Dove finiva il territorio di Novi e cominciava quello di Tortona

di ITALO CAMMARATA

L’Archivio di Stato di Torino (Confini con Genova, Tortonese, mazzo 1) custodisce un documento datato 5 dicembre 1471 e intitolato ‘Atto di terminazione dei territori di Tortona e Novi, con piantamento dei termini’. Si tratta di una stampa, cioè chiaramente della trascrizione di un manoscritto custodito nell’Archivio di Milano, eseguita nel ‘700 da funzionari sabaudi per poter disporre di qualche prova documentale su un territorio (quello tortonese) che i Savoia avevano conquistato nel 1735, ma di cui a Torino si sapeva ben poco. Quell’atto, scritto a mano  con meticolosa precisione quasi 300 anni prima, permetteva infatti di capire quali fossero i veri confini riconosciuti fra il Tortonese e Genova (e Novi, che allora faceva ancora saldamente parte della Liguria). L’originale, di cui venne fatta la trascrizione a stampa, rimase nell’Archivio milanese mentre i piemontesi che avevano compiuto l’operazione dovettero lasciare Milano insieme al loro Re Carlo Emanuele III, che invano aveva sperato di diventare anche padrone della Lombardia.

L’articolo che segue ricostruisce come si era arrivati nel 1471 a fissare quei confini che ora interessavano tanto al Re di Sardegna, divenuto padrone di Tortona.

Dopo la morte del Duca di Milano, Francesco Sforza (1466), e la salita al potere del figlio Galeazzo le vicende del feudo di Novi sembrano assestarsi: il giovane Battistino Fregoso va a vivere alla Corte di Milano mentre sua madre Bartolomea rimane a governare Novi. A Milano il ragazzo è registrato[i] fra i “Camerèri de camera” e avrà una buona educazione, che si rivelerà più avanti nella sua padronanza della lingua italiana e latina (scriverà libri in entrambe), e frequenterà personaggi importanti, che a Novi mai metterebbero piede. La sua condizione è a metà fra l’ostaggio volontario e lo studente fuori sede, ma al Duca di Milano fa comodo tenere sotto controllo il giovane Fregoso proprio mentre suo zio, l’Arcivescovo Paolo esule da Genova, continua ad agitarsi[ii] per tutta Italia nel tentativo di rientrare in Liguria per fare ancora l’Arcivescovo e il Doge, cioè quello che faceva quando i Milanesi l’hanno cacciato nel 1464.

Bartolomea Fregoso invece è rimasta a gestire le piccole beghe del feudo di Novi e le lettere che arrivano da Milano. Ad esempio le viene ordinato[iii] di consegnare “alcuni dei vostri uomini di Novi che hanno commesso frode nel far condurre gualdi[iv] senza licenza” ducale verso il mercato di Genova, ma la lettera è garbata ed indirizzata alla “magnifica dilettissima nostra” Bartolomea. E più tardi: “Abbiamo inteso l’empio eccesso commesso da alcuni uomini di Novi, che ci è dispiaciuto grandemente”, le scrive[v] poi il Duca. Questa volta si tratta di un omicidio. “Vogliamo e comandiamo che dobbiate avere nelle mani quei tali che hanno commesso quella iniquità e punirli”. E se donna Bartolomea non avesse “il modo o la volontà di provvedere come si richiede”, avvisi la Corte, che provvederà. “Ma se desiderate farci cosa grata ci farete intendere che tale insolentissimo caso è dispiaciuto a voi non meno che a noi”. Il Duca ne parla a voce anche con il giovane Battistino a Corte, e donna Bartolomea naturalmente obbedisce: “Feci prendere Guglielmino Bianchi, uno dei delinquenti che aveva commesso l’omicidio”, comunica[vi] infatti al Duca, e manda a Milano il suo Podestà Francesco dal Pozzo. Poi fa mettere alla tortura il prigioniero “per intendere la verità”. E’ una pratica normale per i tempi ma “il medesimo dì giunse qua Urbano Bianchi, barba [zio] di Guglielmino” con l’ordine ducale “che lo dovessi liberare dalla prigione”. Lo zio Urbano (che è uno dei capi dell’opposizione novese) è infatti corso a Milano ottenendo la grazia per Guglielmino. E così “l’ho fatto rilasciare dal carcere e gli farò cassare ogni processo”, assicura Bartolomea senza reagire. L’episodio si commenta da se.

Pochi giorni dopo, il giovane Battistino rientra provvisoriamente a Novi, ma appena “cessato il sospetto della peste ritornerà a Milano”, assicura[vii] sua madre al Duca. La ragione che ha indotto Battistino a tornare è una vecchia causa che i Fregoso hanno in corso con Ettorino Spinola a proposito di un mulino ad acqua nel territorio di Novi. Ai primi di giugno Battistino è già pronto[viii] a rientrare a Corte e infatti una missiva[ix] ducale gli ordina di “trovarsi a Milano al 20 o 22 di giugno”, quando il Duca Galeazzo “ha deliberato di celebrare le nozze della novella sua sposa” cioè con Bona di Savoia. Bartolomea sa già che la sposa arriverà in nave dalla Francia sbarcando a Genova e passando poi per Novi, e perciò argomenta: “Dovendo la prelibata madonna venire in questa Terra, vedrei volentieri che Battista restasse qui fino alla venuta” della sposa “e quel medesimo dì e quell’ora che SE si partirà [da Novi], si partirà anche messer Battista e se ne verrà direttamente a Milano”. Questa lettera di Bartolomea porta anche i saluti di Battistino e della sorellina Oriana.

Quando la sposa francese passò per Novi

Abbiamo descritto in un altro articolo[x] la preparazione, il transito e i postumi di quel regale corteo passato per Novi. Basterà qui notare che nella catena di segnali luminosi e sonori predisposta per preannunciare a distanza l’arrivo della sposa figura[xi] anche donna Bartolomea “con gli uomini di Novi”, che hanno predisposto un punto di segnalazione sulle colline “sopra di Novi”. In paese infatti quel 29 giugno 1468 si trovano i tre cerimonieri incaricati di organizzare le ultime tappe del viaggio: “Abbiamo dato avviso della venuta di VS a madonna Bartolomea, la quale ne ha avuto grande piacere e aspetta VE con grande devozione”, scrivono[xii] i tre al Duca, aggiungendo: “Abbiamo sollecitato la venuta lì di Battistino, lo quale subito è montato a cavallo per venire da VS”. Il Duca però quel giorno è già ad Alessandria e lì trova anche il tempo per scrivere[xiii] al Vescovo di Tortona una raccomandazione per “prete Antonio Guasco, Arciprete di Novi, e prete Lorenzo suo fratello e tutti quelli di casa sua, che ci sono sempre stati fedelissimi servitori”. L’indomani è a Novi: “Noi in questo punto siamo giunti qua credendo di trovarvi già qua”, scrive[xiv] a suo fratello Tristano, che guida il corteo della sposa ma che si attarda ancora in Valle Scrivia. A Novi ci sono anche i tre cerimonieri di cui si è detto, che lo avvisano[xv] come “è giunto qua uno scudiero della vostra consorte per vedere gli alloggiamenti qui”.

Infatti gli illustri ospiti dormono a Novi la notte del 30 giugno e la mattina dopo riprendono il cammino verso il porto fluviale di Sale dove si imbarcheranno.

Il Podestà Francesco del Pozzo, che regge il Comune di Novi per conto di donna Bartolomea, comunica che “dopo la partita” degli ospiti lui ha “fatto congregare il Consiglio” di Novi “e gli ho proposto che farebbero il loro dovere se facessero fare qualche degna memoria nel luogo dove” il Duca “ha incontrato per la prima volta la illustrissima madonna Duchessa”; così il Consiglio all’unanimità ha deciso “di fare un bel pilastro, nel quale si dipinga la Vergine Maria e l’immagine di VE e della Duchessa”. Il Podestà è di Vigevano e non conosce bene il territorio novese, perciò non si rende conto che con quella iniziativa sta per scatenare un mezza guerra fra Novi e quelli di Serravalle, i quali ultimi sostengono che il fatale incontro ducale è avvenuto sul loro territorio e quindi che tocca a loro costruire quel monumento. Ma di questo abbiamo già scritto.

 

Mi sforzerò di venire anche se dovessi venire col corpo per terra

Passata la buriana e ritornata la calma, a fine luglio 1468 il Duca convoca[xvi] a Corte donna Bartolomea insieme a Battistino e al Podestà di Novi. Non si sa il motivo della convocazione, ma un postscriptum precisa: “Quantunque diciamo che veniate subito, nondimeno verrete dopo che madonna nostra madre, nel suo ritorno, sarà passata [oltre] Novi”. La Duchessa madre, infatti, si è recata ad accompagnare fino a Serravalle sua figlia Ippolita (che rientra alla Corte di Napoli) e nel viaggio di ritorno dovrebbe sostare a Novi. Ma donna Bartolomea, forse stressata da tutti quei preparativi, marca visita: “Mi ritrovo inferma e inabile a cavalcare”, si scusa[xvii] col Duca, e intanto manda a Milano suo figlio insieme con il Podestà; ma se il Duca proprio lo esige, “mi sforzerò, anche se dovessi venire col corpo per terra”.

Che cosa avrà da dire il Duca a madama Fregoso? Non bisogna dimenticare che a partire dal 1464, quando Genova è passata sotto il controllo milanese, l’Arcivescovo Paolo Fregoso (cognato di Bartolomea e zio di Battistino) ne ha fatto di tutti i colori per contrastare il Duca e i suoi sudditi milanesi che gli hanno tolto Genova e il suo Arcivescovato, ma ora fa sapere[xviii] che “delibera di fare un accordo e sottomettersi” a Milano. Chi manda questa comunicazione da Genova commenta sarcastico: “Quando il lupo è in prigione vuole fare confessione!”. Meglio non fidarsi. Sia come sia, al Duca interessa molto sapere da che parte stanno i signori di Novi, madre e figlio, su quella questione. Anche un milanese che ha accompagnato fino a Genova Ippolita Sforza comunica[xix] la stessa disponibilità dell’Arcivescovo, “che verrebbe volentieri a stare all’obbedienza”, e consiglia al Duca di riaccoglierlo nel Ducato perché così il Fregoso potrebbe essere considerato “più sicuro che non se stia nella terre della Signoria di Venezia”, come l’Arcivescovo esule ha fatto finora.

Le due fazioni[xx] novesi si rifanno vive come risulta chiaro da una lettera[xxi] che il Duca indirizza ad entrambe: “Dall’una e dall’altra parte degli uomini di quella Terra, che sono venuti qua da Noi, abbiamo inteso la disposizione di volerci donare per onoranza delle nozze un presente di 500 ducati, che Noi accettiamo volentieri per la devozione che sappiamo ci portate”. Ma il Duca ha anche saputo che “per questa cagione o per altro sia nasciuto qualche odio e ruggine tra voi” Novesi e desidera che li “si estirpino e che tra voi viviate unitamente e amorevolmente come si conviene”. Perciò ha deciso di mandare “il nobile Giannantonio da Figino, nostro familiare, che abbia ad esigere i 500 ducati a nostro nome”, ma che cercherà anche di “interponersi a mettere buona concordia, amore e carità tra tutti voi, che duri perpetuamente”. Sembra di capire che al Duca interessa sì la concordia fra i Novesi ma soprattutto che aiutino il suo inviato, in modo “che abbia a ritornare presto da Noi con quei denari”.

 

Bartolomea va a Corte ma non incontra il Duca

All’inizio di settembre 1468 donna Bartolomea sta abbastanza bene per potersi recare alla Corte sforzesca, che in quel momento è a Monza. Ma il Duca non può riceverla per via di “altre occupazioni maggiori”. Così lei si adatta a lasciargli un memoriale[xxii], benché “male si puote in corte parole far lungo sermone”. Gli ricorda “quanto il mio consorte fu dedito ai servizi del genitore vostro, non risparmiando la roba sua né la vita, che vi lasciò, ohimè dolente, lasciata in dolorose pene” nel 1458. La donna è polemica: “Questo non lo devono ignorare quei cortigiani che a quel tempo maneggiavano queste cose e che adesso pare che tacciano”. Presa dalla foga, la donna rivela alcune cose imbarazzanti per la Corte sforzesca: quando si trattava di cacciare i Francesi da Genova, argomenta, suo marito “venne a Milano” alla presenza del Duca “che gli dié istruzione del modo che aveva a tenere” contro i Francesi e così “vi lasciò la vita, lui e Masino suo fratello”. E più tardi, rivendica ancora la donna, “arrisicai l’essere mio, la facoltà mia, fino all’onore e alla vita” per impedire che l’altro suo cognato Pandolfo consegnasse Genova ai rivali dello Sforza. Invece adesso “tutta la casata mia, i miei parenti e amici” sono considerati ribelli e mandati dispersi, al punto che “mi vorrìano vedere affocata” per essere venuta a patti con i milanesi. Donna Bartolomea fa tutta questa tirata per concludere che con sé a Novi ha ancora “sei pute [figlie] che mi restano da maritare, orbate di ogni adrizzo [guida], ché se non le sostengo andrebbero disperse”.

 

Il protettorato su Novi consente molte ingerenze

Anche Martinetto Fregoso,figlio di Ludovico, scrive[xxiii] al Duca: “Io sono ancora qui a Reggio, dove di continuo ho aspettato grazia da VS”, cioè il perdono. Per motivi di interesse Martino è stato maritato[xxiv] a sua cugina Oriana, una figlia di Bartolomea, già nel 1461 quando entrambi erano bambini, ma poi il destino li ha divisi. Ora Martinetto chiede al Duca il permesso di “avere la mogliere e la dote, e con quella comprare [qualche] proprietà, con la quale abbia da vivere”. Questa moglie-bambina Oriana vive ancora con sua madre a Novi.

Da Novi scrive[xxv] il vice podestà Gian Giacomo Trotti, cui da Milano è arrivato l’ordine di far presentare entro tre giorni a Corte il novese Lorenzo Girardengo. Anche donna Bartolomea viene coinvolta[xxvi] in questa vicenda, che riguarda una Isabetta Rovedi, maritata col novese Job Girardengo, fratello di Lorenzo. Si vuole accertare “la libera volontà della puta” a contrarre quel matrimonio e si ordina che venga isolata “in un luogo che sia confidente a tutte due le parti e dove la possa dire liberamente la volontà sua, la quale in ogni caso deve essere libera”. Come si vede chiaramente, il regime di protettorato che lega Novi a Milano consente al Duca ampi margini di ingerenza nelle cose novesi; ingerenza che del resto in alcuni casi va a vantaggio dei Fregoso, come quando il Duca nomina[xxvii] l’avvocato alessandrino Raffaele Inviziati per dirimere la lite fra i Fregoso (madre e figlio) ed Ettore Spinola a proposito del solito mulino di Novi. L’atteggiamento del Duca è duplice: a Martinetto Fregoso nega[xxviii] perfino il permesso di andare a Corte a visitarlo mentre invece raccomanda[xxix] donna Bartolomea ai funzionari della Camera Usodimare di Genova, che le devono dei soldi.

 

I buoni levrieri da caccia allevati a Novi

Il Duca interviene[xxx] ancora quando un certo “Gottardo di Grana, abitatore di Novi” viene ucciso da Agostino Torti e altri. Poi scrive[xxxi] direttamente al Podestà di Novi spiegandogli come, “per prendere qualche piacere”, è andato a caccia ma si trova “malfornito di levrieri”. Poiché ha “inteso che in quella Terra di Novi vi sono alcune persone che hanno buoni levrieri”, ordina perentorio che “ti consegnino tutti quelli levrieri che avranno e ce li manderai subito. Quelli che troveremo siano buoni, li riterremo e quelli che no, te li rimanderemo indietro acciò che li possa restituire”. Il tono è quello del padrone, senza se e senza ma. E manda apposta a Novi il proprio Capitano delle cacce. Appena viene ad apprendere questa perentoria richiesta, donna Bartolomea interviene[xxxii] spiegando che un suo uomo ha “allevato un cane per Battista, mio figlio” e che lei è pronta a farne omaggio al Duca.

Ma i regali non bastano quando il Duca si vede arrivare questa protesta[xxxiii] di Donato Aliprandi, un gabelliere messo a riscuotere le multe nel Tortonese: “Feci fare una esecuzione [sequestro] contro quelli di Novi”, che rifiutavano di pagare una multa, per la quale lui è stato “a Novi più di sei volte” ma inutilmente. L’esecuzione consiste nel sequestrare ad alcuni Novesi “del bestiame alla campagna” mentre lavoravano la terra. “Gli feci togliere un paio di buoi” ma quei malcreati “vennero al mattino [seguente] con armi e [ri]presero i buoi per forza, a dispetto dell’oste” cui Aliprandi li aveva affidati in consegna e che “sta alla Bettola, per mezzo [di fronte a] Villa[alvernia], che è sulla Frascheda”. Aliprandi scrive che se il Duca non interverrà “contro a quelli di Novi, non si potranno fare i fatti” cioè gli interessi del Fisco ducale; anzi anche “gli altri luoghi piglieranno ardire di fare il simile”. Secondo lui, è colpa non solo del Podestà di Novi, “che è parziale” cioè favorisce i Novesi, ma anche “di donna Bartolomea”.

 

Una lettera compromettente del cognato Arcivescovo

Il vero punto debole di donna Bartolomea rimane sempre quel suo cognato Arcivescovo, ancora ribelle al Duca e che lei è sospettata di favorire sottobanco. Tanto che il novese Andrea Cavanna, che è “domestico e familiare di casa” Fregoso, la accusa di essere in contatto epistolare col cognato, il quale le ha chiesto che “lo volesse sovvenire di denari” nel suo esilio. “Subito irata, indignata e affannata di tale novella”, cioè dell’accusa mossale dal Cavanna, assicura[xxxiv] la donna al Duca, “lo feci prendere e incarcerare e comandai al Podestà che lo facesse mettere alla tortura, sempre col consiglio del dottor Antonio Montemerlo, cittadino di Tortona e genero di Raffaele Busseti”, che evidentemente è il suo consigliere legale. Bastano “alcuni tratti di corda” perché il povero Cavanna confessi di avere “portato una lettera dell’Arcivescovo” ma che l’ha tenuta con se dopo averla mostrata a un familiare di donna Bartolomea, chiedendogli “che me ne dicesse qualcosa”. Ma la donna, informata, aveva obiettato che “non volevo sapere di simili cose” . Poi però si era messa a cercare questa benedetta lettera finché nella stessa prigione si era scoperta una chiave, nascosta dal Cavanna, che aveva permesso di aprire una cassetta con la lettera. Quel documento compromettente viene mandato al Duca, ma donna Bartolomea gli assicura che “gli fui, sono e sarò sempre fedelissima” e si firma qualificandosi “figliola di obbedienza”.

Ma i sospetti del Duca si riaccendono quando, 15 giorni dopo, riceve una lunga confessione[xxxv] scritta del novese Guglielmino Bianchi, del fu Teodoro e nipote di Belengio, il quale in cerca di un lavoro è andato in barca[xxxvi] da Novi fino a Ferrara e lì ha incontrato un altro dei nemici giurati del Duca, cioè Ibleto Fieschi[xxxvii], che è in stretto contatto con l’Arcivescovo e che gli confida di avere “buona intelligenza e capitolato con i Fregoso (l’Arcivescovo, Lazzarino e un altro) che gli davano Novi, Lerici e altre cose”. Probabilmente è soltanto una vanteria ma Guglielmino gli obietta: “Bene, ma come fate con madonna Bartolomea?”, e Ibleto risponde: “Basta, ché madonna Bartolomea è d’accordo, perché dice che le pare di essere a casa del diavolo“ da quando ha dovuto scendere a patti con i Milanesi.

Sono notizie che fanno rizzare le orecchie del Duca. I Bianchi sono una famiglia novese importante. Belengio Bianchi, lo zio di Guglielmino, è in predicato per andare come Podestà sforzesco a Rapallo in quanto, così maligna una lettera[xxxviii], ”non può stare a Novi e pare che, dov[unqu]e vada, faccia pur qualche novelletta” cioè qualche casino. Infatti poco dopo il Duca comunica[xxxix] a donna Bartolomea che Belengio Bianchi gli ha fatto sapere “che lui e suo fratello hanno alcuni debitori” a Novi “li quali si fanno renitenti a satisfarli” cioè a pagare e perciò, “avendo noi carissimi” i Bianchi “per la fede e devozione che portano a Noi e allo Stato nostro, ve li raccomandiamo strettamente”.

Donna Bartolomea non può sapere che il Duca ha in mano un’altra lettera[xl] speditale dal cognato Arcivescovo in esilio a Ferrara, ma intercettata dalla polizia sforzesca, mentre il novese Andrea Cavanna cercava di consegnarla. Di questo Cavanna “mi fido come di me proprio” assicura in quella lettera l’Arcivescovo, invitando sua cognata a fidarsene altrettanto. Ma nemmeno lui sa che quel foglio finirà nelle mani della polizia milanese. Chiede soldi alla cognata: “Mi vogliate aiutare , non dico di tanto ma di quello che potete”. Si è già fatto fare un prestito dallo stesso Cavanna. Si scusa “se scrivo troppo. Date la tara alla passione”, cioè al turbamento in cui vive, e manda i saluti per i nipoti “Battistino, Oriana e il resto” della famiglia. Cavanna è già finito in prigione per quella marachella, come abbiamo visto, e pochi giorni dopo, il Duca ordina[xli] che alla famiglia novese dei Palmeri vengano riassegnati i due voti nel Consiglio comunale di Novi, di cui era stata spogliata “ad falsam suggestionem” proprio della famiglia Cavanna. Per accordo fra le due parti, il compito di dirimere la questione viene assegnato[xlii] all’avvocato tortonese Pietro Ponzano ma questa vicenda testimonia ancora una volta quali intromissioni può compiere il Duca di Milano grazie al trattato di protezione che lega Novi.

 

Un clistere mortale

Nel 1470 Beltramino Ponziglione da Novi presenta al Duca di Milano una singolare domanda di grazia: due anni prima “insieme con certi compagni” di scherzi pesanti “ha messo un clistere a Martino da Gonzano”, non con l’intenzione “che Martino dovesse morire, come poi morì” per quello scherzo cretino. Poi i cretini hanno ottenuta la remissione da parte dei parenti del morto e la grazia da parte di donna Bartolomea Fregoso. Ora Beltramino chiede per se un condono che gli permetta di circolare in tutto il Ducato di Milano senza che qualcuno gli dia fastidio. Il Duca passa la pratica a donna Bartolomea dando il proprio assenso (ASMi Sforzesco 439. Novi, 18 febbraio 1470 e Pavia 18 febbraio 1470).

 

A marzo 1470, nel quarto anniversario della sua ascesa al potere, il Duca chiama a Milano tutti i suoi feudatari a rinnovare il loro giuramento di fedeltà. Battistino Fregoso, che già vive alla Corte milanese, si presenta nella “saletta presso la sala grande e la camera radiorum”, si inginocchia davanti alla coppia ducale e mettendo una mano sul Vangelo giura[xliii] che lui e i suoi saranno sudditi “fideles, sinceri, retti et obedientes, aderenti e raccomandati del  Duca di Milano e che, finché lui vivrà, governeranno il “Castrum et Terram Novarum, cumjuribus et pertinentiis suis, et custodient ad honorem” della coppia ducale, che accetta Battistino come suo “aderentem et recomendatum”. Fra poco il ragazzo compirà 18 anni ma continua a vivere alla Corte milanese mentre suo zio, il ribelle Arcivescovo, viene segnalato[xliv] a Roma insieme ad “alcuni altri Fregoso” alla Corte del nuovo Papa ligure Sisto IV, da cui spera aiuti. Il Duca raccomanda[xlv] di scoprire che cosa quegli irrequieti Fregoso “abbiano tramato e cosa vanno facendo di giorno in giorno”, e poco dopo ne ha piena informazione[xlvi] dalla confessione di un prete arrestato a Genova. Il Papa “li  ha comunicati tutti di sua mano e li ha fatto bere ad un calice”. Quel prete ha anche parlato con i Fregoso a Roma, che gli hanno “commesso che saluti e conforti tutti gli amici e che presto saranno di qua [in Liguria] e avranno vittoria e che avevano aiuto dal Papa e dai Veneziani, che gli davano le galee e li favori grandi”. Tutte vanterie ma il Duca, preoccupato, ordina al suo Governatore di Genova di tenere ben aperti gli occhi e si sente rispondere[xlvii]: “Io starò attento e vigilante” in quanto a Genova “ho la moglie e i figlioli” ma che, per tenere d’occhio le eventuali mosse di Bartolomea a Novi, il Duca “vi può provvedere dal canto di là” cioè da Tortona e Alessandria.

 

Un buon matrimonio in Lombardia

Il modo migliore per tenere sotto controllo donna Bartolomea e Novi sarebbe quello di fare sposare suo figlio ormai adulto con qualche ragazza della nobiltà milanese. Ne parla[xlviii] Francesco Visconti che vorrebbe “maritare alcune de le mie fiolette” e che ricorda al parente Duca di avergli già accennato di “quella che era promessa a Battistino Fregoso” con un accordo “fra un cancelliere di donna Bartolomea e mì”. Quell’autunno 1470 Battistino torna a Novi ad assistere sua madre. “Volendo Noi compiacere alla vostra richiesta, siamo contenti che andiate a casa a visitare vostra madre in questa sua infermità, della quale a Noi rincresce molto, restando lì fin a tanto che sia libera”, recita[xlix] il nullaosta ducale.

Intanto il suo sempre irrequieto zio Paolo viene segnalato[l] “a Ferrara, stravestito” cioè in incognito. L’uomo che lo incontra, lo incoraggia a venire a patti con il Duca di Milano, e così potrà “godere il suo beneficio [ecclesiastico] e anche recuperare certe sue robe che ha a Genova e, oltre questo, avere Novi e certe altre cose che dice essergli state promesse” dal Duca. Il quale evidentemente non esiterebbe a barattare la piccola Novi con una pace che lo liberi dalla ossessione di questo indomabile Fregoso. Poco dopo, infatti, un ordine[li] arriva a Novi: “Ad ogni richiesta dell’Arcivescovo di Genova o di suo fratello Pandolfo, che è qui” cioè alla Corte milanese, donna Bartolomea consegni “Fregosino Fregoso, nipote di Pandolfo, che è presso di voi”. Questo Fregosino, ragazzo di 11 anni, è uno dei tanti figli illegittimi dell’Arcivescovo Paolo, e vive a Novi presso sua zia Bartolomea, non sappiamo quanto di propria volontà e quanto come una specie di ‘ostaggio di famiglia’, la quale deve ancora sistemare molte questioni patrimoniali in sospeso.

In questo periodo il Duca sembra riavvicinarsi al clan dei Fregoso: “Siamo contenti di ogni compromesso e accordo che segua fra voi”, fa sapere[lii] infatti a Paolo e Pandolfo, dicendosi lieto che “ogni differenza di beni, di robba e di eredità che abbiate con vostra cognata Bartolomea si togliesse via”. E lo stesso concetto conferma[liii] a donna Bartolomea, con la quale però i rapporti rimangono freddi se il Duca, di ritorno dal suo viaggio a Firenze con la consorte, non si degna nemmeno di passare per Novi come invece ha fatto tre anni prima quando vi ha incontrato la promessa sposa Bona di Savoia. La situazione dell’ordine pubblico intanto sta seriamente peggiorando nelle Terre di mezzo: da Genova segnalano[liv] infatti la presenza di “alcuni omicidari in queste valli” e la difficoltà di “mettergli le mani addosso” poiché “gli è dato ricetto da alcuni feudatari”, fra i quali ci sono anche quelli di Novi.

 

Noi non paghiamo il Sussidio contro i Turchi

Nel 1453 i Turchi si erano presa Costantinopoli e soltanto allora l’Occidente cristiano aveva aperto gli occhi di fronte al pericolo. Nel Ducato di Milano venne istituito il cosiddetto ‘Sussidio contro il Turco’ cioè una tassazione straordinaria di 20mila ducati che colpiva tutto il clero. La Diocesi di Tortona era tassata per 1000 ducati su un totale di 20mila. Anche il clero di Novi, naturalmente, venne coinvolto ma si oppose duramente. Nell’autunno 1471, per esempio, il segretario ducale Cicco Simonetta riceveva un prete mandatogli dal clero di Novi, che sosteneva di “non essere obbligato a veruna rata di contribuzione“. I preti novesi si dicevano disposti a “fare dal canto loro tutto quello che piace” al Duca ma volevano essere “trattati onestamente e umanamente”. La Corte affidò la questione alle autorità ecclesiastiche di Tortona, cui si faceva presente che i preti di Novi “al sussidio posto nell’anno 1468 non contribuirono con voi, considerato che la terra di Novi non è tenuta da Noi sotto quello stretto vincolo di soggezione come le altre”. La raccomandazione era di trattare umanamente il clero novese. Anche donna Bartolomea intervenne facendo presente “quanto mi sia molesto che il chiericato di Tortona voglia costringere i preti di questa mia Terra di Novi a contribuire al sussidio a loro imposto dal Duca, perché questa cosa è molto pregiudiziale alle ragioni mie di aderenza che ho con Sua Eccellenza”. E il prete novese Bartolomeo Bovone veniva mandato apposta a Corte “per difesa della giurisdizione e delle mie ragioni”. La signora di Novi chiedeva che fosse ascoltato, in modo che il clero tortonese “non si glori di avere sottomessa la mia Terra con carichi insoliti e indovuti”. Alla fine fu il prete novese Giacomo Pellegrini che andò a Milano per versare direttamente 65 libre imperiali al tesoriere Giovanni Cusano, di cui ci rimane la ricevuta.

Per la sua posizione geografica Novi è sempre stata terra di traffici e di contrabbando, specialmente quando arriva l’autunno e il raccolto di cereali dell’annata intasa i magazzini. Cosi non stupisce che Bartolomea e Battistino si vedano arrivare da Milano una reprimenda[lv] ducale: il Duca gli ha già chiarito due anni prima “quanto avevamo molesti i grandissimi disordini che si commettevano nel condurre biade, farine e legumi da un luogo ad un altro senza le debite licenze” di commercio. In quelle lettere si spiegava “il modo che dovevate osservare, voi e i vostri uomini di Novi, perché quei disordini e frodi di biade cessassero”. “Credevamo” che le ammonizioni “dovessero bastare a provvedere in tutto a tali disordini ma ci pare che non solo non abbiano fatto alcun frutto ma le cose vadano ogni dì di male in peggio e si commettano in fatto di biade più mancamenti di prima”. La conclusione è chiara: “Non deliberiamo di sopportare tante insolenza e disobbedienza” dei Novesi. “Altrimenti vi facciamo certi che al primo mancamento intenderete, voi e loro, quanto ci rincresce non essere obbediti”.

Ma ben altra tempesta si sta addensando sulla testa dei Novesi. Il Duca scrive[lvi] al suo Consiglio segreto di avere ricevuto un messaggero della comunità di Tortona che sollecita la soluzione della vertenza territoriale che da tempo oppone Tortona contro Novi riguardo alla proprietà dei terreni della Frascheta, coltivati dai Novesi, ma rivendicati dai Tortonesi. Per calarsi nel problema, bisogna ricordare che non esiste un ponte sulla Scrivia e che per i Tortonesi è scomodo e improduttivo gestire i terreni agricoli sulla riva sinistra del fiume. Praticamente non esistono le cascine e così i terreni sono condotti da coloro che sono più comodi a raggiungerli. Ma di chi è la proprietà? Già nel 1458, quando si temeva che i Francesi sbarcati a Genova si impossessassero anche di Novi, le otto Casane che reggevano Tortona si erano affrettate a spartirsi[lvii] i terreni del  ‘Frascheto’ dividendoli in tre “padia” [appezzamenti] di cui ogni Casana aveva avuta una eguale porzione. Ma quel territorio continua a rimanere un argomento di discordie.

Il Duca ordina di risolvere finalmente quella bega che va avanti da troppi anni. Su questa questione territoriale il consigliere Ziliolo Oldoini ha già emesso una sentenza che non piace ai Novesi perché dà completa ragione alle pretese di Tortona. Ora un altro consigliere, Bartolomeo Trovamala[lviii], spiega al Duca che, “rimettendo la Frascheta alla Comunità di Tortona quanto alla giurisdizione e alla proprietà, Vostra Signoria ne verrà a conseguire utilità e comodità. E al contrario, se la Frascheta fosse tolta a Tortona, VS ne conseguirebbe danno e detrimento” perché non incasserebbe “tratta, imbottature, dazi, pedaggi”, cioè le tasse. La stesso discorso vale anche “per quella Bettola o taverna che [i Novesi] hanno fatto levare [costruire] presso il luogo dov’era la Torre gettata per terra per sentenza di Vostro padre” cioè ai tempi di Francesco Sforza. Su questa vicenda abbiamo già scritto un articolo[lix] su Novinostra: si risale al 1457, quando il Commissario sforzesco dell’Oltrepò ha fatto distruggere una Torre costruita abusivamente dai Novesi per riscuotervi il dazio.

Anche un altro Consigliere ducale, che ha “più volte veduto e praticato la Frascheta” insieme al Podestà di Alessandria, scrive[lx] al Duca che “quando si giudicasse che la Frascheta è di Tortona” il Duca ne “avrebbe grande utilità” mentre se si lasciasse in mano a quelli di Novi, il Duca “ne verrebbe a sopportare non poco detrimento, specialmente per la tratta delle biade e l’imbottata e i pedaggi e dazi di Tortona, che si verrebbero a dannificare”. Questo interessante parere parla anche di una “concessione di pascoli” fatta da Tortona a Novi in passato e che avrebbe creato una specie di usucapione dei Novesi, e riferisce di “una gran quantità di frumenti e vini” prodotti nella Frascheta che vengono ammassati a Novi senza pagare alcuna tassa ducale.

 

La grande malignità di quelli di Novi

Anche il Comune di Tortona protesta[lxi] contro i novesi che “si sforzano continuamente di trarre in nuove liti la vostra povera città di Tortona” malgrado che siano “infiniti i testimoni esaminati” su quella faccenda. Tutto questo deriva “dalla grande malignità di quelli di Novi che presumono, con le loro trame, favori e denari, di soffocare tutto il mondo e calunniare tante sentenze date in favore di Tortona”. Perciò i Tortonesi “sono costretti ad aver ricorso” affinché la loro città non sia “tradotta in nuove liti immortali”, sotto le quali rischia di “rimanere radicitus affondata”. Il Duca cerca[lxii] di mediare mandando “uno sul luogo, che veda e conosca” i diritti delle parti ma “senza far pregiudizio alla ragione di quelli di Tortona né di quelli di Novi”. Cioè a salvare capra e cavoli, “in modo che quelli di Novi non si possano giustamente dolere”.

Il parere[lxiii] espresso del magistrato Egidiolo Oldoini è lungo due pagine e taglia la testa al toro: “Diciamo che le sentenze date in favore di Tortona ormai meritano esecuzione”. Una sentenza dell’arbitro GianBassiano Micoli ha già deciso[lxiv] nove anni prima che “la Frascheta, dal luogo dove sorgeva la Torre [poi abbattuta] in giù verso Tortona spetta plenojure a Tortona”. Infine, dice Oldoini, “per maggiore mia intelligenza volli andare a visitare i luoghi” della disputa “e ben considerarli, partecipando con l’una parte e con l’altra e con diversi testimoni e anche con donna Bartolomea, e poi ho voluto vedere, rivedere, ascoltare e ben rimare le ragioni dell’una  e l’altra parte”. I Novesi hanno tentato di corromperlo “con stimoli e offerte” che gli avrebbero procurato un guadagno “ma con danno dell’anima e dell’onore mio”, giura l’integerrimo funzionario, il quale infatti verrà gratificato[lxv] più tardi dal Duca di Milano con una regalia di 100 ducati..

Il Comune di Novi fa ancora ricorso[lxvi]: chiede che un altro giudice “vada sul luogo a ricevere i testimoni e le prove che vorranno fare le private persone di Novi; altrimenti questa causa resterà immortale”. Si punta a un compromesso da affidare “a uno o due magistrati, che vadano sul luogo e terminino la lite, che sarà opera pia e meritoria”. Un altro ricorso[lxvii] dei Novesi insinua che i Tortonesi avrebbero raggirato Oldoini “con il quale erano ad ogni ora, senza avvertire né citare quelli di Novi” e tentano l’ultimo colpo invocando un intervento diretto del Duca, “fonte viva di giustizia”, senza del quale “la Terra di Novi resterà disfatta”.

Al pascolo abusivo sui terreni di Tortona

Mentre si svolge questa vertenza (che fornirà parcelle a molti avvocati delle due parti) avviene però un fatto inaspettato. Gli Statuti di Tortona prescrivono che “qualunque bestia di forestieri che fosse trovata in danno sul territorio di Tortona deve essere menata alla Camera dei pegni del Comune”, dove rimane sequestrata finché il padrone venga a riscattarla “versando 10 soldi per ogni bestia”. Ma ora il Podestà di Tortona avvisa[lxviii] il Duca che “una certa quantità di bestie degli uomini di Novi” stavano pascolando “nei prati” appartenenti ai Tortonesi. Allora “mandai le guardie a prenderle e furono condotte bestie XXV, benché se ne trovassero più di cento, e rinchiuse nella Camera dei pegni” di Tortona in attesa che i proprietari le vengano a riscattare pagando. Invece “gli uomini di Novi, fatta una magna unione armatorum, forse in numero di 400 persone, sono usciti da Novi e hanno seguito la pesta [tracce]” delle guardie tortonesi ma, “per il vantaggio che avevano avuto, non le hanno potuto trovare e si stima che le avrebbero tagliate a pezzi se l’avessero trovate”. Piuttosto che arrendersi, gli uomini di Novi “sono venuti presso Tortona a miglia 2 e hanno fatto una scorreria” di rappresaglia, sequestrando ai tortonesi una quarantina di bestie al pascolo e catturando anche l’ignaro tortonese Nicola Crozza, che viene portato fino a Novi come un trofeo. Il Podestà tortonese ha subito mandato sul posto “uomini istrutti del territorio”, per capire se esso è “indubitato dei Tortonesi” o no, e ora ha una gran voglia di procedere contro “tanto disordine” ma non sa contro chi procedere. “Bisognerà che VE stringa madonna Bartolomea o la Comunità di Novi a dare i nomi” dei facinorosi per iscritto, chiede. Se i Novesi avessero proceduto per vie legali, assicura, la giustizia “non gli sarebbe stata negata, non solo a loro ma neanche alli barbari”.

 

Una lista di quelli che hanno partecipato alla razzìa

Il Duca in quel momento si trova con l’esercito a Cassine per le solite beghe col Monferrato. Decide di chiudere quel caso e comunica[lxix] a Bartolomea e ai Novesi che verrà sul posto il funzionario GianCristoforo Figino “per mettere i termini” cioè i paletti di confine fra Novi e Tortona, come deciso dai giudici. “Vi confortiamo ad avere ormai pazienza e stare contenti alle sentenza e provvedere che i vostri stiano nei loro termini e che non intervenga veruno scandalo né impedimento”. E a Bartolomea manda un’altra lettera[lxx]: “Vi confortiamo ad informarvi chi sono stati questi malfattori” che hanno sequestrato il bestiame ai Tortonesi “e accusarli [denunciarli] per nome al Podestà nostro di Tortona acciò li possa punire”. Passa una settimana, invece, e il Podestà di Tortona scrive[lxxi] di non avere ancora ricevuto risposta dai feudatari di Novi, ma che il loro Podestà gli ha chiesto una proroga “essendo lui assente da Novi”. Passano altri giorni prima che il novese Blengio Bianchi si presenti[lxxii] a Tortona portando “una lista molto confusa” di nomi, “nella quale erano descritti 53 novesi” soltanto; lista che il Podestà non accetta, “sì per la confusione sì eziandio per lo poco numero” dei denunciati. Il Duca lo incoraggia[lxxiii] ad eseguire, mentre madonna Bartolomea scrive[lxxiv] direttamente al Duca spiegandogli che non è la prima volta che fra Tortona e Novi avvengono queste vicendevoli razzie di bestiame. Se ne occupa[lxxv] anche il Consiglio segreto di Milano giudicando “quel caso non essere lieve, se fosse come si narra”. I Tortonesi ora insistono che quella lista dei colpevoli  mandata da Novi è incompleta: in realtà “li malfattori sono più di duecento”. Dunque c’era mezza Novi a quella razzìa di bestiame. Bartolomea richiede almeno una proroga “per avere piena informazione dei delinquenti” da denunciare. Un’altra lettera ducale ordina al Podestà di Tortona di procedere ma lui, pignolo, osserva[lxxvi]che “la lettera non è sottoscritta di mano” del Duca come dovrebbe. Tanto che un gruppo di Tortonesi, stufo di quelle lungaggini e sospettando che il loro Podestà sia corrotto dai Novesi, si rivolge direttamente al Duca chiedendogli[lxxvii] addirittura di “providere de uno alio Rectore” che “gubernet melius nostram rem publicam”. Anche i Consiglieri comunali di Tortona alzano[lxxviii] la voce a favore della città, “straziata dal Comune e uomini di Novi, usurpatori della nostra Frascheta”.

Il Duca ordina[lxxix] allora che, in mancanza di una lista credibile dei colpevoli, si dovrà “procedere contro madonna Bartolomea e Battistino, dei quali è il luogo di Novi” e intanto si segnino bene i confini. “Già da otto giorni abbiamo mandato a mettere i termini ai confini della giurisdizione della città vostra di Tortona e di quelli di Novi”, gli rispondono[lxxx] i suoi funzionari. Infatti il giorno di S.Caterina Ziliolo Oldoini è già a Novi davanti ai Fregoso, al loro Podestà e agli “octo deputatis quos asserebant representare Consilium & Comune” di Novi e gli legge una lettera minacciosa del Duca, che li invita “ad avere pazienza e stare contenti alle sentenze e provvedere che li vostri stagano nei suoi termini, perché altrimenti vi farìamo tale provisione che intenderete Noi avere molesti tali scandali e le vostre renitenze”. E il primo dicembre il funzionario GianCristoforo Figino riceve l’incarico: il Duca ha ordinato che “senza altra dimora andiate a mettere li termini fra quelli di Tortona e Novi”.

 

Li istruzioni di Ziliolo

Il primo dicembre 1471 il giudice Ziliolo Oldoini mandava al Commissario ducale GianCristoforo da Figino, che si trovava a Tortona per eseguire materialmente la delimitazione territoriale decisa sulla carta fra Novi e Tortona, questa lettera di chiarimento: “Pare che, volendo voi eseguire la mia sentenza data fra Tortona e Novi, dubitiate di due cose: che essendo voi venuto alla Fossa del sale, dichiarata essere ‘Fossa del sale dei Tortonesi’,  vi sia una certa strada torta che va dalla Fossa del sale alla strada maestra di Pozzolo mentre sul disegno c’è solo una strada. Inoltre dite che la mia sentenza dice ‘ad Fossam salis et deinde per stratam magistram qua itur a Pozzolo Serravalem’. Per i quali dubbi rimanete perplesso su dove avete a mettere i termini, e domandate che vi voglia chiarire quale fu la mia intenzione”. Ci fosse il telefono, è una questione che si risolverebbe in un minuto. Invece bisogna scrivere un’altra lettera che forse non è chiara come dovrebbe. “Per soddisfare alla richiesta e acciò che si rimuova ogni dubbio dalla vostra mente, a voi che vi trovate sul fatto dico, per più delucidazione, che la mia intenzione fu ed è che la strada maestra per cui si va da Pozzolo a Serravalle fosse termine [confine] tra quelli di Novi e di Tortona, incominciando in su quella strada maestra dove confina detti da Pozzolo con quelli da Tortona e seguitando per detta strada fino alla Torre demolita, e nominai la Fossa del sale ‘da Tortona’ acciò che si conoscesse essere differente da quell’altra, quale nominavano quelli ‘da Novi’, dichiarando quale fosse quella fossa dicendo usque ad Foveam salisque est Communis Terdone e quindi da quella Fossa alla strada maestra per la quale si va da Pozzolo a Serravalle. Intendendo sempre che si cominciasse ai confini di Pozzolo e che quella strada fosse per termine tra Novi e Tortona. E così per togliere via ogni scrupolo, voi dovete far fare i cavamenti nella Fossa del sale in modo che si conosca come ‘Fossa del sale dei Tortonesi’ e mettere i termini ai confini di Pozzolo sulla strada maestra da Pozzolo a Serravalle, in modo che si conosca che quello è il confine fra i Tortonesi e i Novesi. E così facendo, farete l’intenzione mia. Non altro. Sono al piacer vostro.

Vostro Ziliolo Oldoini”

Milano, primo dicembre 1471

 

Noi siamo persone illustri. Non potete convocarci

Il Podestà di Tortona è uomo di legge. Ordina[lxxxi] a “donna Bartolomea e Battistino suo figliolo che debbano venire personalmente e non per procuratorem a rispondere” all’inchiesta aperta ma si sente obiettare che loro due, “essendo persone illustri, non sono obbligate a comparire personalmente e ad andare in prigione”. In cambio donna Bartolomea manda un’altra lista dei colpevoli. “Ma io non li ho voluto accettare”, dice il Podestà. E da Novi viene richiesto “un altro termine a dare i nomi dei malfattori”, una richiesta che al Podestà “pare assai onesta, per [la difficoltà di] ricordare tanto numero” di colpevoli. Il Duca gli ha raccomandato[lxxxii] di “osservare la forma della giustizia in modo che quelli di Novi non si possano querelare di ingiustizia”. Ma quello stesso giorno la giustizia si è messa in moto per eseguire “le sentenze date a favore della città di Tortona per li confini tra essa e la Comunità di Novi”. Nel mandato[lxxxiii] dell’esecutore Cristoforo Figino sono citate ben 4 sentenze sulla questione: una nel 1457 di Francesco Sforza, un arbitrato di GianBassiano de Micoli del 1463, la terza del Podestà alessandrino Tommasino Trovamala nel 1469 e infine quella di Ziliolo Oldoini del 20 luglio 1471, cioè di pochi mesi prima. Ora Figino dovrà andare a segnare sul terreno “confines et terminos” ponendovi “monticellos, pilastros lapideos”, se occorre, oppure utilizzando “fossata, levatas” e altri manufatti già esistenti sul posto. Il testo del suo mandato viene affisso anche alla porta della casa comunale di Novi. Alla sera Figino si ferma a Pozzolo e il giorno dopo comincia a ispezionare i “loca Frascheti”. Poi va a dormire a Tortona. L’accordo con quelli di Novi è di ritrovarsi due giorni dopo “super Frascheto”. Lui infatti va alla “betola Frascheti” dove ha dato appuntamento, ma nessun rappresentante di Novi si fa vivo. Allora manda un ragazzo a cavallo a sollecitare la loro venuta. L’appuntamento questa volta è alla “levata Boschi” ma anche lì nessuno si fa vivo. Lui percorre quella levata fino allo sbocco che guarda verso Montecastello, in fondo alla pianura del Tanaro.

 

A Novi ci sono senz’altro più cavalli che uomini

Il resoconto di quella peregrinazione di Figino è interessante perché ogni tanto, per fissare alcuni punti di riferimento allora ben noti a tutti, cita toponimi ormai perduti come “strata Novascha”, “Castrum Draconis”, “Turris” e Turresinum”, “Crosa de Braydis”, “Via del zucharo”, “Fossa del sale”. Il giro dura tutto il giorno mentre da Novi arriva soltanto un messaggio di quel Podestà, che si scusa perché “venire non potuerat ob defectu equorum”. Un scusa risibile da un posto dove ci sono più cavalli che uomini. Comunque si rimanda tutto al lunedì seguente quando si comincia a piantare sul terreno i picchetti costituiti da “monticellos, terminos, fossatos”. A un certo punto Figino fa sotterrare anche un pietrone, “ibi perpetuo remansurum”, che servirà ad indicare “semper” la “Fossa del sale” di Tortona. Sarebbe interessante verificare oggi se almeno questo “termine” così massiccio è rimasto ancora sul posto. In totale sono 22 i termini piazzati sul terreno.

I Tortonesi sono accorsi in massa a godersi la propria vittoria: il documento cita infatti una ventina di “nobiles viri” ed altrettanti popolani. Lunedì 9 dicembre Figino è di nuovo “in Frascheto terdonensi pro continuazione possessionis” . Consegna ancora ai tortonesi i tre mulini ad acqua compresi nei nuovi confini, percorre con loro la strada Novasca fino alla Fossa del sale ed affida allo stuolo di tortonesi che lo seguono i vari “termini” che ha fatto fissare sul terreno. Per rendere più evidente la consegna, secondo un’usanza prevista dalla legge, strappa ciuffi d’erba e fronde d’albero qua e là e li porge ai rappresentanti tortonesi che se le cacciano in tasca. L’elenco dei loro nomi è lungo due pagine e rappresenta tutta la Tortona che conta. Ma essi non sospettano nemmeno che, fra pochi mesi, la Tassa cavalli imposta alla loro città sarà aumentata da 42 a 50 cavalli proprio per via di quell’ampliamento territoriale ottenuto a danno di Novi.

Soltanto nel pomeriggio  si fa vivo il vice podestà di Novi, Antonio Portinari, insieme ad alcuni novesi che cercano di intervenire, ma vengono ammoniti affinché “patientiam prestarent” cioè non diano fastidio. Gli ordini scritti vengono poi inchiodati alle porte dei vari mulini e della Bettola costruita dai Novesi là dove nel 1457 gli era stata già demolita una Torre indebitamente eretta.

Troppo tardi arriva una supplica[lxxxiv] di Bartolomea e Battistino che lamentano “l’eccesso fatto dai Tortonesi nell’eseguire la sentenza di Ziliolo [Oldoini] contro gli uomini di Novi, che è stato grandissimo”, e promettono al Duca che “faranno fare un presente a Vostra Eccellenza dagli uomini di Novi e sarà opera pia, perché quattrocento donne perdono la loro dote quando [se] essi Bartolomea e Battistino dovessero” pagare di loro tasca “per l’impotenza di quegli uomini” a mettere insieme i soldi della multa. In sostanza i due Fregoso vogliono far capire che se toccherà a loro pagare la multa che i Novesi non sono in grado di versare, dovrebbero  ricorrere ad un loro fondo, riservato ad offrire una dote alle ragazze povere di Novi. Un gruppo di 54 Novesi dovrebbe accettare[lxxxv] di “pagare 1000 ducati d’oro per certo insulto che loro fecero contro quelli di Tortona”. Invece poi verranno perdonati[lxxxvi] di quella scorreria fatta l’anno precedente contro i Tortonesi: “Per la singolare fede e devozione che hanno sempre dimostrato madonna Bartolomea e Battista, suo figliolo e nostro Cameriere[lxxxvii], verso Noi e lo Stato nostro”, scrive il Duca, “gli abbiamo rimesso l’imputazione data ai suoi uomini di Novi e a loro. Vi commettiamo che ai Campofregoso e ai loro uomini di Novi non diate più molestia ma cassiate ogni processo e condanna in modo che per l’avvenire non abbiano a riceverne alcun impaccio”.

 

Un utile riassunto della vicenda

Della “Strada Regia tendente da Tortona a Serravalle” sulla sponda sinistra della Scrivia si riparlerà ancora nel 1641 quando “il Capitano di Novi” (ormai divenuta genovese da un secolo) si arroga il diritto di andare a ispezionare un cadavere trovato su quella strada. Fra i tanti documenti tirati fuori dall’amministrazione spagnola di Milano in questa occasione (e che servono da riassunto) ci sono:

1441: Il Vicario generale di Facino Cane, allora “Tirannus civitatis Terdone” decide che il diritto di pedaggio spetta ai Tortonesi.

1451: Bartolomeo Sanseverino, incaricato da Francesco Sforza di esaminare il problema di una Torre edificata dai Novesi su quella strada, dichiara che quella Torre è abusiva come il pedaggio che vi si riscuote.

1461: Una nuova lite sui confini della Frascheta. Il Vicario generale GianBassiano de Micoli stabilisce un compromesso fra 4 novesi e 4 tortonesi.

1463: Lo stesso Micoli emette un lodo che conferma come la strada Tortona- Serravalle “remanere debet liberam” e nessuno può costruirvi torri o fortilizi.

1467: Il lodo Micoli viene dichiarato illegittimo.

1469: Il Podestà di Alessandria dichiara che alla Torre ricostruita “a privatis personis” al posto di quella abbattuta dai Tortonesi non si può riscuotere “nullum datium nec pedagium”.

1471: Egidiolo Oldoini emette la sentenza finale a favore dei Tortonesi.

(Archivio di Stato di Tortino, Confini con Genova, Provincia di Tortona, Mazzo 3. Tortona, 10 marzo 1641).

 

 

NOTE

[i] ) ASMi Sforzesco 925. Milano, anno 1474. Gli vengono assegnati “bocche 4, cavalli 4” ed un appannaggio di 300 ducati “oltre il suo Castello” e avrà come compagni ragazzi delle famiglie-bene Caracciolo, Malvezzi, Pappacoda, Beccaria, Strozzi.

[ii] ) Da Venezia si segnala che “l’Arcivescovo è giunto lì e richiedeva 16 galee e 500 fanti, offrendo di far rivoltare Genova”. Carteggio degli Oratori mantovani alla Corte sforzesca VII, Milano, 22 ottobre 1467

[iii] ) Archivio di Stato di Milano (d’ora in avanti ASMi), Sforzesco 426. Milano, 4 giugno 1466.

[iv] ) Il gualdo era un’erba tintoria coltivata ampiamente attorno a Tortona e Alessandria. Vedi I. Cammarata, Oro Blu, Voghera 2000.

[v] ) ASMi Missive 83. Abbiate, 7 aprile 1468.

[vi] ) ASMi Sforzesco 433. Novi, 27 aprile 1468. Questo Guglielmino Bianchi da Novi ricompare sulla scena nel 1471 quando, arruolato nelle guardie ducali, sequestrerà ad un monaco dell’Abbazia di Rivalta un carico di grano che stava trasportando abusivamente per conto del tortonese Giovanni Montemerlo (ASMi Missive 101 e Sforzesco 899, maggio 1471).

[vii] ) ASMi Sforzesco 434. Novi, 20 maggio 1468.

[viii] ) ASMi Sforzesco 434. Novi, 3 giugno 1468.

[ix] ) ASMi Sforzesco 434. Novi, 15 giugno 1468.

[x] ) Novinostra anno L, dicembre  2010.

[xi] ) ASMi Missive 83. Pavia 24 giugno 1468.

[xii] ) ASMi Sforzesco 434. Novi, 29 giugno 1468. Uno dei tre era il tortonese Giovanni Montemerlo.

[xiii] ) ASMi Missive 83. Alessandria, 29 giugno 1468.

[xiv] ) ASMi Sforzesco 1463. Novi, 30 giugno 1468.

[xv] ) ASMi Sforzesco 434. Novi, 30 giugno 1468.

[xvi] ) ASMi Sforzesco 885 nonché Missive 84. Pavia, 30 luglio 1468.

[xvii] ) ASMi Sforzesco 435. Novi, 3 agosto 1468.

[xviii] ) ASMi Sforzesco 435. Genova, 6 agosto 1468.

[xix] ) ASMi Sforzesco 885. Milano, 9 agosto 1468.

[xx] ) Vedi Novinostra LII, Dicembre 2012.

[xxi] ) ASMi Missive 84. Monza, 15 agosto 1468.

[xxii] ) ASMi Sforzesco 886. Monza, 1 settembre 1468.

[xxiii] ) ASMi Sforzesco 322. Reggio Emilia, 9 settembre 1468.

[xxiv] ) I.Cammarata, Terre di mezzo, Voghera 2006. Nel 1463 l’Arcivescovo aveva chiesto al Papa “la dispensa di matrimonio che gli bisognarìa perché ha maritato una figliola del fu Pietro, suo fratello, in Martinetto Fregoso (ASMi Sforzesco 54. Milano, 26 gennaio 1463).

[xxv] ) ASMi Sforzesco 435. Novi, 7 ottobre 1468.

[xxvi] ) ASMi Missive 82. Milano, 27 ottobre 1468.

[xxvii] ) ASMi Sforzesco 776. Vigevano, 27 febbraio 1469.

[xxviii] ) ASMi Missive 94. Vigevano, 2 marzo 1469.

[xxix] ) ASMi Sforzesco 888. Milano, 25 marzo 1469.

[xxx] ) ASMi Missive 93. Abbiate, 16 giugno 1469.

[xxxi] ) ASMi Missive 88. Monza, 12 agosto 1469.

[xxxii] ) ASMi Sforzesco 438. Novi, 18 agosto 1469.

[xxxiii] ) ASMi Sforzesco 776. Bosco, 25 agosto 1469.

[xxxiv] ) ASMi Sforzesco 438. Novi, 30 agosto 1469.

[xxxv] ) ASMi Sforzesco 438. Milano, 14 settembre 1469.

[xxxvi] ) Il tratto del Po da Sale fino a Ferrara era trafficatissimo e vi si svolgeva un servizio giornaliero a pagamento.

[xxxvii] ) I.Cammarata, Nel segno del Gatto. Vita spericolata di IbletoFieschi. Varzi 2007.

[xxxviii] ) ASMi Sforzesco 439. Milano, 20 novembre 1469.

[xxxix] ) ASMi Missive 91. Vigevano, 2 dicembre 1469.

[xl] ) ASMi Sforzesco 322. Ferrara, 12 dicembre 1469.

[xli] ) ASMi Missive 87. Vigevano, 17 dicembre 1469.

[xlii] ) ASMi Sforzesco 439. Novi, 24 febbraio 1470.

[xliii] ) ASMi Sforzesco 1536 nonché Registri Ducali 19. Milano, 20 marzo 1470.

[xliv] ) ASMi Sforzesco 440. Chiavari, 26 aprile 1470.

[xlv] ) ASMi Sforzesco 66. Pavia, 2 maggio 1470.

[xlvi] ) ASMi Sforzesco 440. Genova, 12 maggio 1470.

[xlvii] ) ASMi Sforzesco 440. Genova, 9 luglio 1470.

[xlviii] )  ASMi Sforzesco 894. Milano, 17 agosto 1470.

[xlix] ) ASMi Frammenti missive 5/LXXXIV. Parma, 19 settembre 1470.

[l] ) ASMi Sforzesco 321. Mirandola, 2 dicembre 1470.

[li] ) ASMi Missive 98. Pavia, 10 dicembre 1470.

[lii] ) ASMi Missive 98. Monza, 7 gennaio 1471.

[liii] ) ASMi Missive 98. Vigevano, 17 febbraio 1471.

[liv] ) ASMi Sforzesco 443. Genova, 30 maggio 1471.

[lv] ) ASMi Missive 93. Castelleone, 4 settembre 1471.

[lvi] ) ASMi Missive 102. Galliate, 27 settembre 1471.

[lvii] ) ASTorino. Tortonese, confini con Genova, mazzo 1. Tortona, 12 aprile 1458.

[lviii] ) ASMi Sforzesco 772. Tortona, 30 settembre 1471.

[lix] ) La Torre della discordia in Novinostra anno XLIII, dicembre 2003.

[lx] ) ASMi Comuni 82. Senza indicazione di luogo e di data.

[lxi] ) ASMi Comuni 82. Tortona, senza data.

[lxii] ) ASMi Comuni 82. Milano, senza data.

[lxiii] ) ASMi Sforzesco 901. Milano, 7 ottobre 1471.

[lxiv] ) Una lettera da Tortona informava il Duca così: “Oggi siamo stati molti cittadini sul luogo della differenza nostra con la Comunità di Novi insieme con GianBassiano da Lodi il quale ha chiaramente conosciuto questa città avere ragione nella proprietà ma per molto tempo essere stata usurpata dagli uomini di Novi” (ASMi Sforzesco 770, Tortona, 11 novembre 1462). Poi una lettera dello stesso GianBassiano Micoli precisava però “che le proprietà delle quali si fa questione, quanto al diretto dominio, sono della città di Tortona sì per vigore dei loro privilegi imperiali come per vigore di una compera da loro fatta dall’allora Marchese di Monferrato l’anno 1232. Quelli di Novi facendo questione con quelli di Pozzolo hanno ottenuto due sentenze in loro favore, una data da messer Bonazonta, allora arbitro fra Novi e Pozzolo nel 1420, e l’altra da Gerolamo da Forlì, allora Capitano del divieto e delegato del Duca FilippoMaria Visconti nel 1435. Or queste sentenze non fanno alcun pregiudizio ai Tortonesi perché loro mai non sono citati in tali giudizi. Sicché per quanto riguarda il dominio diretto, la ragione è chiara in favore dei Tortonesi ma per rispetto al possesso paiono avere miglior ragione quelli di Novi perché hanno provato dinnanzi a me di avere posseduto questi beni per 40 anni e alcuni testimoni dicono per 50. Concludendo brevemente, a me pare che il diretto dominio sia dei Tortonesi e l’utili demonio sarebbe di quelli di Novi  (ASMi Sforzesco 770. Tortona, 11 gennaio 1463).

[lxv] ) ASMi Sforzesco 915. Vigevano, 19 novembre 1473.

[lxvi] ) ASMi Comuni 62. Novi, senza data.

[lxvii] ) ASMi Comuni 62. Novi, senza data.

[lxviii] ) ASMi Sforzesco 772. Tortona, 22 ottobre 1471.

[lxix] ) ASMI Missive 99. Cassine, 30 ottobre 1471.

[lxx] ) ASMI Missive 99. Cassine, 30 ottobre 1471.

[lxxi] ) ASMi Sforzesco 772. Tortona, 6 novembre 1471.

[lxxii] ) ASMi Sforzesco 772. Tortona, 13 novembre 1471.

[lxxiii] ) ASMi Missive 99. Vigevano, 15 novembre 1471.

[lxxiv] ) ASMi Comuni 62. Novi, senza indicazione di data.

[lxxv] ) ASMi Sforzesco 902. Milano, 16 novembre 1471.

[lxxvi] ) ASMi Sforzesco 772. Tortona, 20 novembre 1471.

[lxxvii] ) ASMi Sforzesco 772. Tortona, 22 novembre 1471.

[lxxviii] ) ASMi Sforzesco 772. Tortona, 23 novembre 1471.

[lxxix] ) ASMi Missive 99. Vigevano, 29 novembre 1471.

[lxxx] ) ASMi Sforzesco 902. Milano, 29 novembre 1471.

[lxxxi] ) ASMi Sforzesco 772. Tortona, 3 dicembre 1471.

[lxxxii] ) ASMI Sforzesco 902. Castel Delfino, 6 dicembre 1471.

[lxxxiii] ) Archivio di Stato di Torino, Confini con Genova-Tortonese, mazzo 1. Milano, 5 dicembre 1471.

[lxxxiv] ) ASMi Comuni 37. Novi, senza indicazione di data.

[lxxxv] ) ASMi Sforzesco 904. Milano, 27 aprile 1472.

[lxxxvi] ) ASMi Missive 104. Pavia, 24 giugno 1472.

[lxxxvii] ) Si intenda cameriere ducale cioè aiutante di camera del Duca.

 

 

 


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