsago Seprio (Sibrium) e Pombia, farebbe parte di un sistema difensivo prealpino databile dal III al V secolo.  Si tratta, in tutti i casi, di torri massicce collegate da cinte murarie, poste in posizione strategica all’imbocco di valli” (PIPINO 1997).

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Foto sopra – Posizione sommaria del forte bizantino (sovrapposto al cimitero), ipotizzata sulla base delle relazioni Campora (1910-11) e delle osservazioni personali dell’autore (1988-2000): le due torri occidentali sono crollate per franamento dell’argine; la chiesa interna, demolita durante la costruzione del cimitero, potrebbe corrispondere a quella di Rondinaria;  i ruderi, ancora  presenti alle spalle del cimitero, potrebbero essere i resti del palazzo medievale. Verso sud si estendono i cumuli di ciottoli residui delle aurifodine romane 

L’area è stata anche oggetto di una Tesi Laurea in Architettura (BORSANO e GIORDANI 1998-99) alla quale ho, in qualche modo, partecipato.  Questa si è conclusa con ottimo rilievo e illustrazione della maggior parte dei resti affioranti, tranne per quanto riguarda l’ultima torre da me evidenziata, della quale è illustrato soltanto l’angolo sud-orientale con l’indicazione “resti di muro”, salvo poi ipotizzare, nella parte interpretativa, che potesse trattarsi dell’angolo di un terza torre: lo scavo interno fu infatti ultimato a metà del 1999, dopo la compilazione della Tesi. In questa vengono comunque esaminati i reperti da me raccolti che, messi a confronto con quelli di aree vicine, vengono considerati frammenti di  “…ceramiche da cucina particolarmente diffusi fra il  XII e XIII secolo”; il frammento di pietra ollare, in particolare, è del tutto analogo, specie nello spessore, a quelli trovati negli scavi della cascina Torre di Frugarolo, corrispondente alla altomedievale corte d’Orba (PIPINO 1989, 1999).

Per il resto, la Tesi si proponeva di individuare la cortina orientale, attualmente sepolta sotto l’asfalto del parcheggio antistante il cimitero, mediante due sistemi di prospezione geofisica (elettromagnetico e magnetico), e di datare le strutture murarie col metodo della termoluminescenza.  Il primo obiettivo, come del resto avevo prospettato, si risolse in niente, dato che il sottosuolo della costruzione, e di tutta la campagna circostante, è costituito da ciottoli sciolti, di forma e composizione analoghe a quelli componenti la cortina.  Le analisi per termoluminescenza di quattro frammenti di mattoni estratti dai torrazzi e dalle mura, diedero risultati molto contrastanti e inconcludenti, a mio parere del tutto inattendibili, da qui la conclusione della Tesi, secondo la quale “…il problema storico dei Torrazzi” potrà essere risolto “…oltre che dalla revisione delle fonti scritte, solo da un saggio di scavo”.

Nell’aprile del 2000, a seguito di mie sollecitazioni, la torre di recente individuazione fu oggetto di sopralluogo ufficiale della Soprintendenza Archeologica, che avviò le pratiche per la sua tutela.

 

Rondinaria nella documentazione medievale

Rondinaria è, con i suoi derivati e simili, un toponimo molto diffuso in Italia, specie nell’Appennino settentrionale. Fuori dal territorio nazionale ricordo, in particolare, Rondinaria nella costa meridionale della Corsica, indica come Rondanaria in documenti del Medio Evo.

Le località più note, nel nostro paese, si trovano in Toscana, dove prevalgono i nomi con caduta della r o della i finale (Rondinaia, Rondinara, ecc.), e in Emilia-Romagna:  al confine fra le due regioni svetta il Monte Rondinario (q. 1964), indicato  in pubblicazioni dell’Ottocento come “la Rondanara”; a poca distanza, in territorio modenese, sopra Fellicarolo, si trova il Monte Rondinara.

In comune di Bagno di Romagna si trovano i resti del castello medievale di Rondinaia, noto, a partire dal 1118, come castrum Rondinarie: definitivamente conquistato da Firenze nel 1404, fu sede di una importante comunità e da essa pare provengano alcuni dignitari fiorentini, come i notai Diotisalvi e Filippo di Rondinaria (1285), il notaio Alberto Guidone di Rondinaria (1340-1344), l’abatessa Alessandra Frantisci de Rondinaria (1463). In provincia di Reggio Emilia si trova il centro oggi più popoloso, Rondinara frazione di Scandiano  che, nella donazione di Enrico II alla Chiesa di Reggio, intorno al 1020, è citata come r(….) rundinariam, cum castello corte et cappella; intorno al 1070 è riportata, nell’elenco di castelli e plebi tenute dal marchese Bonifacio in enfiteusi dal vescovo reggiano, come Plebem de Rondinaria cum Corte & Capellis;  nel 1302 è registrata la chiesa di S. Giovanni di Rondanaria  mentre nel 1335, in un atto di pace fra Scaligeri e Gonzaga, è compresa Rondanaria cum villis suis;  nella donazione del 1509 di Massimiliano, ad Alfonso d’Este, è compresa la terra Rondanariae.  Fra Sette e Ottocento è indicata come borgata Rondanara, nota per le vicine cave di gesso.  La stessa località dovrebbe corrispondere al Runco Rondenarii, oggetto di permuta fra il marchese Alberico e il monastero di Nonantola nel 1004, che MORIONDO (1789), facendo confusione fra marchesi di Monferrato e di Toscana, colloca nell’Acquese:  anche la r precedente la Rundinaria del 1020 che, secondo alcuni autori, indicherebbe una ripam,  potrebbe, in effetti,  completarsi come ronco, ad indicare il recente disboscamento.  

Negli annali parmensi sono citati, agli anni 1293 e 94, Antholini e Ugolino di Rondanaria, cittadini di Parma, dei quali non è dato di sapere l’origine. Per il territorio circostante ricordo il Rio Rondanara nella valle di Corniglio e la chiesa di Rondinara a Costageminiana di Bardi, sorta sopra la grotta omonima che, nella prima metà del Cinquecento, servì da eremo alla beata Margherita Antoniazzi, la “Devota della Costa”.  Passando al territorio Piacentino, ci sono l’agriturismo la Rondanina ad Alseno, e, in Val Trebbia, la località Rondanara in comune di Travo e il Monte Rondanara presso Ferriere.

Per altre zone, ricordo l’atto di fondazione della Badia di S. Abondio in Como, del 1010, nel quale il vescovo dona, tra l’altro, un mulino ad Rundanarium: la località corrisponde a Rondineto presso la frazione Breccia, sede di importanti ritrovamenti preromani.  Secondo TATTI (1683), che per primo riporta l’atto, nei pressi del mulino, in località Vico, c’era un canneto che fu acquistato da Giovanni Oldrato per costruirvi, nel 1047, la casa dell’ordine degli Umiliati, la “…rinomata Prepositura di Rondineto, da alcuni già con voce corrotta chiamata Rondenario: la quale se bene dalle canne prese il nome, crebbe però col tempo a tal sodezza, e dignità, che fu riverita per Matrice di tutta quella Congregazione”. TIRABOSCHI (1766-67) contesta alcune affermazioni dell’Autore precedente e ricorda altri documenti medievali che riportano le forme Rondanaria  o Rondenaria.  In atti del 1207-08 la prevostura di Rondinario risulta tanto importante da essere chiamata a far da arbitro in una controversia fra il Vescovo di Tortona e la chiesa di S. Ilario di Voghera: alcuni storici, come vedremo, la confondono Rondinaria di Silvano d’Orba.  Altra occasione di confusione è un atto del 6 agosto 1257, riportato da Tiraboschi, nel quale “Prepositus & Fratres & Ecclesia domus de Rondanaria”, sono citati assieme agli umiliati di S. Michele di Alessandria.

In territorio alessandrino trovo, nel catasto visconteo della bassa Val d’Orba, del 1391-93, la particella Rundenaria o Redenarium di Fresonara (PIPINO 1999).  A Ovada è citata, in atto del gennaio 1464, una località  in Rondanaria  (PODESTÁ 1994).

In Liguria orientale, nella Val Fontanabuona, ci sono la frazione Rondanaria di San Colombano Certenoli e nelle vicinanze, verso Favale di Malvaro, il monte, la valle e il passo Rondanaria o Rondanara: nel catasto settecentesco è riportate anche un prato della Rondanaria, nelle comuneglie di Perlezzi.  In Val Bisagno è indicata, in un atto di vendita del 1250, una ripa Rondanaria presso Montesignano.  In Liguria occidentale c’è un rivo Rondanara lungo la strada Ellero-Albisola.  Nella Regione è diffuso anche il toponimo Rondanino/a che, in Val Trebbia, designa il comune meno popoloso della Liguria, Rondanina, nel cui stemma campeggia una rondine in volo; altra Rondanina si trova nei pressi di Sasselo e fu sede, fra Due e Trecento, di una grangia dell’abazia di Tiglieto.

Nei monti che dividono l’alessandrino dal genovesato si trovano Prato Rondanino, in territorio di Masone, e più a sud, alle origini del torrente Varenna, Costa della Rondanina, in territorio genovese.  Nella forma odierna, sembrerebbe che queste due località non abbiano nulla a che fare con Rondinaria, ma, specie per quanto riguarda la seconda, il legame esiste quando si consideri la forma medievale, tanto da ingenerare confusioni e rendere ambigui i riferimenti storici alla località silvanese, per cui ritengo opportuno riesaminarli in dettaglio.

1004. In quest’anno, secondo MORIONDO (1789), Alberico figlio di Aledramo scambia, con l’abate di Nonantola, una terra in Ronco Rondenarii, località che egli identifica con Roccagrimalda (quindi con la nostra Rondinaria), ma avverte che per altri si tratta di Rondanina presso Sassello. Come detto, l’Alberico citato è, in effetti, marchese di Toscana, ed è più verosimile che l’atto riguardi terre emiliane (prossime all’abazia di Nonantola).

1164, 5 ottobre. Presunta donazione di Federico I a Guglielmo il vecchio di Monferrato, riguardante un gran numero di “possessiones et castra et villas” a cominciare da Castelletto, Rocca, Rondanaria, Tagliolo.  L’atto certamente falso, fu compilato nel 1288 o poco prima, come vedremo: in esso, “…le varie località sono separate da un punto…non vi può quindi essere alcun dubbio sul fatto che Rocca e Rondanaria siano due distinte località e che, data la loro posizione nell’elencazione corrispondano a Rocca Val d’Orba (Grimalda) e a Rondanaria di Silvano”.  Molti storici lo hanno invece ritenuto  autentico e alcuni, ignorando il punto di separazione, hanno attribuito a Rocca l’attributo Rondanaria.  L’esistenza della presunta Rocca Rondinaria fu sostenuta, per evidente calcolo, da Andrea Grimaldi nella causa da lui promossa per far riconoscere l’imperialità del suo feudo: “…La vittoria del Grimaldi sancì molte delle sue tesi e, nel diploma del 7 luglio 1722, l’imperatore Carlo VI afferma che il feudo “..antiquitus Roccha Rondanarie, sive Vallis Urbarum…verum et immediatum Sacri Romani Imperij Feudum esse” (PIPINO 1996).

1166 o 1182.   A uno di questi anni dovrebbe riferirsi l’episodio narrato nel “Chronicon” di Jacopo d’Acqui, secondo il quale “Guglielmo il vecchio, che fu il più probo fra i marchesi del Monferrato, conquistò i due regni di Gerusalemme e di Solonicco….distrusse la città detta Rondanaria, che era in valle Orba e Stura. E dopo si recò nella valle del fiume Scrivia ed espugnò la nobilissima terra detta Sommaripa”.

Per PODESTÁ (1995) l’episodio si inquadrerebbe nella conquista del castello di Parodi da parte di Guglielmo il vecchio, conquista datata 1166 negli annali genovesi: Guglielmo, secondo l’Autore, avrebbe aggirato Castelletto, distrutta Rondinaria e risalita la valle del Piota; si sarebbe indi scontrato con i de Pobleto di Casaleggio e li avrebbe debellati, prima di recarsi alla conquista di Parodi.  L’Autore non fornisce però alcun dato certo a sostegno della sua ipotesi e non vi sono prove del passaggio dell’esercito di Guglielmo dalle nostre parti, in quell’anno.  C’è invece la possibilità, più concreta, che il frate pasticcione, attingendo agli annali genovesi, abbia confuso Rondinaria con Silvano e Guglielmo il Vecchio di Monferrato con il console genovese Guglielmo Muzio detto Testa di Ferro, nell’episodio del 1182 narrato da Ottobono: “…in quell’anno il console  Wilielmus Modiusferri con l’esercito e con gli alessandrini aggredì e conquistò il castello di Silvano”.  Di quale castello si tratti non è dato di sapere e non è del tutto da escludere che, all’epoca, poteva essere quello di Rondinaria: la prima testimonianza certa di un castello a Silvano risale, infatti, al 1217.

Ma vi sono ancora altre possibilità.  Il richiamo alla conquista di Gerusalemme e Solonicco depone a favore di Guglielmo il vecchio, ma, nell’opera, Jacopo d’Acqui inserisce l’episodio al 1270, e, “…stando agli autori più recenti, Rondinaria sarebbe stata distrutta più volte: dai Saraceni, da Guglielmo il vecchio e da Guglielmo VII di Monferrato” (PIPINO 1989).  D’altra parte il frate, solitamente poco accurato e non molto attendibile, cita esattamente il nome della località, così come compare nei documenti medievali, ed è abbastanza preciso sulla sua localizzazione, “…è quindi probabile che egli abbia attribuito al più prestigioso Guglielmo il Vecchio, invece che a Guglielmo VII, un episodio del quale avrebbe sentito parlare…avvenuto al tempo della sua nascita e non lontano dalla sua Acqui” (PIPINO 1996).  Infatti, negli anni 1288-90 Guglielmo imperversava nelle nostre zone, prima di essere catturato e messo in gabbia dagli alessandrini: nel 1288, come vedremo, per legittimare alcune sue conquiste fece compilare un atto notarile di autentica della presunta donazione del 1164.

1198, 30 aprile.  Bolla di papa Clemente III diretta al vescovo di Tortona, nella quale viene sommariamente delimitato il territorio della diocesi, ridimensionato a seguito della costituzione di quella di Alessandria. “…Le località citate non rappresentano, come vorrebbe qualche autore, i vertici di un poligono che circoscrive la diocesi: vengono semplicemente delineate, con l’indicazione di due località estreme, alcune linee che attraversano il territorio diocesano, da un capo all’altro….Le linee, sei in tutto, sono così delimitate: dal Plebato di Rovegno a Sparaoaria (sul Po); da Patrania (Torriglia) a Cerevesina: da Montoggio a Vesula (Masone); da Vesula al plebato di Urbe; da Urbe a Banzolo (Monte Penice); da Rondinaria al plebato di San Zaccaria (Pozzol Groppo); dall’Ospedale di Reste (sui Giovi) al plebato di Casei (Gerola)”.  Rondinaria è, quindi, un vertice estremo, meridionale, della diocesi di Tortona che, nel XII secolo, si estendeva ben oltre lo spartiacque appenninico, per cui l’identificazione con quella di Silvano è possibile, ma non del tutto certa (PIPINO 1989).

1203, 28 marzo. I fratelli Guglielmo e Alberto de Drodo de Rundanaria vendono, al monastero femminile di Bano, una vigna in Tagliolo, località detta Chergi.  La località corrisponde, con ogni probabilità, alla C. Cherli presente nella terrazza superiore del Piota sotto Tagliolo, assieme a una Ca’ di Bano.  Poco a valle c’è la C. Rondinaria che, come detto, non è indicata in carte antiche, per cui è dubbia la sua relazione diretta con l’atto citato. I due fratelli possono, in realtà, provenire dalla Rondinaria di Silvano, della quale potrebbero essere stati consignori, come afferma PODESTÁ (1995), ma non c’è alcuna ragione di  identificarli con i Drogo (de Droguis) di Tagliolo, come vorrebbe l’Autore (PIPINO 1996).

1207. In quest’anno, secondo GOGGI (1908), che attinge alla storia di Voghera di G. Manfredi riportata da CASALIS (1854),  Giacomo, prevosto della chiesa di Rondinaria, fu delegato dal papa per una controversia tra il Vescovo di Tortona e le suore di S. Ilario di Voghera: ne deduce, quindi, riferendosi a Rondinaria di Silvano d’Orba, che “…Questa chiesa aveva titolo di prevostura”.  In effetti Manfredi non nomina Silvano, che non c’entra nulla, e ci dice che la sentenza fu emessa a Como nel 1208, dal prevosto di Rondinario  e dall’arcidiacomo di Como: dagli  atti conservati al Duomo di Voghera si ricava che gli arbitri, più d’uno, erano umiliati di Rondinario di Como.

1216, 13 aprile.  Papa Innocenzo IV conferma possessi e privilegi dell’abazia di San Michele della Chiusa, tra i quali, nell’episcopato tortonese,  le chiese di Rundenaria  e di Castelvero. L’atto sarà ancora riconfermato da pontefici successivi, e ne abbiamo testimonianze del 1245 e del 1495.  L’appartenenza all’episcopato di Tortona e la vicinanza di Castelvero (di Castelletto d’Orba) ci riportano alla “nostra” Rondinaria, ma sulla localizzazione della chiesa le  ipotesi sono controverse: “…Legé la localizza in valle Bessica presso TaglioloLanza sostiene la sua identificazione con l’antica cappella di S. Vito presso Tagliolo, Podestà con la chiesa di S. Giovanni Battista di Lerma: entrambi gli autori si basano però soltanto sull’antichità delle due chiese e non tengono conto che esse si trovano in posizione troppo interna rispetto al confine diocesano.  La chiesa si trova certamente nella zona delle torrazze ed è da identificare con quella segnalata nei ruderi: significativa sarebbe, in questo caso, la sua appartenenza a S. Michele della Chiusa, assieme ad altre poste lungo l’allineamento antibarbarico. Una relazione potrebbe anche esserci con la vecchia chiesa di S. Giovanni delle Moiette, che si trova a meno di cento metri dalle torrazze…su una delle facciate si legge l’anno 1630, ma si vede chiaramente che essa venne edificata su un preesistente edificio” (PIPINO 1996).  La chiesa, oggi adibita a deposito di una vicina floricoltura, è fatta prevalentemente in ciottoli ed è visibilmente costituita da due parti affiancate, una parte occidentale con elementi architettonici tardo medievali e il tetto a spioventi, con travi a vista, e una orientale, più recente, col tetto interno a volta, in muratura: la porta, una volta presente sul fronte occidentale, è murata e alle sue spalle si trovava l’altare più recente; la porta attuale si trova sul fronte orientale.

1288, 4 agosto. Autentica notarile, fatta per volere di Guglielmo VII di Monferrato, di due donazioni di Federico I a Guglielmo il vecchio, entrambe del 5 ottobre 1164, riguardanti, una, alcune terre dell’astigiano, l’altra un gran numero di  “possessiones et castra et villas” a cominciare da Castelletto, Rocca, Rondanaria, Tagliolo. “Della prima delle donazione autenticate ci è pervenuto anche l’originale, della seconda non esistono copie precedenti, né tanto meno il presunto originale: essa è stata certamente elaborata sulla falsariga della precedente e molto tempo dopo di essa, tanto che vi sono citati paesi e terre che non risulta facessero parte del dominio monferrino in quei tempi…Alcuni feudi, fra cui Rondanaria, non compaiono nemmeno nell’elenco delle numerose località citate nell’atto ipotecario del 1224, con il quale Guglielmo IV aveva dato in pegno a Federico II tutti i suoi beni e dirittiLa presunta donazione del 1164 risulta pertanto essere stata compilata dopo il 1224, forse immediatamente precedente alla compilazione della autentica ed a opera dello stesso Guglielmo VII che, al culmine della sua potenza cercava di legittimare le conquiste sul campo.  A tal proposito va ricordato che nella prima metà del 1288 erano sorte controversie di confine con Genova nella valle dell’Orba” (PIPINO 1996).

1342, 6 marzo. Donna Guarniera figlia di Jacobo (Guasco) dei condomini di Rondinarie, vende agli uomini della Val Polcevera la sua parte dei boschi e terreni “alli Boschi Grandi”, che si estendono dalle rive del mare di Sestri Ponente a petram Lubricam (Pria Scugiente) e a Irrundinariam (Costa della Rondanina), fino al colle Batimbombaci e al passo Ferrante, andando poi per i gioghi, cioè i canali Guarrini e acque del Cervo e di Valle Gandolfi.  L’atto fu impugnato dai parenti della venditrice, perché i beni venduti appartenevano, in realtà, a Filippo Guasco della Rondinaria: nel 1355 l’atto fu dichiarato nullo da Carlo IV; nel 1441 fu confermato valido da Filippo Visconti; nel 1454 Francesco Sforza confermò la sentenza di nullità di Carlo IV, revocò la conferma del duca precedente e ordinò un arbitrato, senza appello, per dirimere le vertenze e stabilire i confini tra Polcevera, Masone e abazia di Bano.  Nelle numerose carte allegate ai vari processi, pervenuteci per lo più in copia, la località che ci interessa (oggi Costa della Rondanina) è generalmente indicata come Rondinaria, e così pure nella sentenza arbitrale emessa nel 1494 da Aloisio Fiesco, conte di Savona e di Torriglia (PIPINO 1989).  In mappe e pubblicazioni del Sei-Settecento è riportata come Monte Rondanara.

1347. Carta del territorio di Rocca Val d’Orba delineata da Paolo Maverenca.  “La carta originale, ritenuta inesistente o perduta da alcuni autori, esiste ancora, seppure in brandelli che sono stati recentemente assemblati e coprono una superficie grande quanto un lenzuolo matrimoniale…di essa esistono anche due riproduzioni in formato ridotto, del tutto identiche, eseguite nel 1757 da Giuseppe Avico… Nella carta è indicato, al di la dell’Orba, un Argine di Rondanaria” (PIPINO 1996).  L’argine corrisponde alla scarpata sopra la quale si trovano, oggi, cimitero e torrazzi e che, al tempo, faceva da confine fra Rocca e Silvano; è molto probabile, quindi, che in precedenza, prima di essere spinta verso occidente dai franamenti della sponda e dagli apporti del Piota, l’Orba vi scorresse sotto e, infatti, nella dedizione di Rocca ad Alessandria, del 1292, si afferma che il confine con Silvano è la sponda sinistra dell’Orba.  Con l’allontanamento del torrente, la sponda destra restò, per un certo periodo, in territorio di Rocca e fu oggetto di una delle liti confinarie fra i due paesi.  In carte successive, come detto, tutta la zona al di qua dell’argine è indicata col nome di “Rondanara”.

-1355, 6 maggio. Carlo VI conferma, a Giovanni II Paleologo marchese di Monferrato, tutti i possedimenti dei suoi avi, compresi …Montaldo, Rocca, Rondanaria, Tagliolo.  “Anche di questo documento non esiste l’originale ma solo alcune autentiche dei secoli successivi, la più antica del 1426” (PIPINO 1996). D’altra parte, esso riporta dati ricavati da precedenti donazioni, vere o false.

1491. Registro dei beni spettanti al castello di Silvano, redatto dai fratelli Agostino e Giovanni Adorno, suoi signori, su richiesta del marchese di Monferrato.   Vi sono indicati appezzamenti di terreno in pratis Rondanarie, in locus ubi dicitur in Rondanaria, in vicinanza delle mura di Rondanarie e ai Torracijs, confinante colla via comune per il palatium Rondanarie (A.S.To, Monferrato, Confini, Vol. 5 n. XII;  PIPINO  1996).  Dall’atto si ricava che, all’epoca, i torrazzi erano indipendenti dal palazzo di Rondinaria, evidentemente sorto, dopo la decadenza della fortificazione, al di là della cortina orientale.

 

In epoca successiva, non determinata, tra i titoli araldici degli Adorno, signori di Silvano, compare anche quello di conti di Rondinaria.

 

Le ipotesi etimologiche

Nella “Toponomastica Italiana” di PELLEGRINI (1990), sono citate alcune località della Toscana e dell’Emilia (Rondonaia, Rondinaia, Rondinaie, Rondinara), considerati zootoponimi di origine latina, da hirundo (rondine). Non si trova traccia in questo, e in altri dizionari di toponomastica consultati, delle forme con suffisso .. ino/a  o .. eto/a.

La questione, per quanto ci riguarda, è molto complessa perché, come risulta dagli esempi citati, uno stesso toponimo medievale (Rondanara e simili)  può essere all’origine di toponimi moderni diversi (Rondinaria, Rondinaio, Rondinaro, Rondanino, Rondineto), mentre toponimi sostanzialmente differenti (RondanaraRundanariaArundinaria, Irrundinaria, etc.) possono dar luogo a Rondinaria.  Per questa, autori locali danno due possibili interpretazioni etimologiche, sempre di origine latina: da hirundo (rondine) o da arundo (canna), mettendo in relazione la prima ai ruderi, nei quali le rondini troverebbero condizioni ideali per la nidificazione, la secondo ai canneti, denunciati dai toponimi moglia, moglietta e simili, che indicano terreni acquitrinosi e che sono abbastanza frequenti nella zona: questo, per inciso, è dovuto alla presenza dei cumuli di ciottoli che, drenando le acque, le convogliano in zone depresse.

GOGGI (1927) ritiene che “…Rondinaria è contrazione di Arundinaria, da Arundo, canna”.  MAGENTA (1964) accetta questa tesi e ci informa che in dialetto locale Rondinaria viene chiamata Rundanèra o Arundanèra, dove la A iniziale potrebbe fare funzione di articoloPODESTÁ, che in un primo tempo (1995) sostiene la stessa ipotesi, in seguito (2000) afferma che si tratta di una “…etimologia discutibile in quanto i fitonimi terminano normalmente in –eto”,e ritiene la prima più attendibile “…dato che gli zootoponini terminano normalmente in –aro, -ara, -aria”.  Rilevo, però, che mentre è dubbia l’etimologia di Rondineto, l’unico Canneto citato da Pellegrini viene fatto derivare dal latino canna.

Anche nel recente Atlante Toponomastico di Tagliolo la cascina Rondinaria, il bosco e il rivo vicini sono designati come Rundanèra, senza però fornire alcuna etimologia. Questa forma sembrerebbe derivare da arundo, ma tutti i vecchi del posto, da me interpellati, fanno riferimento alle rondini e a nessuno viene in mente un possibile collegamento con le canne: si tratta, evidentemente, di una questione di assonanza moderna che non può essere messa in relazione con l’origine più antica del toponimo.

BORSANO e GIORDANI (1998-99), che non si pongono dilemmi glottologici, propendono, per l’ipotesi “luogo delle canne”, per la vicinanza dei toponimi Moglia, Mogliette e Moiette, riferiti a terreni paludosi.  Per CHIARLO (2011), “…Le derivazioni dalle voci latine hirundo (rondine) e arundo (canna), proposte per interpretare il significato del toponimo Rondinaria, appaiono troppo semplicistiche”.  Lo stesso Autore nota anche che un vecchio scrittore di Campo Ligure (Domenico Leoncini) da poco pubblicato, attribuisce ad una anomala pronuncia della n, da parte delle popolazioni locali, la derivazione dei toponimi Rundanino, Rundinèa, Rondinaria e Rondanina dalla voce latina nundina (mercato), ma sostiene l’improponibilità  glottologica del passaggio n-r.  Egli, ricordando la presenza di antichi mercati nella zona, vicini alle zone da me segnalate aurifere, propone una derivazione da auri nundinaria, cioè luogo del mercato dell’oro e, a sostegno della sua tesi, pubblica un complesso “Schema crono-glottologico” elaborato, a sua richiesta, da un docente genovese di glottologia.  Ora, lo schema potrà pur essere corretto dal punto di vista glottologico, ma l’ipotesi, questa sì, è del tutto improponibile, perché si basa sulla presunta presenza di mercati dell’oro che non ci sono mai stati e che non potevano esserci.  L’oro, infatti, è sempre stato, specie in tempi romani e medievali, un diritto regale: minatori e cercatori dovevano, per legge, vendere il prodotto esclusivamente a incaricati del Fisco o della Zecca e il commercio del prodotto grezzo era assolutamente proibito, con gravi pene per i trasgressori.  Certo le leggi, specie da noi, sono fatte per essere infrante, e ci sono esempi di vendita diretta, e illegale, da parte di cercatori a orefici locali e a mercanti di passaggio, ma da questo ad avallare l’esistenza di mercati dell’oro, oltretutto notori, ce ne corre.

Nessuno, a quanto mi risulta, ha proposto la possibile derivazione da due piante officinali, una volta frequenti e ricercate anche nelle nostre zone, che contengono, nel nome, un preciso riferimento alla rondine: la celidonia maggiore (o erba porraia, irundinaria, etc.) e la vincetossico irundinaria.

La prima, papaveracea urticante e velenosa, comune in ruderi e terreni sassosi, prende il nome dal greco kelidon, rondine, appunto, secondo la tradizione popolare perché utilizzata dall’uccello per stimolare l’apertura degli occhi dei piccoli, ma più probabilmente perché fiorisce al tempo del suo arrivo: dal nome latino, hirundinaria, deriva il volgare e primo italiano irundinaria, mantenutosi a lungo in alcuni dialetti di zone dove era oggetto di intensa raccolta.  La pianta era, infatti, molto utilizzata nella medicina popolare per le malattie dell’apparato digerente, e, a meno che non si tratti dell’altra pianta, secondo il noto trattato seicentesco sulla peste, di Angelo Sala, era uno dei componenti della triaca dei poveri, un rimedio popolare per combattere il morbo.  Viene ancora utilizzato il suo lattice, per eliminare porri, calli e duroni.

La vincetoxicum hirundinaria, indicata con i nomi recenti di vincetossico comune, erba seta e altri locali, è una apocynacea tossica che ha stesso habitat e tempo di fioritura della precedente.  Era molto utilizzata nel Medio Evo, e in tempi successivi, come controveleno per il morso della vipera, come diuretico e depurativo, e per combattere il “fuoco di S. Antonio”. La radice viene ancora utilizzata per la preparazione di infusi e tinture.

 

Notevole, come si vede, è la somiglianze del nome delle due piante con  l’ Irrundinaria divenuta poi Costa della Rondanina, attraverso il passaggio Rondinaria, Rondanara, etc.

Data l’epoca di comparsa del nostro toponimo, è anche probabile che esso non derivi dal latino classico, ma da quello infimo o medievale.  Nel Dizionario Du Cange, trovo la voce “Arundo” col significato di canale, acqualico, voce che, con tutte le cautele del caso, potrebbe aver originato la nostra RundanaraRondanara.  Nella zona, e in tutta la valle del Piota, i canali, che separano cumuli di ciottoli paralleli, sono innumerevoli e, benché mascherati dal bosco, sono particolarmente evidenti proprio nelle vicinanze dei torrazzi (a sud del cimitero): in tempi antichi, più prossimi all’edificazione dei cumuli, essi dovevano, ovviamente, essere molto più evidenti.

canali

Foto sopra – Uno dei canali tra due cumuli di ciottoli paralleli, pochi metri a sud del cimitero di Silvano d’Orba

Noto, ancora, che in questa zona essi sono rivolti verso il ciglio del terrazzo che guarda l’Orba (argine di Rondanara) e che in periodi d’intense precipitazioni si trasformano in vere fiumare capaci di eroderlo profondamente: è forse per questo motivo che, in tempi successivi alla formazione, la loro parte finale è stata interrotta con cortine trasversali di ciottoli.  Inoltre, secondo informazioni raccolte sul posto, all’inizio della strada della Caraffa fu evidenziata, durante i lavori di costruzione dei primi capannoni industriali, una serie di canali paralleli scavati nel “tufo”, cioè nei sedimenti marnosi sottostanti i cumuli di ciottoli, ed erano tutti diretti verso il Piota, come quelli che interessavano i cumuli stessi, in gran parte obliterati dalle costruzioni.

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PIPINO G.  L’età del ferro (e dell’oro) nell’Ovadese e nella bassa Val d’Orba. “URBS”, 1997 n. 2. Poi in “Le Valli dell’Oro” cit.  e in “Oro, Miniere, Storia. Miscellanea di giacimentologia e storia mineraria italiana”. Museo Storico dell’Oro Italiano, Ovada 2003.

PIPINO G.  I ritrovamenti archeologici di Epoca Romana nell’Ovadese e nella bassa Val d’Orba. “URBS”, 1997 n. 3;  poi in “Le Valli dell’Oro” cit.

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DOCUMENTAZIONE ARCHIVISTICA

Soprintendenza per i Beni Ambientali e Archiettonici del Piemonte: Archivio d’Andrate, fasc. 664.

Archivio comunale di Silvano d’Orba: opere pubbliche 1901-1910.

Archivio del Museo Storico dell’Oro Italiano, Ovada: cartella “Ovadese e bassa Val d’Orba, antichità e archeologia”, fasc. 3 (Rondinaria-Torrazzi), fasc. 4 (Silvano d’Orba), fasc. 5 (Manoscritti); cartella “Aurifodine ovadesi”, fasc. 1 (Cumuli di ciottoli),  fasc. 4 (Cronistoria delle iniziative); cartella “Lerma e dintorni”, fasc. 1 (Storia), fasc. 2 (documenti originali), fasc. 3 (Confini).

terrazzi

Foto sopra – Veduta odierna dei due torrazzi davanti al cimitero di Silvano d’Orba

 

rondinaria

Foto sopra – Rondinaria nell’interpretazione del pittore ovadese Natale Proto

 


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2 thoughts on “Rondinaria di Silvano d’Orba Il luogo dei canali (auriferi)

    1. Redazione Novinostra Autore articolo

      Egregio Signor Siri Battista,
      la ringrazio e siamo lieti che i nostri contenuti, qui pubblicati con il sostegno di Acos Energia con cui condividiamo la passione per il nostro territorio, siano stati di suo gradimento.

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