di EDOARDO MORGAVI
L’area territoriale interessata appartiene, geologicamente, alla serie oligo – miocenica di quello che fu l’estremo lembo meridionale del bacino terziario del Piemonte. Osservando la Carta geografica della zona in esame, riscontriamo che il terreno è costituito dalla formazione di Costa Montada dello spessore di quasi 400 metri.
Al livello inferiore, sul limite del contatto con le marne di Rigoroso di età oligocenica, detta formazione è caratterizzata da conglomerati, sopra i quali sono sedimentate arenarie compatte e marnose, in grosse bancate e strati dislocati dalle azioni tettoniche. La microfauna, spesso in frammenti, è rappresentata da lamellibranchi, coralli e gasteropodi. Si può senz’altro affermare, che dal punto di vista cronologico, la formazione, nel suo insieme, è databile al miocene “prelanghiano”, valutabile, grosso modo, a a una ventina di milioni di anni fa.
Sulla storia di Arquata si è scritto molto, ma poco o nulla su una lunga attività primaria che ormai fa parte del passato: alludo all’estrazione di pietra grigia nella zona di Montaldero. Essa fu usata già dai Romani per la costruzione di Libarna, specialmente per grandi strutture portanti come colonne, portali, lastroni per pavimentazioni, acquedotti, e anche per grossi piloni, formati da enormi pezzi o lastroni calcarei quadrilunghi del ponte che univa Libarna all’isola di Precipiano. Dalle antiche pergamene del monastero di Precipiano rileviamo che il suddetto ponte esisteva ancora nel sec. XIV.
Altro materiale da costruzione che venne usato fu l’arenaria di Serravalle di color giallo più soggetta a deteriorarsi a causa degli agenti atmosferici, ciottoli della Scrivia e anche tracce di marmo di Carrara. A proposito della presenza di questa pietra grigia a Libarna, alcuni ricercatori, non sapendo delle cave di arenaria di Arquata, erroneamente la giudicarono proveniente dalle zone di Grondona, Molo Borbera e Monastero.
In questa arenaria, oltre al grigio, appaiono altri due colori: l’azzurrino e il rosa chiaro. Il materiale con queste caratteristiche esposto alla pioggia rimane grigiastro nella quasi totalità e nel tempo si formano licheni irregolari chiari e scuri a macchia di leopardo. La logica suggerisce che il prelievo del materiale sia avvenuto nelle vicinanze, piuttosto che a molti chilometri di distanza, anche perché l’organizzazione romana non avrebbe commesso errori in tal senso.
Probabilmente le più consistenti estrazioni da parte dei Romani sono avvenute dove sorge il Santuario di Montaldero, considerando anche che il banco di arenaria (di circa 4 metri di spessore) è posto sia a levante che a ponente del piazzale della chiesa. Lo strato si estendeva sino al crinale nelle vicinanze dei ruderi del castello di Montalto, affiorando nel versante di Rigoroso. Conferma di ciò è il fatto che il crinale interessato all’estrazione in tutta la sua lunghezza presenta un forte abbassamento di alcuni metri.
Con ogni probabilità l’estrazione iniziò dal crinale seguendo lo strato verso valle formando l’omonimo piazzale, dove nel 1646 si edificò un’umile costruzione; nel 1718 l’edicola fu convertita in oratorio, ampliato, come è attualmente, tra il 1815 e il 1850. Per il trasporto a valle del materiale di questa cava, sicuramente gli estrattori si erano serviti della vecchia strada del santuario, perché l’attuale carrozzabile fu aperta nel 1932. Il vecchio itinerario partiva da due punti diversi: uno dal crinale e l’altro dal piazzale della chiesa da dove saliva con un’erta molta ripida, lunga circa 50 metri, per unirsi all’altro proveniente dal crinale.
Il dislivello creato in questa tratta fa supporre che si sia formato poco alla volta, aumentando con l’estrazione, servito poi in un secondo tempo per raggiungere la chiesa.
Partendo dal crinale, l’intero percorso è quasi tutto in discesa fino ad Arquata, escluso qualche centinaio di metri in piano, e solo un breve tratto di circa 30 metri è in salita fino al valico (questo percorso darebbe una conferma alle cronache della primavera del 1310, quando Opizzino Spinola, giungendo da Genova assetato di conquiste, dopo un assedio di venti giorni distrusse il castello di Montalto con macchine belliche, ovviamente servendosi di questa strada, vista la vicinanza al castello e non avendo altre vie accessibili per certi macchinari bellici, questo castello fu una delle prime conquiste dell’Oltregiogo da parte dei genovesi nel 1128 contemporaneamente al castello di Fiaccone – Fraconalto).
Ritornando alla vecchia strada, ne tracciamo il percorso lasciando la zona della chiesa, proseguendo verso ponente e poi raggiungendo l’antica mulattiera per Sottovalle (ora percorso escursionistico europeo con segnavia E/1).
Arrivando nei pressi di Lavaggio (antica casa di caccia dei marchesi di Gavi) superando una breve asperità, si ridiscende per il crinale di “Vignaessa” che fa da spartiacque e confine comunale tra Gavi e Arquata, già antichi confini di Stato tra la Repubblica di Genova e il feudo di Arquata; lasciandoci alla nostra destra la valle di Regonca, si raggiunge la collina di S. Barbara e proseguendo nel versante di nord-ovest, si arrivava, e si arriva, in via Carrara e P.za S. Rocco, nel concentrico di Arquata.
Il nome di “Carrara” (o “Caréa” in dialetto) può avere origine da una strada frequentata da carri: i Romani, partendo da una strada che oggi porta quel nome, potevano trasportare la pietra a Libarna percorrendo il tracciato su cui fu costruita la Postumia.
Il fatto poi che questo materiale si trovava in alto costituiva un minor dispendio di energie per il trasporto a valle sia per la costruzione del Castello prima, che del Borgo successivamente (quindi si avvalora quel vecchio detto che all’ingiù vanno anche i sassi). L’ impiego di questa arenaria fu notevole nel costruire edifici, vie di comunicazione, strade, ferrovie e la prima tratta della autostrada Genova-Serravalle, chiamata fino al secondo dopoguerra “Camionale”.
Durante la seconda guerra mondiale, esattamente nel 1941, nella stessa vallata di Montaldero si aprì una nuova strada interamente pianeggiante più bassa di qualche centinaio di metri dalla chiesa, collegando la strada per il santuario alla vecchia, presso la collina di Santa Barbara. (Questo nome dato alla collina ha origine da una piccola chiesetta privata ora ridotta a pochi ruderi).
Furono i soldati del genio militare stanziati ad Arquata, comandati dal tenente Campanella, esperto scalpellino, ad edificare tre ponti ad arco, tutti in pietra locale, e nella chiave di volta scolpirono lo stemma militare, tuttora visibile (se non coperto da vegetazione). Ancora oggi viene chiamata in dialetto “strò di suldati”. Gli stessi militari furono impiegati alla sistemazione del fondo stradale con acciottolato, nella strada Arquata-Gavi Via Colombare, ma l’opera rimase incompiuta perché l’esigenza della guerra li destinò ad altre vie sicuramente più impervie.
Vorrei citare alcune opere antiche in Arquata, in cui si utilizzò la stessa arenaria: il castello, il borgo medioevale con i suoi portali, capitelli, pozzi, la chiesa parrocchiale con portali e ornamenti esterni, i grandi pilastri interni della navata centrale, fuori borgo la chiesa di S. Maria e S. Antonio Abate, parte della recinzione al giardino del monumento ai Caduti per la patria, cioè il pozzo barocco con basamento, colonne, e parte ornamentale del tetto.
Il Palazzo Comunale con portali esterni ed interni, davanzali, parti ornamentali della scala interna e quella esterna all’ingresso centrale, i bei pilastri che sostengono la cancellata per l’accesso al piazzale delle scuole medie, (recentemente restaurate) anticamente ingresso principale del giardino degli Spinola, marchesi d’Arquata.
Sempre in territorio arquatese citerei l’ingresso principale del cimitero comunale, il muro di recinzione del cimitero di guerra britannico, del primo conflitto mondiale, progettato dall’architetto inglese Sir Robert Lorimer: edificato da artigiani arquatesi, i Debenedetti, i quali vantavano esperienze secolari di scalpellini, tramandate da padre in figlio.
Oltre a Libarna, l’utilizzo di questa pietra si estese ai paesi limitrofi; un esempio di notevole pregio artistico sono le dodici colonne e i rispettivi basamenti, i portali e altre rifiniture della chiesa Collegiata in Novi, dove un documento dell’archivio parrocchiale del 1675 attesta che le colonne erano provenienti da Arquata, furono trasportate una alla volta con tiro da “undici para bovi” (undici paia di buoi). Altri esempi nel centro storico di Novi riguardano vari palazzi antichi, portali, colonne e la facciata del teatro “Marenco”.
Nella città di Genova questa pietra fu impiegata per la costruzione del carcere di Marassi. Molti edifici vennero abbelliti, alcuni in stile liberty: un esempio è la sede del museo di Libarna, Villa Caffarena, in Serravalle, adibita ora a biblioteca comunale.
Per chi percorre strade e sentieri nella zona di Montaldero è possibile individuare tracce di cave un po’ ovunque (vegetazione permettendo) e tratti di strade dove si trasportava o trascinava a valle il materiale, compreso il legnatico, l’unico prodotto agreste, in prevalenza castagno.
I percorsi erano molto impervi, scoscesi con forte pendenza e pericolosi per grossi carichi. Il rio del fondovalle serviva anche da strada, ma ad un minimo di pioggia si trasformava in un vero pantano, donde il toponimo dialettale è bögio id patàn (il buco di fango).
Altre cave del territorio di Arquata esistevano nel versante di Rigoroso lungo un tratto dell’antica Postumia, ora chiamata “strada delle cave”, nelle valli del Cabanon e di Praga fino al Monte Crovaglia.
Due piccole cave di arenaria esistevano una a sud di Vocemola, ai confini della Liguria con caratteristiche diverse, di un grigio più scuro; l’altra in Val Pradella chiamata “ciapéa”, di minore importanza sia come qualità che quantità, più scadente e impiegata in lavori più umili, costruzioni rurali, muri a secco, ecc.
Un esempio tutt’oggi visibile è lungo la strada comunale Arquata-Gavi, dove si incontra un muro a secco di sostegno alle scarpate nella ex proprietà privata della Contessa Giuditta Della Torre ved. Banchieri. Il muraglione ora restaurato sostiene il giardino nel versante est-nord-est e in questo stesso giardino c’è una targa marmorea la quale ricorda che “Da questa casa Vittorio Emanuele II il 6 settembre 1877 assisteva alle grandi manovre dei nuovi soldati della terza Italia”.
Nei pressi della valle di Montaldero, altre cave di arenaria esistevano in territorio di Avi, nell’alta valle di Pratolungo, in particolare nella zona di Lavaggio. La stessa città di Gavi se ne forniva chiamandola “pietra di Pratolungo”; ad Arquata era invece chiamata “pietra di Lavaggio”. In questa zona e nella valle del Cabanon ci furono le ultime estrazioni che durarono ancora qualche anno nel secondo dopo-guerra, ponendo fine a questa estrazione millenaria.