LE PAROLE DEI NOVESI – XII

di NATALE MAGENTA

U va própriu a sercòsje ncu u lanternéin: qui bene ci calza il vecchio modo di dire novese che, tradotto letteralmente suona: ‘va proprio a cercarsele con il lanternino’ con riferimento evidente a cose che si cerca con ostinazione di scoprire – ma non sempre con buona fortuna – con l’ausilio di una lanterna.

In questo caso il notturno ricercatore di parole in vernacolo pressoché scomparse è l’autore delle note dialettali che con una certa regolarità compaiono su NOVINOSTRA. E sono parole che, magari sentite pronunciare in un contesto di rara frequenza, vengono prontamente catturate per essere poi inserite in una rubrica di ‘voci nuove’. fra queste, che chiameremo per l’occasione con un termine tratto da un testo del lessicografo Francesco Cherubini “SOVRAGGIUNTE” (vale a dire ‘aggiunte alle aggiunte’) figura:

gangrètu

Si tratta di un piccolo attrezzo, qui illustrato a grandezza naturale, di quello che in italiano è chiamato ‘gànghero’ o anche ‘tavellino’. Ed è un dispositivo usato per lo più in falegnameria per bloccare gli sportelli delle persiane. Di quest’oggetto ho rintracciato una chiara e dettagliata descrizione, sebbene resa con un linguaggio ormai superato dal tempo, nel Nuovo Vocabolario domestico del Carena, stampato a Milano nel 1868. Così si recita alla voce Nottolino: “Arnese per serrare gli sportelli delle finestre, armadi o simili, specialmente nella parte inferiore… E’ una spranghetta di ferro, girevolmente conficcata nel telaio e che volgendola sullo sportello, lo rattiene chiuso per semplice fregamento”, senza, cioè, uso di chiodi o viti, ma con semplice pressione delle mani o delle dita, agenti, queste, sulla parte finale dell’attrezzo.

Di gangrètu ci sono antiche testimonianze: si ha, ad esempio, un latino medievale GANGARUS ‘cardine, ganghero, arpione’ (anno 1359, in Glossario latino-emiliano, Città del Vaticano 1937). Ma una più antica citazione troviamo nel Glossarium Mediae et Infimae Latinitatis sotto la voce CANCALUS (da cui GANGARUS e successivamente, con aggiunte di suffisso diminutivo, GANGARETUS) seguito dalla citazione “Absidam … ecclesiae cernens idem beatus Pontifex jam ruinae vicinam existentem, cancalis ferreis absidam confirmari fecit (anno 1000 circa) ‘lo stesso beato Pontefice vedendo che l’abside della chiesa era prossimo a rovinare, la fece rinforzare con tiranti (o ganci) di ferro’.

A Piacenza troviamo una citazione riferita al sec. XIV “de feramentis… de cancharis et de dobionibus (piastre di metallo)”. Per il significato di dobionibus = cerniere, piastre di metallo, si veda il DEI II, 1369. La citazione qui riferita è da: P. Sella, Glossario latino-emiliano, CITTA’ DEL VATICANO 1937.

ghingarètu

È quel piccolo arnese – qui fotograficamente riprodotto a grandezza naturale – chiamato in italiano ‘chiodo a gancio’.

Non è che la forma diminutiva della voce trattata in precedenza.

varmaʃia

Bella metatesi che sta per marvaʃia ‘vino malvasia’. La fonte, del tutto genuina ed autentica, è riportata dal quel novese ‘doc’ che fu Ettore Repetto, grande esperto di dialetto e di vini, nel volumetto Uomini e cose della vecchia Novi edito nel 1982. Riporto integralmente dal suddetto libro il piacevole Magrigale rusticano tratto dalle più antiche canzoni popolari e da osteria che Ettore Repetto (per i novesi Gueréin) riuscì a salvare dall’oblio.

La traduzione in lingua che segue al Madrigale è dello stesso Repetto.

MADRIGALI RUSTICANI

DOLCE INVITO

La mamma:                          Amù, amù, amù vene tüte èè sàire

che i tô pàsi i saràn bàin pagati

un ghè sarà ne ôru ne argàintu

ma l’amù da mè fija in pagamàintu!

 

La figlia:                                 Amù, amù, amù, ven püra tüte èè sàire

che la mia mama t’in darà da bàive

t’in darà dèè bôn véin ‘d varmazia

e tütu l’amu da sô bèla fija!

 

La mamma:                          Amore, amore, amore vieni tutte le sere

che i tuoi passi saràn ben pagati

non ci sarà né oro né argento

ma l’amore di mia figlia in pagamento!

 

La figlia:                                  Amore, amore, amore vieni pure tutte le sere

che la mia mamma ti darà da bere

ti darà del buon vin di malvasia

e tutto l’amore della sua bella figlia!

ventuʃa

Dopo giaculón e viʃicante, analizzati in passati numeri di NOVINOSTRA, non tralasciamo di descrivere un altro metodo di cura empirica, non ancora del tutto scomparsa presso i nostri mediconi e talvolta praticato con qualche parziale successo. Ricordo che un amico medico, il dott. G. li consigliava ai suoi pazienti nel caso in cui fosse richiesta una cura per dolori all’addome o alla schiena: si tratta della ventosa o COPPETTAZIONE.

La voce, che ricorre nel dialetto ventuʃa, anche in altre zone del novese pur con piccole varianti, (v. Tortona e Garbagna) e lo stesso che l’italiano coppetta, come è ben descritto nel Vocabolario Nomenclatore di Palmiro Premoli: “specie di campanella di vetro che si applica su di una parte qualunque del corpo, dopo di avervi fatto il vuoto nel suo interno, con lo scopo di richiamare nella parte un maggior afflusso di sangue”. Ma meglio descritta ritengo riprodurre quanto scrive M. Silvano nel Dizionario dialettale della Pozzolasca (e qui riassumo)

“coppetta di vetro che si applicava sul corpo, con una fiammella all’interno, dentro la quale, una volta bruciato l’ossigeno, e quindi spentasi, si creava il vuoto.

La pelle allora si sollevava provocando una benefica revulsione. Come coppetta veniva per lo più usato un bicchiere capovolto, e la fiammella ardeva per brevissimo tempo su di un batuffolo di cotone”.

Il termine, che è anche citato nel DEI (Dizionario Etimologico Italiano) riprende o è dalla base VENTUS dal latino scientifico (voce semidotta) ventosae, da confrontarsi col latino tardo VENTOSA ( sott. CUCURBITA) = zucca piena di vento/aria. Qui non è difficile l’accostamento alla campana di vetro, usata un tempo per lo scopo prefisso.

Ma qui, concorre una nuova scoperta nel campo delle voci dialettali novesi, non ancora comparse nelle mie raccolte dialettali e che giova senz’altro trascrivere, affinché non si perdano nel cammino del tempo e non rimangano, tristi e appena sfiorate dai parlanti locali: ebbene, non si tenda all’oblio, l’altro significato, ben più raro, di VENTOSA, voce ben certificata da dialettofoni novesi e confermata da più fonti è un termine RUSTICO: è il drenaggio dei terreni e dei campi coltivati, costituito da un fosso riempito con ghiaia e fascine tratte da potature dell’anno precedente, atte a filtrare ed arieggiare il terreno in modo da renderlo più soffice per lavorarlo con mezzi agricoli piuttosto rozzi e su terreni talvolta collinosi e compatti.

Per Garbagna, abbiamo, come termine rurale, questa descrizione, che riproduco letteralmente e con piccole variazioni, il paziente lettore è invitato solo ad una lettura procacciatrice di sonno: “fosso di scolo principale e permanente, piuttosto ampio e profondo fatto a monte dei campi … la sua funzione era quella di regolare il deflusso dell’acqua piovana. I normali solchi di scolo, akṷè dei campi venivano rinnovati ogni volta che si arava il terreno … mentre la ventuʃa era permanente”. (Romano Rovelli, Vocabolario del dialetto di Garbagna, Tortona 2007).

Si ricorda, a lato di quanto precede, l’articolo del DUCANGE, s.v. ventouse dove dice:

CUCURBITA MEDICA AD ELICIENDUM SANGUINEM, vulgo ventouse

termine, quindi, molto antico, (DC VIII 274).


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