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La Pieve

Nel Cinquantenario della Parrocchia della PIEVE

 Cinquant’anni or sono S.E. Monsignor Simon Pietro Grassi, Vescovo di Tortona, elevava a Parrocchia la vetusta chiesa di Nostra Signora Beata Vergine dell’Assunta, detta Pieve di Novi.

     In occasione del cinquantenario la Società Storica Novese, certa di fare cosa gradita al Parroco, ai parrocchiani della Pieve e a tutti i Novesi che all’antica chiesetta sono sempre stati particolarmente affezionati, pubblica la versione del decreto Vescovile che in data 13 dicembre 1919 sanzionava tale elevazione.

     La Società Storica del Novese, ricordando ancora una volta a tutti la Pieve come monumento nazionale per la sua notevole importanza storica, intende anche esortare alla generosità quanti hanno a cuore le sorti della Chiesetta che, come Parrocchia, attende dalla sensibilità di tutti coloro che le vogliono bene un aiuto tangibile e concreto in modo da poter far fronte alle molte esigenze che la vita parrocchiale comporta.

Simon Pietro Grassi

Per grazia di Dio e della Sede Apostolica

Vescovo di Tortona

e Principe di Cambiò

     Nel nome della Santa e Individua Trinità Padre, Figliulo e Spirito Santo. Così sia.

     L’anno della Redenzione mille novecento diciannove, alli tredici del mese di Dicembre, del Pontificato di N. S. Papa Benedetto XV e del Nostro Episcopato anno V. E’ cosa per noi gioconda ripristinare secondo l’opportunità dei tempi nel loro decorso quelle chiese della Nostra Diocesi che primeggiano per antichità e dignità. Orbene la chiesa della Beata Vergine Maria Assunta in Cielo, situata nei sobborghi di Novi Ligure, va certo noverata tra le più antiche della Diocesi di Tortona, come può convincersene chiunque la guardi  e dal nome di Pieve, che ha ritenuto sino ai nostri giorni: erano infatti le Pievi quelle chiese antichissime, le quali, dopo data la pace alla Chiesa dall’imperatore Costantino e cresciuto il numero dei cristiani, furono costituite nei luoghi distanti dalla Sede Vescovile, chiamate anche chiese battesimali, perché ad esse bisognava recarsi da tutta la plebania per ricevere il battesimo, finché nel secolo XII invalse il costume di amministrare il battesimo anche nelle cappelle o parrocchie minori, ma con l’acqua battesimale , che nei Sabati di Pasqua e di Pentecoste si benediceva nella chiesa pievana; il rettore di questa chiesa veniva chiamato Arciprete, o Pievano; ed egli presiedeva al clero di tutta la Pievania.

Dal che rilevasi facilmente che la chiesa prefata della B. Vergine Maria Assunta in Cielo è stata anticamente la prima e l’unica chiesa battesimale a capo delle chiese della pievania di Novi.

Ora essendo avvenuto che per le guerre frequenti e per le intestine discordie non vi era più sicurezza e perciò gi abitanti della campagna si rifugiarono dentro i recinti del castello e delle città per mettersi al sicuro dalle incursioni dei nemici, quelle chiese pievane, che si trovavano in campagna aperta , a poco a poco vennero abbandonate; il che avvenne pure della Pieve di Novi, di guisa che il titolo di Arciprete fu trasferito nella Chiesa Collegiata di S. Maria situata dentro le mura, e nella chiesa pievana cessarono le sacre funzioni, come consta dagli atti della Visita Apostolica fatta nel mese di Agosto 1576 da Mons. Gerolamo Ragazzone (Vescovo di Famagosta dell’Isola di Cipro e poi trasferito a Bergamo). Nei quali atti dove si parla di Novi, sta scritto della Chiesa fuori dalla terra già Pieve, chiamata S. Maria d’Arzere: <S’accomodi et serri questa Chiesa et orni convenevolmente. Il che come prima sia fatto, a iudicio di Monsignor Ordinario si possa in essa celebrare et condurvi la processione come si solea fare anticamente>.

Ma ritornata la tranquillità si cominciò a riedificare case in campagna e, crescendo il numero di coloro che abitano in villa, era da provvedere ai loro bisogni spirituali; il che fu fatto dal Nostro Predecessore Mons. Igino Bandi. Imperocché alla istanza degli abitanti della regione Frascheta nel territorio della parrocchia di S. Pietro di Novi Ligure che la ciesa di B. Vergine Assunta in Cielo, volgarmente la <Pieve> ivi esistente fosse eretta in Parrocchiale, e sotto condizione di tale erezione donatasi dalla munifica signora Maria Fabiani la somma di L.10.000 italiane per dote della erigenda parrocchia a completamento della somma che ogni anno si sborsa dal Comune della Città di Novi per la conservazione e  l’esercizio del culto della prefata  Chiesa dalla Pieve, giusta la convenzione stipulatasi alli 20 Novembre 1869 dal Sindaco del Comune e L’Amministrazione Generale del Fondo per il Culto, con istrumento rogato dal R. Notaio Nicola Costantino Fermo Ricci, non essendo ancora sufficiente la dote per erigere la Parrocchia finché non venisse aumentata, il prefato Nostro Predecessore eresse la prefata Chiesa della B. Vergine Maria Assunta in Cielo, detta volgarmente <la Pieve>, in succursale della Chiesa Parrocchiale di S. Pietro di Novi, con decreto del 28 Febbraio 1913, con facoltà al  Rettore Curato pro tempore di amministrare ivi i Sacramenti e di fare tutto il resto che spetta a un vero Parroco e alla stessa Chiesa Succursale segnò i suoi confini.

E affinché la prefata Chiesa, volgarmente <la Pieve>, venga eretta finalmente in parrocchiale, dal Rettore della medesima Mons. Rev. Don Giuseppe Carrega venne offerta la somma di italiane L.3.000 e una pezza di terra, coerente alla piazza di essa chiesa, della superficie di quattro pertiche del valore di L.4.000 in aumento di dote.

Visto pertanto il consenso dato dal Rev.mo Capitolo della Nostra Chiesa Cattedrale alla erezione in parrocchiale della prefata Chiesa succursale;

Noi a norma del canone 1427 del Codice di Diritto Canonico e invocato il SS.mo Nome di Gesù Cristo Signor Nostro e della B. Vergine Immacolata; d’autorità Nostra Ordinaria e in ogni altro miglior modo col presente decreto dividiamo e smembriamo del tutto dalla parrocchia di S. Pietro di Novi la Chiesa di Beata Vergine Maria Assunta in Cielo , volgarmente <la Pieve>, situata nei sobborghi della città di Novi Ligure; ne la erigiamo e costituiamo in Parrocchiale e come eretta e costituita la vogliamo e dichiariamo, di guisa che concediamo alla medesima tutti i diritti e privilegi che di diritto competono alle chiese parrocchiali.

I confini della nuova parrocchia saranno i medesimi che vennero fissati dal Nostro Predecessore nel citato decreto delli 28 febbraio 1913.

Esoneriamo il parroco dall’ossequio verso le chiese di S. Pietro e della Collegiata di S. Maria stabilito nel decreto del 28 febbraio 1913 non essendo decoroso che quella chiesa, la quale è stata madre delle altre, sia in alcun modo soggetta alle medesime; e togliamo al rettore della Collegiata il diritto di fare la funzione dell’Ottava di Pasqua nella chiesa parrocchiale nuovamente eretta per la stessa ragione.

Rinnovando l’antica denominazione, la chiesa della B. Vergine Maria Assunta in Cielo, volgarmente < la Pieve>, si chiamerà Arcipretura senza però alcuna preminenza sulle chiese dell’antica pievania, e il Rettore di essa Arciprete.

Vogliamo e sanzioniamo che queste cose abbiano valore in perpetuo.

Dato in Tortona nell’anno, mese e giorno come sopra.

                        All’originale firmato: SIMON PIETRO vescovo.

                        Controfirmato: Can. VINCENZO LEGE’ Canc. Vescovile.

Articolo tratto da Novinostra n.3 – 1963 di Nilde Cima


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Francesco e Nicolò Girardengo

PICCOLA GALLERIA NOVESE

 Non tutti i residenti a Novi che passano in via Girardengo sanno chi sia il personaggio che dà nome ad una via tanto importante per la città da essere considerata la <nobile> tra le vie, un po’ come, fatte le dovute proporzioni, la celeberrima via Veneto di Roma e la non meno famosa via Montenapoleone di Milano.

     Quattro passi i Novesi vanno a farli in via Girardengo, altrimenti la passeggiata non avrebbe senso, così pure, se si devono incontrare degli amici, l’appuntamento è fissato senza altro in via Girardengo. La domenica poi la via Girardengo è gremita di folla vestita a festa che, quasi sfilasse su una passerella di alta moda, va con sussiego e contegno in <su> verso piazza Collegiata, e in <giù> verso porta Pozzolo; poi ancora in <su>, verso le falde del glorioso <Castello> e in <giù> verso l’aprirsi della vasta pianura padana: con un po’ di fantasia si potrebbe pensare che la via Girardengo, tagliando in due la <vecchia Novi> , congiunga idealmente  i lembi marginali del boscoso Appennino e della fertile pianura del Po.

     Ma quanti tra gli abitanti frequentatori di via Girardengo saprebbero dire chi è il Girardengo cui è intitolata la via? La maggior parte probabilmente è convinta che si tratti del campione del pedale, Comm. Costante, di cui Novi vanta i natali e che ha entusiasmato con le sue ben note imprese ciclistiche tutto il mondo sportivo.

     Ma sulla tavola marmorea della via il nome non è Costante, bensì Nicolò, sotto il quale sono riportate più in piccolo la qualifica di <tipografo> e una data in cui certamente le biciclette non si sapeva ancora che cosa fossero. Non si hanno notizie biografiche sicure su Nicolò Girardengo, si sa tuttavia che fu affiancato nella sua attività di tipografo da un Francesco Girardengo, con ogni probabilità suo fratello, e che entrambi dal 1479 fin verso la fine del secolo prestarono la loro opera successivamente nelle tipografie di Pavia, di Venezia, di Genova e, in proprio, in quel di Novi, associandosi nel loro lavoro ad altri tipografi come Antonio Carcano di Milano e Fra Cavallo Carmelita.  

     Erano tempi quelli in cui l’arte tipografica era ai suoi primi passi e in alcune città italiane, come Subiaco, Roma, Venezia, Milano, Pavia, Genova, e nella nostra piccola Novi, iniziavano la loro prima attività le prime rudimentali tipografie sotto la guida di appassionati pionieri.

     Da Nicolò Giuliani, autore di <Notizie sulla tipografia ligure sino al tutto il secolo XVI>, si apprende che in data 22 luglio 1490 a Venezia fu finito di stampare un Breviarium romanorum per Nicolaum Girardengum, registrato dal duca Cassano Serra come un <bell’ esemplare impresso su pergamena con eleganti miniature>.

     Sempre secondo il Giuliani, contemporaneamente a Nicolò appare un Francesco Girardengo che pubblicò parecchie opere in Pavia e in Venezia, tra cui <Pontani Ludovici consilia> del marzo 1485, <Nicolai Siculi Lectura> dell’aprile 1486 e, soprattutto una <Summa Baptistiniana> dell’aprile 1489, che il Capurro afferma accresciuta rispetto a quella di Nicolò stampata a Novi nel 1484. Anche il Giuliani conferma l’asserto del Capurro scrivendo che Nicolò pubblicò nel 1484 la <Summa Baptistiniana> della quale si hanno parecchi esemplari qui in Genova>. Una copia si trova nella Biblioteca Civica di Novi ed un altro esemplare sembra si trovi nel Museo Storico di Londra.

     Il Prof. Gian Franco Capurro, sotto lo pseudonimo <Giovanni da Novi>, pubblicò nel 1850 sul giornale <Il Provveditore di Novi> delle osservazioni su Nicolò Girardengo riportando, tra le altre cose, i quindici versi latini le cui lettere iniziali formano l’acrostico <Baptista de Salis>, il frate autore della <Summa Baptistiniana>.

     In Venezia Nicolò stampò altri libri, tra i quali i <Fioretti di San Francesco> nel 1480 e il < Breviarium  secundum consetuetudinem Romanae Curiae>nel 1481, tenendo con molto onore il campo negli annali della tipografia veneziana e lombarda.

     E’ giusto quindi che la via principale della nostra città sia intitolata a Nicolò Girardengo perché così si ricorda e si onora degnamente il più famoso dei nostri due concittadini che cinquecento anni orsono si distinsero nella nascente arte tipografica e tennero alto il buon nome della nostra Novi.

                                                                           Carlomagno Parodi

Articolo tratto da Novinostra n.1 – 1963


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Pietro Lagostena – colloquio

 Quattro chiacchiere con lo scultore

                Cav. Pietro Lagostena

     Alla <Porta Genova>, sotto l’ombra del campanile di Sant’Andrea, nella casa del nonno < Fachetnabi>, nasceva, il 16 maggio 1877, Pietro Lagostena. Nella calma serena di Novi di fine ottocento trascorse i primi anni della sua infanzia, correndo in frotta con i suoi coetanei negli angusti e famigliari viottoli che si aprivano di botto sulle antiche mura prospicenti la <Faiteria> e la collina della <Perassa>.

Venne poi l’età degli studi ed il piccolo Pietro fu convittore prima a Sarzana nel collegio dei Somaschi, quindi studente ginnasiale nel nostro Collegio San Giorgio. Le sue spiccate attitudini al disegno e all’arte fecero sì che a sedici anni si iscrivesse all’Accademia <Ligustica> in Genova, a poco più di vent’anni frequentasse la <Scuola del Nudo> in via Ripetta a Roma e, successivamente, l’Accademia di Firenze.

     A venticinque anni sposò l signorina Rachele Montarsolo di Genova e si stabilì nella sua città natale fissando dapprima la sua dimora in via Cavour (angolo via Girardengo), dove attualmente ha la sede il Banco di Roma, poi in via Pietro Isola. Nel frattempo avviò un operoso laboratorio di marmi e scultura. Dopo pochi anni, per svincolarsi dalle noiose discussioni economiche e dagli stucchevoli legami contrattuali, chiuse il laboratorio e tenne aperto uno studio privato, continuando la sua intensa attività artistica ed insegnando per sei anni nella Scuola d’Arte e mestieri di Alessandria. Conosciuto ed apprezzato come artista, fu poi più volte chiamato lontano dalla sua città: tra l’altro fu ospite nella Villa dei Signori Demicheli a Galliera Veneta (Padova); affrescò a Olgiate Molgora (Milano) la villa del Marchese Sommi Picenardi, presidente del Veloclub d’Italia; venne spesso invitato da nobili famiglie genovesi ad affrescare palazzi sontuosi, a congegnare pregiati cofanetti e portagioie, a disegnare efficaci caricature, a modellare busti e gruppi in marmo ed in gesso.

     Si dimostrò sempre all’altezza della stima che giustamente gli veniva concessa, animato da un’indomabile passione, da un’erompente carica di dinamismo e da un genuino desiderio di libertà d’espressione artistica che lo resero un ecclettico, al punto che scherzosamente l’Ingegner Guerci di Alessandria, in una lettera spedita al caro amico Pietro, indirizzava <al falegname, al fabbro, al muratore Lagostena> 

      Ora il Lagostena, presidente onorario della Società Storica del Novese, ha compiuto da poco ottantacinque anni, ma continua, con lo stesso immutato ardore giovanile e con una ferrea volontà, alimentata dalla vivida fiamma della passione, la sua estrosa attività perfezionata da una lunga esperienza e da una felice ispirazione che ha conservato la zampillante freschezza degli anni verdi.

     E con briosità giovanile ci ha accolti pochi giorni or sono quando, recatici da Lui per ammirare il suo studio – laboratorio, abbiamo ascoltato dalla sua viva voce la presentazione delle sue numerosissime opere, i ricordi lasciati in Lui dalla lunga esperienza di vita e le opinioni sui giovani artisti del nostro tempo.

     <Quali sono i lavori che lei ritiene più importanti e più significativi?>

     I lavori per l’arista sono tutti belli, sono gli altri che ci devono dire se sono veramente ben riusciti. Comunque tra i lavori che più mi hanno dato soddisfazione ricordo il busto in marmo di Mariano Dellepiane che si trova nell’atrio dell’Ospedale San Giacomo; lo avevo rifinito con paziente meticolosità e avrei voluti che lo ponessero sulla sua colonna all’altezza di un metro e mezzo circa, proprio perché si potessero vedere i minuti particolari delle rifiniture stesse; invece fu posto, con mio comprensibile disappunto ad una altezza di circa quattro metri.  Nel cimitero di Novi poi sono molteplici le mie opere: citerò soltanto le cappelle delle famiglie Rebora, Bassano, Bovone, Mantero, Foggi, Cattaneo, la <Pietà> nelle cappelle delle famiglie Cavanna e Parodi, e tre tombe con la Crocifissione la Morte e la Resurrezione. Anche a Genova nel cimitero di Staglieno, portico Montini, ho alcuni miei lavori che hanno riscosso i favorevoli consensi di autorevoli persone competenti. A Galliera Veneta ho scolpito, in pietra dei Colli Berici, il monumento alla Quarta Armata; esso raffigura la Vittoria che protegge la resistenza dei vecchi e stanchi soldati sul Piave e che guida l’avanzata degli animosi giovani del ’99 dopo Caporetto; fissato nel basamento del monumento stesso c’è il medaglione in bronzo del Generale Giardino, comandante dell’Armata del Grappa e presente all’inaugurazione.

     Nel 1922 alla Fiera di Milano mi fu affidato il compito non facile di preparare il padiglione dell’Abruzzo che fu ultimato prima di tutti gli altri. Mancavano pochi giorni all’apertura inaugurale della Fiera ed il padiglione della Mostra sembrava essere ancora in alto mare; allora presi l’iniziativa, mi feci regista e <factotum>, mi rimboccai, come si suol dire, le maniche e mi tuffai nell’ardua impresa: poche ore prima della cerimonia di apertura tutto era a posto e sistemato. Le Autorità si congratularono con me… ma che momenti! … L’anno successivo eseguii nel giro di due mesi tutti i lavori di architettura e di decorazione dell’Esposizione di Castellamare Adriatico. Molti altri ricordi si affollano nella mia mente, ma vi menzionerò soltanto per brevità il Monumento ai Caduti eretto a Pozzolo Formigaro, i busti in marno nell’Asilo di Casa Borsalino, nel Sanatorio, nella Casa di Riposo, il nudo mutilato nella Casa dei mutilati di Alessandria e il monumento dei Mirabello posto all’ingresso dell’Ospedale di Tortona.

     Tanto per finire citerò l’altare col gruppo di S. G. Bosco; ma ancora molto potrei aggiungere; dirò soltanto che per l’albergo Corona ho progettato, disegnato, ricreato con artigiani novesi mobili e ferri battuti.

     <Abbiamo notato che la sua casa, tanto all’interno quanto all’esterno, ha una caratteristica tutta sua e che è un po’ una mostra dei suoi lavori di indubbio pregio. Che cosa ci può dire in proposito? >

     Io ho un po’ la mania della casa che per me è una specie di sacrario; la mia casa rispecchia in un certo senso il mio linguaggio artistico: l’ho costruita, l’ho ritoccata e rinfrescata con lo stesso amore con cui un bambino coccola il suo giocattolo preferito. Per lei ho sempre avuto un culto profondo e da lei mi sono staccato, ogni volta che ne fui, per così dire, costretto, molto a malincuore. Pensate che nel 1906, in seguito ad un bozzetto in concorso, venne a Novi il console di Montevideo per convincermi ad accettare la carica di direttore di una scuola della capitale uruguaiana: ebbene non accettai per rimanere a Novi.

     Qui nel mio studio vedete ora molti lavori: lì è un gruppo di gesso di fedeli raccolti intorno a Pio XII benedicente; quella è la Madonna degli Angeli che protegge col suo materno manto due fanciulli e che porta in braccio il Bambino. E poi ecco i ritratti dei miei genitori, dei miei fratelli, teste e busti di amici. Quello lassù è il bassorilievo fatto nel 1900 per l’Esposizione di Parigi; fu mandato all’Accademia e ricevetti una lettera di elogio e d’incoraggiamento dal ministro della Pubblica Istruzione. Poi ancora vedete là la statuetta di San Bartolomeo, il gruppo di pescatori, il partigiano, il soldato tedesco, il soldato inglese nelle tipiche divise dell’ultimo conflitto mondiale.

     <Ha conosciuto artisti della sua epoca e del primo novecento?>

     In primo luogo ricorderò i miei ottimi insegnanti Sansebastiano e Viazzi, ai quali debbo molto; poi il coetaneo Giovanni Prini, deceduto nel marzo di quest’anno,  lo scrittore genovese Pasciutti; il pittore futurista Balla che attraversò critici momenti di ristrettezze economiche ; il pittore Mussini, fattosi frate per delusione amorosa; il vispo caricaturista Sacchetti che a Firenze frequentò con me l’Accademia; mi piace ricordare lo scrittore e poeta Giovanni Papini che nel caffè <Gambrimus> di Firenze sostenne con me vivaci discussioni sull’arte dello scultore francese Rodin in voga e di moda. A Roma infine, socio effettivo dell’Artistica Internazionale, nel 1901 conobbi vecchi e giovani artisti tutti <lottatori> per le nuove tendenze; Direttore di turno era il conterraneo Giulio Monteverde.

     <Che cosa pensa degli artisti moderni?>

     Non ho molto da dire e non vorrei essere troppo severo nel mio giudizio: noi certi lavori li mettevamo in soffitta. La mia critica è perciò poco lusinghiera e piuttosto negativa.

.****.

     Quante cose ha detto e confidato il Cav. Lagostena! Forse avremmo indovinato se avessimo portato un nastro di registrazione per fissarle tutte senza lasciarcene sfuggire qualcuna.

     Ad ogni modo abbiamo capito che il nostro artista è più che mai intenzionato a continuare la sua attività a dispetto della considerevole età a che in lui sono ancora fortemente sentiti l’entusiasmo e lo slancio artistico che lo hanno reso tanto apprezzato.

     Accomiatatoci dal simpatico ospite, il nostro sguardo si è posato su una scritta murale situata nell’entrata dell’abitazione, che ci pare sintetizzi con molta efficacia l’essenziale dello spirito e del mondo del Lagostena:

     <Gli artisti sono uomini che precedono gli altri; vanno innanzi e additano il sentiero; si voltano indietro e si trovano soli … Questi grandi, questi infelici solitari …>.   (F. Cavallotti)

  RENATO GATTI

 (Articolo tratto da Novinostra anno 1963 n.3)  


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Storie di Porta Genova

L’invito     
VENE, SE TI PO’… Vieni. se puoi, può sembrare lì per lì la frase più banale di questo mondo, ma potrebbe riserbare invece amare sorprese qualora un bello spirito, giuocando non tanto sull’ambiguità del suo significato letterale, quanto e più ancora sul modo di pronunciarla, per esempio, indugiasse sul …SE TI PO’!

PICCOLA GALLERIA NOVESE

Questa frase ebbe un tempo il suo quarto d’ora di celebrità, e ne vedremo il motivo, a causa di una vicenda non a tutti nota nei suoi particolari, vicenda che ebbe origine tanti anni fa nell’antica Osteria del Moro, che come sappiamo, la Famiglia del Dini Perolo, all’insegna di una ricciuta testa di negro, gestiva nell’allora Via del Funghino.
Siccome rispecchia il senso umoristico di un’epoca, ci piace qui ricostruirla, riportandone alla ribalta personaggi ed ambienti che da tempo sono ormai scomparsi.
Via del Funghino? Domanderà qualcuno. Si chiamava proprio via del Funghino la strada che collega via Paolo da Novi a via Gramsci, cambiò in seguito la targa e divenne via Verri quale doveroso omaggio ad un venerato medico novese, per trasformarsi ancora negli ultimi anni nella odierna via Don Minzoni, però, anche se Osteria ed insegna siano da parecchio scomparsa, quella via era ed è ancora per moltissimi novesi: a contrò deé Moru.

(illustrazione di Pietro Lagostena)

  L’Osteria del Moro era dunque l’ambiente in cui i protagonisti della nostra storia si incontravano quasi tutti i giorni e se uno di essi, il Merlo, non ha bisogno di particolari presentazioni, perché egli è sempre quello del <Processo>, l’altro, invece, richiederà maggior attenzione da parte nostra, perché è appunto a causa dei suoi <deboli > che nacque il bisticcio che portò alla conclusione che vedremo.

     Quest’<altro> era un uomo dalla statura superiore alla media, tarchiato, faccia larga e sanguigna, baffi spioventi, collo taurino ben piantato sulle robuste spalle, per cui dimostrava essere persona ancora più energica e decisa malgrado avesse già oltrepassata la sessantina di qualche anno.

     Si chiamava Alignani di cognome, un parentado allora assai diffuso, però era meglio conosciuto come  <Fighiséin>, e ciò per il fatto di essere egli proprietario di un cascinotto che per le sue numerose piante di fico da cui era circondato , era detto, la <Fighisina>, una specie di bicocca posta sulla strada di Gavi poco fuori Porta Genova, ed egli abitava con la sua <Cesca>  sua legittima consorte, Fighisèin faceva di mestiere il sensale di bozzoli e granaglie, ma da giovane era stato in Russia con Napoleone, soldato di quella Armata d’Italia resasi famosa per la strenua difesa del Ponte sulla Beresina.

     Egli fu tra i pochi scampati e bisognava sentirlo quando raccontava le sue prodezze e le sue disavventure; comunque fosse, si sentiva fiero di aver appartenuto a quella gloriosa schiera di soldati che l’Imperatore chiamava suoi Eroi, ma che in pretto novese Fighiséin traduceva in Erùi!

     La medaglia di bronzo sormontata dalla corona imperiale che alla morte di Napoleone aveva ricevuto, la ostentava bene in vista appesa alla stanghetta della catena dell’orologio, quale segno tangibile della sua distinzione come vecchio <Grognard> dalla Grande Armée!! Ecco dove stava il suo maggior <debole>.

     Un’altra di queste piccole manie, di questi <deboli>, era dato dal fatto di chiamarsi Alignani, una casata cui si voleva discendesse dagli antichi Signori di Santa Maria degli Avignani, (2) uno dei presunti Nove Castelli che diedero origine alla nostra Città. Si sentiva quindi nientemeno che pronipote dei fondatori di Novi, roba da fargli gonfiare il petto solo a parlarne!

     Il Merlo che conosceva queste piccole <debolezze> di Fighiséin non osava, col suo spirito caustico, prenderlo direttamente a gabbo come era solito invece farlo con altri perché temeva la reazione piuttosto aspra di quest’ultimo, perciò le sue battutine le lanciava a debita distanza, in sordina, cercando di colpire il bersaglio solo di rimbalzo, soddisfaceva ugualmente il suo istinto che era quello di pungere a tutti i costi il prossimo.

     Quando al <Moro> per esempio, Maséin èè Carbunéin, noto cronista del <Carlo Alberto> rivolgendosi con l’indice teso verso Bughé intonava l’aria dell’allora famoso  duetto dell’ATTILA… <Dove l’eroe più valido è traditor spergiuro…> e quest’ultimo, nei panni di Ezio, sfoderando la sua squillante voce tenorile gli rispondeva fieramente … < Finché ad Ezio rimarrà la spada sarà salvo il gran nome romano…>, il nostro Fighiséin a quei sonori accenti si sentiva rinascere l’ardore dei vent’anni e, dimenandosi sulla sedia, non poteva trattenersi  dall’esclamare: I sènti cmè chi porla i’ erùi!

     Era allora che Merlo col suo fare scanzonato sommessamente mormorava al vicino del tavolo: Ti u sàinti èè fondatù id Nove? Erùi, erùi, saimpre erùi… ma u nu sà che a Nove, u vo di sbògli! L’erù d’Napulèon?! Ma l’erù d’Napuleuon l’è Lè, otru che eroe!!

     Naturalmente Fighisèin, non vivendo sulla luna conosceva perfettamente questi ed altri giochi di parole che il Merlo usava nei suoi riguardi, era logico quindi che ad un certo momento cercasse il mezzo migliore onde poterlo ripagare con la stessa moneta. Questo intento però egli voleva raggiungerlo con una trovata, da far epoca, che avrebbe dovuto far chiudere il becco al Merlo, definitivamente, almeno nei suoi riguardi. Non solo al <Moro> ma tutta Novi doveva riderne! Si trattava comunque di un compito non facile, il Merlo era una vecchia volpe, perciò occorreva circospezione ed astuzia e in questa occasione Fighisèin cercò di non essere inferiore all’avversario.

     Era noto che la ricorrenza di San Michele Arcangelo, Santo patrono degli Alignani, usasse richiamare nella Chiesa di San Pietro tutti i capi famiglia maschi della casata e come, dopo la Messa celebrata nella Cappella dedicata al Santo, questi si riunissero per la ripartizione dei redditi maturati su un antico lascito della casata stessa

     Si sapeva pure che Fighisèin per questa occasione era al solito offrire alla Fighisina, ai suoi piccoli nipoti ed ai cari amici, ciò che di meglio la sua Cesca era capace a sfoderare in fatto di arte gastronomica, perciò nulla di strano se la sera precedente il San Michele egli, al <Moro>, ne parlasse diffusamente con gli amici indugiando, con una certa compiacenza, a descriverne le pietanze.

    Ad un’estremità del tavolo ov’erano seduti, il Merlo ascoltava con occhi socchiusi da gatto soriano, mentre con i gomiti appoggiati sul tavolo, le mani sotto il mento sorreggevano la pipetta di gesso che nervosamente stringeva tra i denti, quando ad un tratto, con la massima naturalezza, Fighisèin gli si rivolge e…: Merlù ti u se che San Michè lé per mi na gran giurnò, vene anche ti a cà mè, a fèmu na bèla rigusia… (1) … ma, se ti pò!… naturalmàinte sulu se ti po’!.. t’è capì?!.

     Il Merlo che aveva inteso parlare di una sfilata di piatti uno più appetitoso dell’altro, pur sorpreso dall’inatteso invito, rimase per qualche istante esitante ma finì per cedere, e …bròv Fighisèin, a vénu propiu in cu piasài, ti mè dmàndi sa posu? …ma anche sa fusa sàinsa gambe!… e con questa frase l’accettazione fu completa.

    All’indomani, al giusto scoccare del mezzogiorno, il Merlo è alla Fighisina e … Toc, Toc… batte alla porta. Dalle fessure dell’uscio, invitante messaggero, traspira un vero odore <id tucu in cu i fonzi>… al nostro uomo si cominciano a dilatare le nari, lo stomaco avverte uno strano languore, mentre un moto involontario della gola gli provoca certi movimenti pregustatorii facilmente intuibili, perciò… Toc…Toc…con più impazienza! Dall’interno giungono rumori di passi e mormorii di voci … ma la porta rimane inspiegabilmente chiusa!

     Ad ud un tratto è invece una finestra del piano di sopra che si apre, e chièlu?… chiede affacciandosi Fighisèin … ah, te ti Merlu? bròvu, bròvu … te statu id parola, ven pura, ma se ti po!

Il Merlo che non ha ancora afferrato il vero senso della frase, obietta interdetto: Ma Fighisèin… se t’i levi èè frugiu daa porta cma fàsna a gni?

     < Mi to ditu, replica Fighisèin che ti veni se ti po! e mantegnu a parola… SE TI Pò VENE !?!?… èè parlò d Nove caro mio è traditure… t’in lè ancù capia l’antifuna?!… at salùvu… merlu!… e qui il nostro Fighèsin, calcando volutamente sul doppio senso della parola <merlo> chiudeva definitivamente discorso e finestra.

     E’ pacifico che quel giorno, se il Merlo volle calmare quel tal languorino di stomaco, dovette ricorrere alle buone grazie di Manin del Moro, però aveva fatto, per sé e per gli altri una esperienza nuova e cioè che … <Vieni … se puoi!> non è invito da accettarsi tanto ad occhi chiusi!

                                                                     Ettore Repetto

  • Rigusia: nel vecchio dialetto di Novi sta per Allegria, Festa
  • Avignani: si trasformò in seguito in Alignani

(Articolo tratto da NOVINOSTRA, anno 1963)


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Giulio Cesare Sovera

(L’ingegno versatile di un pioniere nel Medio Oriente)

PICCOLA GALLERIA NOVESE

Erano gli anni delle <Belle époque>: Rontgen però non aveva ancora intravisto le strane radiazioni che egli chiamò raggi X: Hertz non aveva ancora aperto la strada del miracolo marconiano della telegrafia senza fili, i fori alpini erano ancora un ambizioso progetto che avrebbe collegato la penisola con il resto dell’Europa.

      In una serata grigia del grigio autunno della bella e regale Torino una vettura con tiro a coppia portava un gruppo di studenti del Politecnico festeggianti il loro giovane compagno che aveva che aveva conseguito a tempo di record la laurea in ingegneria.

     Alto slanciato, biondo; biondi i baffi, bionda la barba lasciata crescere in modo naturale – il giovane nella primissima giovinezza era stato invitato a posare per la figura del Crocefisso – d’eloquio brillante e parco nello stesso tempo, col sorriso che scopriva i regolarissimi denti, Ara Giulio Cesare Sovera.

      Egli proveniva da una famiglia di costruttori. Il nonno aveva drizzato, tra l’attonita ammirazione della popolazione, un muro pericolante della <Castigliona>, usando travi ricoperte di catrame e sfruttando l’enorme forza derivante dalla dilatazione lineare. Il padre Giuseppe aveva costruito strade e ponti, specie nel Veneto, dove compiva lunghe trasferte. Il giovane ingegnere si mostrò subito intraprendente e parve anzi ricercare avventure pericolose, accogliendo l’invito di una ditta francese, che in cambio di un compenso favoloso lo impegnò per una costruzione da eseguirsi all’estero in un pese sconosciuto. L’ing. Sovera si imbarcò a Marsiglia insieme ad alcuni provetti muratori novesi che dovevano fornirgli il nocciolo della maestranza qualificata. Non conosceva la sua destinazione che era scritta in un plico sigillato consegnatogli al momento dell’imbarco da aprirsi solo in alto mare. Nel Golfo del Leone il plico rivelò il paese dove l’ingegnere e gli altri novesi erano diretti: la Persia.

     Quale paese era la Persia? Una enigmatica burocrazia che dilazionava un permesso e mercanteggiava un’autorizzazione con indolente indifferenza. Maestranze semiselvagge piene di sospetto, che dalla religione di Allah e dalla mollezza del clima traevano un atteggiamento fiacco e staccato. Uomini grami, travagliati dai morbi, che soffrivano le loro pene negletti negli angoli remoti. Inafferrabili bellezze muliebri che lasciavano intravedere lo splendore bruno degli occhi attraverso il fluttuare dei veli dietro le imposte appena socchiuse. A queste donne però il costume della contrada non risparmiava i lavori pesanti come l’attingere l’acqua, mentre i mariti seduti su stuoie intessevano i celeberrimi tappeti.

     I lavori per la costruzione di immensi essicatoi per bozzoli si facevano non lungi dalla sponda meridionale del Caspio. In Europa trionfava allora la seta per gli abiti e le trine, di cui le abbondanti vesti femminili erano riccamente adornate. Ma la produzione europea di bozzoli aveva costo elevato: già anche i nostri concittadini – tra cui i fratelli De Negri – avevano fatto frequenti viaggi in Cina per commerciare i bozzoli con cui alimentare le nostre fiorenti filande. Ma il mercato cinese era noto anche alla concorrenza: la Persia invece era un paese non ancora in contatto con i mercati occidentali e la merce vi veniva offerta a prezzi irrisori.

     Due anni durò il soggiorno persiano, seguito da un secondo un poco più breve a distanza di un anno. Il ritorno avvenne una volta via terra attraverso la Russia zarista (notevoli le avventure del passaggio di frontiera), la Germania guglielmina (come ricordava l’eccezionale rapidità degli ascensori di Berlino!) ed in fine a Parigi, la <Ville lumièr>.

     Quando, già anziano, l’ingegnere Sovera raccontava l’attraversamento dell’Europa compiuto negli ultimi anni del secolo scorso e punteggiava il suo racconto additando all’interlocutore questo o quel oggetto ricordo, era seguito con meravigliata ammirazione: tappeti, vassoi sbalzati a mano, un narghilè tempestato di turchesi.

     All’alba del nostro secolo lo troviamo, ancora pe la ditta francese, a dirigere i lavori di un setificio nell’alta valla del PO. Là i bimbi lo amavano e lo temevano nello stesso tempo come un gigante buono. 

     Poi la vecchiaia del padre lo richiama nella città natale: qui costruisce palazzi dalla linea sobria, villette che si distinguono per un qualcosa di civettuolo, fabbricati industriali che sfidano per solidità il tempo.

     Ma la sua opera non si limita a Novi; ogni paese del circondario conserva qualche sua opera: qui ha aperto una strada, là ha progettato una fognatura, altrove impianti di irrigazione.

     Quale ispettore delle utenze di caldaie a vapore corre l’intera Provincia, quale perito liquidatore lo troviamo in svariatissime località; è tecnico di fiducia dei più bei nomi dei nostri luoghi.

     Oltre al lavoro solerte ed appassionato ha interessi vivi e svariati: è l’organizzatore e l’animatore delle feste – il valente pittore concittadino Dini Perolo lo ha fermato appunto su una tela come direttore d’orchestra; al pianoforte rivela doti di artista e trascina in ritmi frenetici i ballerini – nella prima giovinezza aveva dedicato ad una fiamma giovanile una sua mazurca <La prediletta>.

     Né la maturità vede il suo generoso spirito ristare: prende parte alla vita politica, è più volte consigliere comunale ed assessore.

      Con l’entusiasmo di sempre si dedica, quale vicepresidente, alla <Società Ginnastica <Forza e Virtù>; con la passione e l’entusiasmo che gli furono blasoni di vita, organizza la prospera Croce Verde Novese, di cui fu presidente per un ventennio. Ah! La commozione di quella domenica del 1926 quando nel nostro teatro letteralmente gremito, al termine di una commossa orazione, ha appuntato la medaglia d’oro al petto del milite più valoroso, G.B. Gemme, quel <Bacicein>, che tutti ancora ricordano, e il fluttuare delle bandiere delle Società consorelle – Crocebianca, Croce d’Oro …- che eseguivano il reciproco saluto come un fraterno abbraccio! ….

     Come mi tonano ancora in mente i nomi di tanti militi, che prestavano la loro opera del tutto disinteressatamente: Cosso, Camera, Pedemonte! ….

****

     Passano gli anni, la vita dell’Ingegnere Giulio Cesare Sovera volge al tramonto: forse non gli mancò l’amarezza di chi si prodigò e non fu equamente riconosciuto, schivo, anzi ritroso di fronte a ricompense cavalleresche.

     Avrebbe potuto dire col grande Pontefice :<Dilexi justitiam…> solo fece suo il testamento spirituale del Parini: <Me non nato a percuotere – le dure illustri porte…>. Ma in regime fascista alle esequie di lui, che non ebbe mai tessera, il gonfalone del Municipio e il primo cittadino di allora; per la famiglia, nel contenuto dolore, la consolazione che la straordinaria dirittura morale e la generosa bontà dell’Uomo siano state nella morte aureolate dalla Fede.

                                                                                     A.Br.

  

articolo tratto da NOVINOSTRA – giugno 1963


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La pittura di Gigi Podestà

Viviamo in un’età di incertezza e di transizione. La critica ufficiale scoprirà, un giorno, che è esistita una piccola, ma stilisticamente ben caratterizzabile, scuola novese del nostro inquieto Novecento pittorico.

Si ravvicineranno i cieli, i rapporti tonali, di un pittore ormai largamente e meritatamente noto, come Beppe Levrero, a quello di Gigi Podestà. Di là dal diverso temperamento e dal tipo diverso di preparazione, si annoteranno i tratti comuni. Si vedrà meglio allora, il pregio di queste tele, proprio perché, nel raffronto, balzeranno all’occhio le individualità reciprocamente impermeabili di questi inquietanti, suggestivi, poeti del pennello. Ma si scoprirà anche un credo stilistico comune, insieme al quale la loro pittura è germinata.

Figura 1 – E. PODESTA’- Bambola e chitarra: simboli o forme

Le nuvole, che a Podestà riesce a far stare sospese nei suoi cieli con un colpo di pennello si tramuterebbero in angeli, di quelli che usavano dipingere gli artisti molti secoli fa (forse a orientare in questo senso irreducibilmente simbolico l’intuizione di lui, concorsero i lunghi anni durati, quale umile artefice uscito dal popolo, nella modesta fatica di semplice decoratore di chiese).

La sua pittura sta diventando anch’essa cosa nota, apprezzata fuori dalla ristretta cerchia di amici di un tempo. Accade non di rado che amatori vengano per lui da lontano e dal loro pellegrinaggio novese riportino opere sue.

Figura 2 G. PODESTA’ – Vaso di fiori, anche i fiori sono divenuti masse pesanti

L’orientarsi recente di lui verso formule maggiormente decorative rende possibile il successo di una pittura in sé tutt’altro che facile.

 Podestà ha posseduto sempre, oltre che una personalità forte (e costante) un vero genio istintivo del colore; s’aggiunga che la maniera di dipingere propria di questa scuola novese racchiude potenzialità decorative ambientali non meno libere, e indubbiamene più ricche, di quella pittura meramente astratta (dalla quale la separa un diaframma sottile, ma tenacissimo). Facile dunque, il passaggio tra formule di maggior accessibilità; difficile invece il darne un giudizio, a proposito d’un pittore come Podestà.

Figura 3 – G. PODESTA’ Paesaggio novese (pastello)

  

Per un verso, questo passaggio implica un’attenuazione di quella che chiamerei la maniera forte del nostro pittore, la maniera più intensamente simbolica, nella quale il rasserenamento estetico, quando ha luogo, tanto riesce più interessante e di largo respiro quanto più impegnativo e difficile ne è stato il conseguimento. Le cose che Podestà dipinge sono, allora, corpi che gravano nello spazio pittorico, forme pesanti alle quali rimane inerente questo singolare potere simbolico, benché siano puri rapporti tonali, e la pienezza del dipinto è la regola tecnica che egli deve rispettare perché l’incantesimo di queste forme pesanti non gli riuscirebbe, se tollerasse eccezioni la legge di pesantezza che le investe esistenzialmente, ponendosi come legge del quadro.

     D’altro canto, la ricerca pura di questi valori genera sovente tele aventi qualcosa di urtante, ermetiche quindi ai più anche se intenditori. Ciò che essa evidenzia è più spesso una sofferenza delle forme, se così posso esprimermi che non in quella serenità alla quale si collega da molti la nozione di ciò che possa essere l’opera pittorica matura. Podestà ha dedicato e talvolta sacrificato, per lunghi anni, il suo sorprendente genio tonale e coloristico alla ricerca di queste forme pesanti: difficile dire se la formula più decorativa cui oggi sembra indirizzarsi l’appagamento pieno dei suoi tenaci sforzi d’artista o no anche un’attenuazione di essi. Forse, di volta in volta, l’una e l’altra cosa.

igura 4- G. PODESTA’ – Vecchio seduto tra i solchi – la figura predomina,
pur risolvendosi fra le masse che compongono il quadro.

Questi appunti rimarrebbero monchi se non accennassi agli effetti che la pittorica della <pienezza> com’egli intuisce e vive, sortisce allorché investe esseri viventi, soprattutto esseri umani. La pesantezza, di cui ho tratteggiato il concetto, attinge significati singolari (pur rimanendo, mi sia lecito insistere, valore tonale genuino, da cui non esulano le verità tecniche acquisite -dai Francesi, in particolare- alla tradizione moderna), quando grava sulle sagome colorate del cavallo, dei buoi, del vecchio seduto fra i solchi, della ragazza campagnola.

                                                                                                A. Galimberti

articolo tratto da NOVINOSTRA – giugno 1963


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LA CHIESA DI SANT’INNOCENZO A CASTELLETTO D’ORBA

Figura 1 – Facciata della Chiesa

Uscendo dalla parte alta di Castelletto d’Orba, dopo essere voltati a sinistra per immettersi sulla strada di Moltandeo, si passa davanti al piccolo cimitero posto sull’alto del poggio che occhieggia nel suo fondovalle la turistica e mondana fontana Fonte <Feia>, e sull’altro versante, il compatto gruppo di casolari dei Cassuli.

     Percorse poche decine di metri, una non lunga fila di cupi cipressi fiancheggia l’ingresso dl Camposanto e quasi nasconde tra il suo verde melanconico un’antica chiesetta.

Anche un profano di storia dell’arte sentirebbe di trovarsi davanti a qualcosa di antico che emana dagli scalcinati ma ancor soldi muri del vetusto edificio.

     Lo storico G.B. Rossi nel suo studio < Ovada e dintorni> asserisce che Sant’Innocenzo, così si chiama la chiesetta, fu un tempio pagano che nel 342 d.C. venne ridotto dal Vescovo di Tortona a tempio cristiano. Si deduce l’asserzione dello storico che la costruzione è anteriore al IV Secolo e come tale, anche se ritoccata e rifatta, degna di molta considerazione.

     Nel periodo del primo feudalesimo fu molto contesa tra i Vescovi di Tortona e gli Arcivescovi di Genova; in seguito se la disputarono gli Abati di San Fruttuoso e gli Arcipreti della Pieve di Gavi.

     Con lo scorrere dei secoli comportante molteplici vicissitudini, anche la nostra chiesetta non si sottrasse al naturale invecchiamento ed alle trasformazioni di cui porta palesemente le tracce. 

     Balza evidente che il materiale di costruzione è di due generi e di due epoche ben diverse e lontane tra loro: infatti esso consta di pietre squadrate e ben connesse di origine arenaria dello stesso tipo che si riscontra anche tra le case più antiche di Castelletto, alle quali si sovrappongono nelle parti superiori, laterali e posteriori dei comuni mattoni di epoca più recente.

     La facciata, inquadrata tra due alti e vigili cipressi (fig.1) è di una semplicità austera ed è la parte che più conserva un reverente sapore d’antico.

     Nella sua metà inferiore predominano i grossi e chiari pietroni di arenaria, mentre nella sua parte superiore le pietre si fanno più scure e, presso il tetto, cambiano ridimensionando la fattura. Osservando la facciata balzano subito evidenti alcuni interessanti fregi a bassorilievi ed una finestra ad arco rotondo con una accentuata strombatura.

     Se la finestra, situata sull’unico portale centrale al posto del rosone, arieggia il motivo romanico, i fregi assumono n’importanza più rilevante poiché sono della maniera di quelli della facciata di san Michele in Pavia (longobarda prima e poi lombarda intorno al 1000-1100) e del lato destro di San Lorenzo in Genova (consacrata nel 1118).

Figura 2- Arco del Portale

     L’arco sovrastante il portale (fig. 2) riproduce un fogliame a largo intreccio, fiancheggiato, a sinistra di chi lo guarda, da un fregio che riproduce due volatili fronteggiantisi e, a destra, da due animali non ben definibili, posti di fronte. Sempre secondo il Rossi essi sono, in tutta la loro rozzezza, dello stile dei secoli VII ed VIII, e vogliono riprodurre i precetti fondamentali della simbolica cristiana. Entrando nel Camposanto e girando attorno alla chiesetta, spiccano altri particolari notevoli, ma che denotano chiaramente come da precedenti demolizioni essi siano stati incastonati nei posti meno adatti: sulla facciata posteriore un fregio con alcune semplici croci si trova in alto al centro; sul muro di sinistra un artistico capitello con ricamature a fogliame è in castrato a rovescio tra le pietre comuni quasi sotto il tetto.

     L’interno è a pianta rettangolare, lievemente allargandosi verso l’unico squallido altare posto sulla parete di fondo senza abside.

     La prima impressione che il visitatore prova entrando, è di estrema desolazione. La chiesetta è abbandonata, come dice Rossi, alle ingiurie del tempo e degli uomini. Tutto è stato asportato: non ci sono panche né sedie né balaustra. Solo uno spoglio altare, senza candelabri né fiori né tabernacolo, testimonia una lontana e remota attività religiosa. Ma nell’interno non si è soli, perché cento occhi ci guardano muti e quasi sorpresi: sono gli sguardi buoni dei molti Santi e delle Madonne campeggianti sugli sbiaditi affreschi laterali e di fondo.  Insigne studioso ed artista genovese, il Santo Vari, li attribuisce al secolo Quattordicesimo o, senza dubbio, saranno di quell’epoca poiché, quantunque appaiano assai danneggiati, di essa rivelano tutte le caratteristiche essenziali.

Figura 3-Trittico

     Sulla sinistra dell’altare è un trittico (fig.3) che rappresenta una probabile Santa Lucia tra una lieta e simmetrica pioggia di fiori, una dolce Madonna col Bambino avvicinati da un deferente paggio che porta nella mano destra una lunga penna, ed una solenne chiesa a doppio campanile con due Angeli in adorazione di un Bambino Gesù in atteggiamento patrono. E’ questo un particolare, parchè accanto al trittico ora ricordato stanno altri affreschi di fattura pregevole che purtroppo il tempo e l’incuria hanno deturpato.

Figura 4 – Finestra sovrastata da Fregio

     Notevoli sono le finestruole che dall’interno si aprono verso l’esterno. Una di esse (fig.4) è sovrastata da un fregio leggermente arcuato riproducente un ramo che si snoda tra un grazioso intreccio di fogliame.

     Altri ancora sono i motivi artistici che potrebbero attirare l’attenzione del visitatore: i due curiosi porta-torcia situati agli angoli dell’altare; un arco rotondo sporgente dalla parete sinistra e sovrastante una probabile cripta ormai scomparsa; la colonna di circa tre metri di altezza senza capitello ed affiorante dal muro per metà, le due strane acquasantiere, una in monoblocco con vasca scavata nel capitello ed una ottagonale con i lati irregolari.

     E’ questa la secolare chiesetta di Sant’Innocenzo, che, affacciandosi come da un balcone di poggi su una ubertosa vallata, veglia silenziosa sul sonno eterno di coloro che riposano nel camposanto adiacente.

E’ forse audace l’accostamento alla carducciana <Chiesa di Polenta>, ma anche la nostra chiesa, risalente ai lontani secoli della romanità ed ora abbandonata e dimenticata, sa pur dire al viandante una valida parola di conforto che dissolva ogni meschinità e superbia e che infonda soavità d’ obblio e di pace.

                                                                                                RENATO GATTI

Tratto da NOVINOSTRA 1962 n, 4


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Arquata alle origini

     Per quanto riguarda l’origine del nome di Arquata vi sono parecchie e contrastanti opinioni, comunque la più accettata dagli storici è quella che ne fa nascere il nome da <arcus>.

1”) per l’esistenza, sino dai tempi remoti di acquedotti ad arco e di strutture architettoniche in cui l’arco era l’elemento base. (via Interiore foto 1);

 Tale derivazione ha avuto subito unanime consenso per due motivi che ritengo fondamentali:

                       Figura 1- arco via Inferiore

2”) per la configurazione topografica che fa trovare il paese racchiuso in un arco collinare di colline, degradanti verso la pianura padana, austere ed imponenti verso il Mar Ligure.

      Quello che ora è un ricco e popoloso paese, nei suoi primi secoli, era un borgo fortificato ed appartato compreso tra le due porte, tuttora esistenti, di via Interiore.

     Tutto il borgo era circondato da una controfossa e da possenti mura, di cui non rimangono purtroppo che poche squallide rovine; sovrastato del Castello Medioevale (foto 2) e protetto da due enormi ponti levatoi che venivano abbassati la notte.

              Figura 2- torre del castello medioevale

     Il luogo, strategicamente e commercialmente privilegiato, fu teatro di aspre e furibonde lotte di conquista e rapina; testimoni ne furono le due <logge> e la torre restaurata nel 1938 a cura della Sovraintendenza all’Arte Medievale e Moderna.

     Ma veniamo alla storia vera e propria.

     Arquata nel Medioevo fu feudo imperiale e fu fortificata nel secolo IX con possente castello.

     Sebbene le vicende politiche e militari siano avvolte nel più assoluto silenzio, si dice che questo castello fu posseduto dal Monastero di S. Ambrogio dai Vescovi di Tortona, dagli Estensi, dai Malaspina e, per ultimo, dai Marchesi Spinola che ne tennero la sovranità sino al 1797.

     Sul finire del 1227 la Lega Lombarda, trattando la pace tra le città di Alba, Tortona ed Alessandria in guerra contro Genova volle demolire il Castello di Arquata che tante controversie aveva suscitato per la vallata, cosa questa che non fu minimamente attuata.

     Si giunse così al 1796 senza notevoli eventi storici, o meglio nulla ci è tramandato sino a tale data.

     In quell’anno Arquata fu distrutta da un furioso incendio ad opera dei Francesi divenuti poi nel 1859 nostri alleati ed <ospiti> più o meno graditi.

     Le altre vicende sono rimaste oscure anche ai più attenti storici dei nostri tempi.

     Rimangono comunque opere notevoli antichità e d’arte che ora citerò in breve.

     Oltre alla torre, al Castello e alle porte o < logge> di via Interiore di cui ho già parlato vi è la casa Dallegri che alloggiò Carlo V, lo strano e massiccio palazzo Spinola (ora sede del Comune), la chiesa di S. Giacomo Maggiore di stile rinascimentale e barocco, consacrata nel 1547 dal Vescovo di Nizza.

     Nell’interno di essa si trovano ben 11 altari abbelliti con lavori d’intaglio di Bartolomeo Carrea proclamato il Canova genovese.

     Si possono pure ammirare una tela di Domenico Piola, un quadro del pittore Castello purtroppo deturpato, un ternario in seta oro riccamente lavorato e di valore inestimabile, un Crocifisso processionale della scuola genovese del 600’.

     Altra chiesa è quella di S. Antonio edificata nel 1400 e restaurata di recente.

     Il monumento storica più antico ritengo sia il caratteristico e pregevole Pozzo che si trova sul lato sinistro di Piazza S. Bertelli (foto 3).

                           Figura 3 – Pozzo di piazza Bertelli

     Ora vorrei citare i cittadini più illustri che Arquata tuttora ricordi:

PAOLO PENSA, letterato, storico e poeta. Nato verso il 1500 fu lodato e stimato da Ludovico Ariosto. Scrisse la vita dei Pontefici Adriano V e Innocenzo IV.

SANTO BERTELLI, Insigne pittore (1-11-1840 _ 6-1- 1892). Le chiese di Loano, Albera, Varazze, Voltri, ecc. conservano i suoi affreschi. Ad Arquata ne esistono due v: uno i via Carrara, l’atro nella Valle di Montaldero.

CESARE POGGI, Senatore del Regno, Prefetto di Genova, Modena, Lecce, Catania, Ancona, Belluno, Piacenza ed Alessandria.

GIUSEPPE ROMANELLO, partecipò alla spedizione dei Mille e morì valorosamente a Calatafimi

     E così sino al Prof. Luigi MACAGGI, al Prof. Agostino POGGI, al Geometra Elia AGUSTI … con la speranza che la nostra generazione e quelle future prendano ad esempio i loro antenati come stimolo per la sempre maggior valorizzazione della nostra bella Arquata.

                                                                      Rag. FRANCO DOLZA


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Cenni sull’antico Teatro dell’Ospedale di Novi

Una <storia di Genova nella vita privata> sulla falsariga di quella dei Molmenti per ciò che è di Venezia, non so se sia mai stata scritta.

Mi pare sene parlasse anni sono: qualcuno (Carlo Maria Martini?) doveva averne steso la traccia, si trattava di raccogliere gli scritti di autori diversi, per dar loro impronta e vita unitaria.

Non mancherebbe il materiale e l’interesse sarebbe vivissimo.

Uno e più capitoli andrebbero necessariamente dedicati alla villeggiatura, e avrebbe Novi un certo rilievo. I palazzi che vediamo tra le nostre vie cittadine accoglievano l’estate fino all’autunno non tardo, il fiore della nobiltà genovese, molti ancora ne portano il nome. Provate ad immaginarli senza quei negozi a terreno che in così malo modo li imborghesiscono e vedrete come sorgono austeri e dignitosi sulla mediocrità delle costruzioni circostanti.

Che facevano, come se la passavano quei signori la lunga estate fra noi?  Il gioco, il ballo, la caccia, le allegre gite in campagna, e riandiamo col pensiero al Settecento, il secolo d’oro della villeggiatura. Sappiamo anche di un teatro frequentato specialmente da loro, non si pensi al <Carlo Alberto> inaugurato soltanto nel 1839, ma precisamente del teatro dell’Ospedale.

Io non mi accingo a trascrivere qui le cronache del nostro antico Ospedale <San Giacomo>.

A parte che esiste una compendiosa monografia tratta dai documenti conservati nell’archivio suo stesso, sarebbero essenzialmente non lontane da quelle di qualunque altra istituzione del genere. Si compierebbe tutto in breve dicendo: miracoli del buon volere, tesori di carità e solidarietà umana e cristiana, i più edificanti, i più luminosi; e per tutto una luce dall’alto, i soccorrimenti della Divina Provvidenza, quasi aiuto tangibile da una potente invisibile mano.

Ma sopra un particolare capitolo di questa storia vorremmo fermarci un istante: perché molti mezzi si può pensare suggerisca il bisogno e cerchi attuare la carità per sostenere una istituzione sempre povera e sempre più bisognosa, ma quello qui trovato e messo in atto potrebbe parer, se pur non è, nuova cosa.

Si tratta appunto di un teatro dell’Ospedale, costruito nell’interno dell’edificio, che fu per oltre un secolo, vivo, non so se benemerito dell’arte e della cultura, ma ragguardevole certo per l’apporto di sempre nuove energie al più e non meno vacillante organismo della nostra pietosa istituzione.

Sul finir del ‘500 i ricoverai sono più che una ventina.

Il più antico documento che possediamo è del 1450. L’investitura di vari pezzi di terra di proprietà dell’Ospedale a certo Giovanni Gatto de’ Pellegrini per il canone annuo di minas undecim frumenti pulchri et nitidi ad starium novense (lo staio novese era di litri 29,02, la nostra mina di quattro staia). Si parla di pochi infermi ricoverati in un locale a terreno affidati alle cure di un religioso che viveva di elemosine egli stesso. Un discreto passo avanti in un centinaio di anni o poco più.

Ma i redditi non bastano forse neppure per la metà del fabbisogno: quattro mila lire all’anno quante a pena se ne conta fino al primo Settecento, non sono che pochi soldi al giorno per ciascun ricoverato. Un’Istituzione dunque, come quella di un teatro, a beneficio dell’Ospedale, per quanto, ripeto, possa parer strana cosa, non torna poi tanto a sproposito se permette di arrotondare ogni anno le entrate della metà perfino dei proventi ordinari.

Sorse il Teatro dell’Ospedale (come si è già detto nell’interno della Fabbrica, perché si sa che fu più tardi trasformato in corsia) verso la fine del ‘600 e fiorì naturalmente in quella età che fu il secolo d’oro dei teatri ed ebbero gli avi nostri per essi una più o meno innocente mania.

Nel 1704 è già stabilmente affermato e soltanto nello scompiglio degli ultimi anni del secolo, quando l’econome de l’hopital dovrà accogliere i sanculotti della rivoluzione, vale a direi soldati dell’Armata d’Italia e li ricetterà precisamente nel vano della vecchia platea, dovette far tristemente sorridere, se non muovere sdegno, come un lacrimevole avanzo di un tempo tramontato per sempre.

Il teatro veniva affidato a compagnie di dilettanti, di cui purtroppo non abbiamo notizie e vi si rappresentavano nella stagione autunnale commedie e melodrammi, di qualcuno dei quali, di una Adelina per esempio, si conservano brani di partitura e frammenti.

Se amore le rende

Si triste ritorno,

tu almeno il soggiorno

men triste le fa.

Con questa arietta, più o meno metastasiana, gorgheggiata da non so che virtuoso o virtuosa, si chiudeva il primo atto dell’operetta Adelina per l’appunto.

Ora dice il Molmenti (la Storia di Venezia nella vita privata, vol. III – e si vedrà che un’istituzione del genere era cosa tutt’altro che fuor dell’ordinario) che un pubblico elegante assisteva alle accademie musicali nei circoli dei filarmonici e < più specialmente nei conservatori di musica degli ospedali, che erano ritrovi di grandi signori>. Lo stesso ci dà alcuni altri particolari: l’andazzo era quello e le considerazioni del Molmenti assumono carattere generale che si portano fare capolino, attraverso quelli veneziani del tempo, al nostro Teatro di Novi.

< Un’ora prima che si levasse il sipario si accendevano ai due lati del palcoscenico due poveri lucignoli ad olio posti in cima a due torce di legno, e un po’ di luce gettavano le candelette che alcuni, seduti in platea, tenevano in mano per leggere il libretto. Così la parsimonia dell’illuminazione cospirava all’effetto, perché in tanta oscurità meglio splendeva la scena quando si alzava la tela. Prima che finisse lo spettacolo, un attore si presentava al proscenio per annunciare quello del giorno dopo, e la prima e l’ultima sera d’ogni stagione un’attrice rivolgeva un complimento poetico agli spettatori …>

< Durante lo spettacolo le dame prendevano il caffè o il sorbetto, non smettevano mai di chiacchierare coi cavalieri che stavano intorno a loro… Si faceva silenzio al momento che qualche celebre virtuosa doveva cantare la sua aria, ma appena essa aveva finito ricominciava il baccano e il pubblico non si contentava  di manifestarle la sua approvazione coi battimani…Cadevano dai palchi piogge di fiori , di fogliolini con versi entusiastici , e si videro perfino volar per il teatro colombi con sonagli al collo , messaggeri di lodi poetiche>.

Così lo scrittore ci conduce in mezzo a quella gente spensierata. Una gran tempesta si addensa sul loro capo? Nessuno ora se ne avvede. A Venezia come altrove, i tempi sono ora alquanto lieti. Il Settecento porta sorrisi e dolce vita anche nella nostra piccola semirustica Novi.

A parte queste considerazioni di carattere generale, come si diceva, c’è un <Libro Spese> del Teatro, del nostro teatro, che è una raccolta di piccole curiose notizie e illumina bene, se pur di riflesso, palcoscenico, spettacolo, attori.

Nel 1792 un certo Emanuele, macchinista, costa soldi sedici per sera; lire dodici l’olio per l’illuminazione; e soldi sedici per la bussola per la prima donna che nel suo pomposo guardinfante, o verdogale che è lo voce franco-piemontese del tempo, non può avventurarsi altrimenti per le nostre vie immerse ancora la notte di una tenebra tutt’altro che incoraggiante.

Due comparse per l’opera e otto per il ballo costano complessivamente lire tre. C è un custode e tre uomini del palco, il portinaio alla platea e al pollaio e sfilano davanti agli occhi, con il suggeritore, il capo dei balli e via dicendo, contraddistinto ognuno dal nome del proprio strumento, l’obboe, la viola il violoncello, ecc., i componenti di una di quelle orchestrine del tempo di cui il cembalo era il capo e la guida.

Teatro in piena regola dunque, con palchetti, pollaio e platea e nove soldati di guardia compreso il caporale.

Se le spese volgono complessivamente intorno a lire quaranta per sera, il profitto va crescendo di anno in anno. La sera di giovedì 12 novembre 1789 per esempio si raggiunge una delle quote più elevate. Sono lire trecentoquarantatre, né sembri poco. Un paio di scarpe, precisamente scarpine della prima donna, di raso, erano costate tre lire.

Le rappresentazioni avendo luogo in autunno, accorrevano i villeggianti della città, tricorni e parrucche genovesi. Passatempo di nobili dunque. Questo spiega fors’anche l’istituzione del teatro all’interno di un ospedale. E dà la chiave del successo.

 Del resto i signori villeggianti rispondevano generosamente all’appello non soltanto con la frequenza al teatro ma con fiorite sottoscrizioni che qualche pia dama si degnava sempre raccogliere fra i suoi amici, gli incliti ospiti della città. Ecco coi più bei nomi suoi la Genova del Settecento; ecco la lista delle limosine raccolte da S.E. la Marchesa Placida Cattaneo Pallavicini (un’ava della Luigia Pallavicini del Foscolo?) per la villeggiatura del 1775; delle LL. EE. Le Nobilissime Signore Maria Saoli Spinola e Spinola Pallavicini, del 1785 ed altre assai. Scuti, rusponi, giliati, ongari, zecchini di Roma, pezzi di Spagna e via via, nella varietà e confusione delle monete del tempo, la <bussola et bassina> dell’Ospedale doveva parere fiorita raccolta di un numismatico.

Per tornare al nostro Teatro, esso, come se detto, fu trasformato più tardi in corsia, ma non definitivamente, prima del 1839, l’anno dell’inaugurazione del Civico Teatro Carl’Alberto. Il quale ha dunque un glorioso antecessore, che vive e vivrà sempre negli annali della beneficenza ospitaliera.

Ma intanto fino al 1775, le due piccole infermerie di cui si compone il nostro Ospedale sono ancora modestamente al piano terreno. Assegnate distintamente ai degenti dei due sessi, contengono ciascuna < dodici letti di tavola coi suoi cavalletti >. Sono opposte l’una all’altra, e comunicano da piede per un cancelletto con la chiesetta posta così tra le due: tutti dal letto gli infermi possono scorgere il prete officiante.

Finalmente nel 1775, si erige la così detta < Nuova Fabbrica> e i letti sono poetati da 20 a 60! Questa fu impresa davvero straordinaria, anzi un vero miracolo, ad esalta la carità dai nostri nonni, il buon volere dei nostri concittadini e benefattori.

Nel raggiungimento di questo scopo il Teatro non va dimenticato. Quando si dice la Provvidenza si serve pur dei mezzi più impensati! …

 Angelo Daglio


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Caffè Novesi dell’Ottocento

A proposito di vecchi Caffè.Chi volesse risalire alle origini potrebbe rifarsi a Montesquieu e alle sue “Lettere Persiane” che sono del primo Settecento: “Il caffè è molto in uso a Parigi. V’è un gran numero di locali pubblici dove lo si serve: in alcuni si chiacchera, i altri si giuoca…”

O senza correre a Parigi. Una bottega dei caffè si apre a Venezia nel 1685, nota Molmenti. C’è poi la omonima commedia del Goldoni, rappresentata la prima volta nel 1750. In breve: proprio nel raffinato Settecento quasi tutte le botteghe di Piazza S. Marco sono botteghe del caffè. E non parliamo del famoso giornale di Pietro Verri, “Il Caffè”, fondato nel 1764.

Qui da noi è troppo presto. Io penserei piuttosto a qualche antro oscuro con di gran botti in fila e a volte, se permettete, come nota di colore, il lumicino ad olio a tutte le ore della giornata. Comunque, vi ricordate quelle tipiche osterie dove incappa Renzo, nei Promessi sposi? Non sarà stato qui molto diverso da Gongorzola, per esempio. Sappiamo anche di un certo antro sotterraneo, una cantina vera e propria, dove convenivano i canveini come altrettanti congiurati, i bravi “canveini” ossia quelli della canapa, un’industria che diede qui molto da fare, fiorente ancora un secolo fa (1). Non sia per questo, mi si domanda, che “canva” vuol dire qui “canapa” e “cantina”? No “canva” deriva da “cànova” sinonimo di taverna, che potrebbe essere una cantina. Le nostre taverne chiudevano i battenti ai rintocchi dell’Avemaria.

Il Caffè, la Bottega del caffè, è piuttosto da vedersi nell’Ottocento.

Si ingentiliscono i costumi, crescono i bisogni del vivere civile. Col montare a poco a poco su per i gradini della scala sociale si forma una nuova borghesia. Non che scompaiono le vecchie osterie; ma accanto ad esse, e come la locale Farmacia, il Caffè va acquistando un suo carattere particolare e non solo ricreativo, ma artistico, o politico, e in certe occasioni vi trova pascolo pur la polizia. Vi si danno convegno gli oziosi? non solo ma i più quieti ed irrequieti, i più timidi, i più arditi; vi si commentano i fatti del giorno, vi si covano sotto le più audaci novità, apertamente o segretamente il Caffè è palestra di tutti e di nessuno.

Ma lasciando le occasioni straordinarie dell’Ottocento, come il telegrafo, la strada ferrata, ecc. i viaggi si fanno più frequenti, gli scambi più attivi, e rassodandosi certe posizioni, compaiono il “rentier” ed il pensionato, gente che ha tempo da perdere e l’impiega volentieri in un tavolo da gioco. Non mancano i giovani alle loro prime armi e poi gli stessi, reduci a volte da quelle tali campagne risorgimentali, con ognuno la sua da raccontare.  Si diffonde il bisogno della cultura, il giornale quotidiano diviene una necessità. In qualcuno di quei locali si trova perfino penna carta e calamaio ed anche chi in un angolino vi sbriga la sua corrispondenza. Con quelle sediole di velluto, vi ricordate? Divani specchi e tavolini di marmo il locale assume un aspetto tutto suo, un po’ fosco, se volete, un po’ buio un po’ fumoso ma tranquillo.

E’ l’età dei famosi aperitivi, degli amari, come quello che è proprio nato qui, del sorbetto – se non sempre, nelle occasioni più solenni come la Madonna della Neve- e l’orzata e il capillè che io non saprei se non ch’era una specie di cocktail, un intruglio dunque, ma innocente, avanti lettera.

Deprecata o rimpianta, questa particolare civiltà è un ricordo del passato. I caffè odierni? Sono, ha detto bene qualcuno, degli inferni brucianti. Non si è più difesi nemmeno dalla strada perché i muri sono diventati di vetro, le luci al neon vi offendono gli occhi, le juke-box vi straziano gli orecchi: dove raccogliersi e scriver due righe o anche solo leggere il giornale? Vi si perseguitano i sedentari all’antica non fosse che la scomodità delle sedie dette funzionali; i bigliardini hanno preso posto del bigliardo e chi volesse mettersi a giocare, come lo potrebbe in certi luoghi di maggior concorso? Ci sono poi quelli dove si ritira lo scontrino, si fa la coda e via… Addio vecchio Caffè alleato dei romantici e romantico tu stesso!  Il tempo ha fatto giustizia di ben altro che di tutto quel passato.

Questo non è che un rapido cenno d’indole generale ; ma noi si aveva fisso l’occhio per così dire su alcuni nostri esemplari precisamente , il Caffè Rebagliati, il “Balustri” o “della  Srada Ferrata” , quello “Basso” fra quanti se ne potrebbero qui ricordare chè in questo non potremmo da invidiare nulla a nessuno, e poi quello del “Reale” , già Bosero, e poi Aste; e il Caffè della Sirena, il Caffè del Teatro o da “Giuspein”, tranquille oasi di pace: tra lente spire di fumo e un più lento volger di giorni tutti uguali i soliti amici consumavano ivi gli anni e il tabacco . In quello di “Balustro” si diceva convenisse un’accolta di artisti nientemeno. Lo stesso Albalustri, il padrone, era pittore, ed io ricordo un suo ritratto a carboncino dove pur senza pretese non mancavano tutte quelle qualità che sul finire dell’Ottocento facevano l’artista probo esattamente. Di tali saggi a bianco e nero era qui maestro il “Cavanin”, che ho conosciuto vecchio in Casa Spinelli e di cui innumeri sono ancora i ritratti nei salotti specialmente dei nostri maggiori. È il tempo di Isola, di Traverso, del Dini, di Bobbià, non si pensi a volte che in fatto d’arte a Novi si dormisse. E sono gli anni della Boème, non dico quella cantata, ché Novi anche in questo si ebbe i suoi campioni, come potrebbe avere la sua storia.

Un ennesimo pittore dei nostri si sarebbe potuto incontrare al Caffè Rebagliati, all’angolo di via Serra con via Roma, un pittore della famiglia del padrone, se non erro, di cui non so se mai nessuno abbia parlato. Il pittore Rabagliati: che se un’arte compassata e fredda fa parer uggiose certe sue tele di maggior impegno (e ce ne sono alcune in Collegiata come la tela di S. Isidoro, di S. Crispino, il Calzolaio e mi dicono quella di S. Anna) in certi studi di una sola figura, mettiamo pure a volte siano copie, è degno del massimo rispetto. Chi sa dove sono finiti quelli stessi che io ricordo di aver veduto? O non sia il caso di rimetterli in onore?

Pittori a parte, un caro amico di qui che se la passa, beato lui, a Monterosso al Mare, il Comm. Giuseppe Fenoglio (diciamo il nome addirittura senza pretesa di volerlo per questo immortalare – a ciò penserebbe egli stesso preparando per le stampe un qualcosa che a suo tempo si vedrà) soleva piantarsi da ragazzo con tanto di occhi sbarrati, mi diceva, davanti al caffè Rebagliati, le mani sprofondate nelle tasche a cercarvi quei pochi spiccioli che per avventura vi si trovassero. Nei casi più fortunati (credo bastassero quattro soldi) si faceva ardito, entrava deciso, risoluto a battersi al bigliardo con chicchessia. Non so come di solito ne uscisse, in ogni caso solo impaziente di ritentare la prova.

Un altro Caffè, Caffè “Basso”, ci richiama alla memoria un nome caro, degno sempre di tutto il nostro rispetto. Non c’è forse bisogno che io dica di chi si tratta. Nella breve introduzione di quel libro di Versi pubblicato nel 1924 a 19 anni dalla sua morte, si accenna al “grande ingegno e alla strada luminosa che aveva intrapreso verso la gloria”. È più che probabile infatti che se una invida sorte non ce lo avesse rapito nel bel del fiorire, l’Avv. Giacomo Basso (il Caffè era condotto dai suoi famigliari) avrebbe saputo portare in alto il suo nome, e dare lustro alla sua e nostra città che molto già si attendeva da lui fino dalle sue prime prove. Quel libro reca pure, come viatico, una lettera di Arturo Graf. La copia poi che io conservo, mi si permetta di dirlo, è firmata dalla vedova, la compianta signora Maria Basso Pernigotti: quello che per me significa non è a dirsi in due parole.

Ma continuiamo il nostro giro. Da serio ad ilare, come intitolava una rubrica, in uno dei nostri settimanali di quel tempo. Il Caffè detto della politica dal genere dei personaggi che lo frequentavano, e in senso ironico naturalmente, era piuttosto quello del Teatro. Il corifeo un certo Predasso “u Sciampàn”.Il Dini, si veda il quadro qui riprodotto: non avrebbe potuto raffigurarlo altrimenti: un atteggiamento declamatorio che potremmo definire alla Rabagas, se qualcuno dei miei lettori rammenta ancora questa commedia, famosa allora, di Vittoriano Sardou.

Evidentemente lo sentenzioso Sciampàn sta pronunciando una di quelle sue tipiche frasi che i maligni si incaricavano di divulgare via via che fiorivano sulle sue labbra. Questa ad esempio: – E la Fransa ci va aprovo!

 Un altro eroe da Caffè il vecchio Puggein. Ma questa è cronaca soltanto di ieri e parlando di lui verremmo a dir cose a tutti note. In provincia dove siamo certi echi permangono a lungo. È tempo invece di chiudere i battenti. Non è il caso di fare le ore piccole anche qui.

  • Vedi Eraldo Leardi – NOVI LIGURE – Lo Sviluppo topografico, demografico ed economico negli ultimi quattro secoli. – Tip. Ferrari Occella & C – Alessandria 1962.

Angelo Daglio

  Tratto da NOVINOSTRA -N.3 -ottobre 1962


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