La guerra civile a Novi

di ITALO CAMMARATA

Fazioni urbane pro e contro i feudatari Fregoso

In un precedente articolo[1] abbiamo ricostruito le vicende storiche di Novi dal 1456 al 1459 sotto il governo della famiglia feudataria Fregoso (o Campofregoso) fino al momento in cui il capofamiglia Pietro Fregoso rimane ucciso nei carugi di Genova durante un tentativo di riprendere il controllo di quella città e della Repubblica, che lui stesso aveva consegnato ai Francesi nel 1458, quando era ancora Doge. Suo fratello Masino, catturato nello stesso scontro, viene decapitato sulla piazza di Genova. Così Novi diventa il rifugio dei Fregoso sopravvissuti a quella batosta ma ora la presenza massiccia in paese della famiglia feudataria (la vedova di Pietro, Bartolomea, il fratello Paolo Arcivescovo di Genova, che ha lasciato la sua sede, più altri fratelli e parenti) riporta a galla i malumori dell’opposizione novese che se n’era stata tranquilla fin tanto che i feudatari vivevano a Genova. In questo articolo ricostruiamo le vicende interne novesi dopo la morte di Pietro servendoci di una massa di documenti che è raro trovare su questo tipo di argomenti. Sperando che qualche altro studioso investighi approfonditamente sulla formazione e la storia sociale di quelli che più tardi saranno definiti gli ‘alberghi’ di Novi.

Al Duca di Milano Francesco Sforza la brutta notizia della morte violenta di Pietro Fregoso a Genova arriva mediante un cavallaro mandato apposta da Novi dalla vedova Bartolomea e dal fratello Paolo Fregoso, Arcivescovo di Genova. Il Duca si trova in trasferta a Mantova, dove il Papa ha indetto un Concilio per deliberare le azioni da intraprendere contro i Turchi. Da lì risponde[2] immediatamente ai due: “Abbiamo inteso con grande dispiacere quello che ci avete scritto. State di buona voglia, perché al tutto si farà opportuna provisione”, ed infatti immediatamente comunica[3] al suo Governatore dell’Oltrepò, Giorgio d’Annone, che sta a Tortona: “Tu hai inteso quello che è avvenuto a Genova. Poiché potrebbe accadere che quelli di Genova tentarìano contro Novi, vogliamo che offra all’Arcivescovo, a donna Bartolomea e a Pandolfo [Fregoso] che, bisognandogli alcuna cosa per sicurezza e conservazione di quel luogo [di Novi], tu hai commissione di provvedervi, perché Noi intendiamo difendere Novi come Milano e Tortona poiché l’è nostra giurisdizione”. Novi infatti è un feudo legato da un trattato di “recomendisia” con lo Sforza, cioè è un protettorato milanese, con i vantaggi (e gli svantaggi) che ne conseguono.

Lo Sforza non si è ancora ripreso dalla brutta sorpresa procuratagli pochi mesi prima da un commando di uomini che, foraggiati dai Francesi, hanno tentato[4] di prendere di notte il Castello di Serravalle (dove i feudatari Assereto godono di analoga protezione), e vuole evitare un altro episodio del genere: se Novi e Serravalle cadessero in mano ai Francesi si bloccherebbe il cammino per Genova, e gli artigiani e i mercanti milanesi sarebbero in crisi.

Anche la Duchessa di Milano scrive[5] alla vedova di Novi esprimendo “grandissimo dolore e affanno”, quasi come se quella disgrazia fosse “succeduta non tanto a voi quanto a Noi. Amavamo singolarmente il vostro consorte messer Pietro, l’amava parimenti il nostro consorte per l’antichissima amicizia che fu tra loro”. Conclusione: i superstiti Fregoso abbiano “quella miglior pazienza che si può“. Tanto non si può fare altro. Il giorno dopo pure l’Ambasciatore di Mantova alla Corte milanese ci fa sapere[6] che, dopo la morte di Pietro, i Francesi ormai sicuri di Genova avrebbero “intenzione di avviarsi verso il Reame” di Napoli per riconquistarlo, ma pare che prima “vogliano attendere a recuperare Fiacone, Voltaggio e Ovada”, tutti feudi dei Fregoso che minacciano Genova dall’Appennino, e addirittura “si dubita che vengano anche a Novi, chiamati dagli uomini” cioè dallo stesso popolo di Novi.

O meglio da quella fazione novese che sembra parteggiare per i Francesi (i quali già controllano sia Asti che Genova). Proprio per il rischio rappresentato da questa fazione irrequieta, l’Ambasciatore sa perfino che “la donna del fu Pietro è stata fatta entrare nella Rocca di Novi” per maggior sicurezza e che le hanno giurato “fedeltà il Castellano e quelli che vi sono dentro di guardia” mentre suo figlio Battistino, ancora minorenne, si trova presso Giorgio d’Annone” al sicuro.

 

Quella Rocca fa gola ai Francesi

Un rapporto del nuovo Castellano di Novi al Duca di Milano ci svela le trame che i Francesi avrebbero messo in atto per impadronirsi del Castello: “Essendo in cammino per venire a fare l’entrata della Rocca, fui avvisato da alcuni amici degni di fede che in Asti erano apparecchiate scale e corde e altri strumenti per scalare e che, entrato che ero, si doveva scalare questa Rocca” per impossessarsene. Il Castellano conosce anche il nome dell’uomo che dovrebbe guidare quell’impresa con la complicità di alcune guardie: si chiama Pazzaglia da Vigevano e poco dopo proprio lui, senza alcuna costrizione, spiattella al Castellano di avere “fatto molte scale di corda e altri strumenti per scalare”, che ha lasciato per il momento a Bosco; per quel lavoro ha ricevuto un anticipo di 200 ducati dal Duca di Calabria, cioè dal francese che controlla Genova. Prima di andare imprudentemente in Castello, Pazzaglia è “disceso alla hostaria”, una delle tante di Novi, dove però si è lasciato sfuggire “che entro tre dì sarìa tutto vestito di velluto e averìa denari” dai suoi amici francesi. Da qui il suo arresto. Sostiene che nell’Astigiano sono presenti dei soldati guasconi pronti a dargli una mano. Un suo giovane aiutante se ne va addirittura in giro per Novi portando “due banderuole con le insegne del Re di Francia”. Il Castellano aggiunge che sta cercando di catturare un complice del Pazzaglia ma ricorda quanto sia necessaria “la riparazione del fossato e altre cose che bisognano in questa Rocca”. (ASMi Sforzesco 1614. Novi, senza indicazione di data).

Un postscriptum aggiungeperò che “di Novi c’è poco da dubitare, essendo i successori di messer Perino in ottima disposizione” verso il Duca di Milano.

 

 Fazioni guelfe e fazioni ghibelline

Non si parla ancora di fazioni all’interno del paese, ma vedremo che esse sono presenti e ben vive. Il Trucco sostiene[7] che Pietro Fregoso nel 1452 era “riuscito a mettere pace tra le potenti famiglie Novesi dei Bianchi e dei Pellegrini, insieme unite da una parte, con quella dei Palmerii, dei Cattanei, dei Girardenghi e dei Della Cavanna dall’altra” ed aggiunge che “i Bianchi e i Pellegrini erano guelfi e gli altri tutti ghibellini”. Ma questa classificazione un po’ libresca non riesce a ricostruire la ricchezza di sfumature che costituivano la reale dialettica interna di un grosso borgo di poche migliaia di abitanti come Novi. Ad esempio, gli inevitabili incroci matrimoniali erano un fattore imponderabile che poteva mutare gli equilibri fra le fazioni. Il Trucco, poi, non cita nemmeno il clan degli Anfossi, che invece vedremo fu parte attiva delle vicende che seguono e che era protagonista della storia novese almeno dal 1421, quando[8] “FilippoMaria Visconti, con gli intendimenti che aveva con i Bianchi e con gli Anfossi, terrieri principali di Novi, si fece padrone di quella città scacciandone Ludovico e Manfredo Cane, parenti di Facino, signori di essa”. Questa definizione di “terrieri” significa abitante ma anche proprietario di terre e vedremo che gli Anfossi, come i membri delle altre fazioni, non disdegnano le professioni (avvocati, notai, funzionari pubblici).

Il Re di Napoli (pure lui minacciato dai Francesi) sostiene gli alleati Fregoso in quella disgrazia. Infatti il suo Ambasciatore Giacomo Carestia, accorso a Novi, comunica di avere “dato 350 ducati ai fratelli di messer Perino per guardia dei loro Castelli, benché”, aggiunge malignamente, “a loro non bastarìa il mare” cioè non sono mai soddisfatti degli aiuti che arrivano da Napoli. Aiuti che, si badi bene, non vengono prestati per buon cuore, ma al solo scopo di tener inchiodati i Francesi a Genova ed impedirgli così di andare a molestare il Re aragonese di Napoli. L’Ambasciatore sa già che “a Genova fin’adesso non si fanno preparativi per venire a invadere Fiacone né Voltaggio”, altri feudi dei Fregoso, e quindi pericoli immediati non ce ne sono. Però il comandante Tiberto Brandolini, che lo Sforza ha mandato all’Abbazia di Rivalta per essere sempre pronto ad intervenire a proteggere Novi, ha già fatto una grida ordinando[9] “alli paesani che, al suono di una bombarda, tutti debbano unirsi e prendere le armi e andare da lui [a Rivalta] de dì e de notte” per marciare a difendere Novi. Da Milano gli si raccomanda[10] prudenza per non dare ombra ai Francesi, ma di “attendere [badare] soprattutto a Novi per ogni via, acciò che non passasse in sinistro”.

 

 Il capoclan viene eletto con voto segreto

Novi sembra diventata una piccola capitale per il via vai di forestieri importanti (ambasciatori, emissari, spie, cassieri, cortigiani), che vengono[11] in missione rilasciando o firmando ricevute di versamento per finanziare la guerra. Nella casa dove abita la vedova Bartolomea con i figli si riuniscono i superstiti della casata Fregoso, in presenza del notaio genovese Francesco da Vernazza. Al tavolo ci sono Ludovico, l’Arcivescovo Paolo, Pandolfo, Galeotto, GianGaleazzo, PaoloBenedetto e Lazarino e concordano[12] che “necesse fore habere caput unum” cioè un capofamiglia che diriga tutti “come un timone di nave”. Risulta nominato capofamiglia Ludovico, signore di Sarzanello, purché (aggiunge il documento) quella nomina sia “grata et accepta” al Duca Sforza, il quale infatti l’approva e ne scrive[13] al proprio Ambasciatore a Napoli: “Si sono ritrovati insieme questi Fregosi, che hanno molti Castelli e luoghi importanti”. Ma il vero capoclan, però, come vedremo sarà Paolo Fregoso che pur di seguire la propria parte non ha esitato ad abbandonare il suo Arcivescovato di Genova.

Il giorno dopo, Pandolfo Fregoso va[14] a visitare Brandolini all’Abbazia di Rivalta per raccontargli “molti suoi guai e bisogni”: gli tocca mantenere nell’avamposto di Fiacone “circa mille fanti di quelli che sono stati a questa rotta” subìta a Genova da suo fratello, ma avvisa che “Novi sarìa la prima Terra [paese] perduta se seguisse altra novità da parte dei Francesi di venire a campo” al di qua dei Giovi, “perché quegli uomini molto desiderano il governo genovese”.

 

 Le simpatie politiche dei Novesi

E’ il primo accenno chiaro che troviamo sulle simpatie politiche prevalenti fra i Novesi. Pandolfo lo butta lì per impressionare lo Sforza, oppure racconta la verità? Intanto il Duca di Milano informa[15] il proprio Ambasciatore a Napoli di avere “scritto a Giacomo Carestia”, l’Ambasciatore “che si ritrova a Tortona e verso Novi, che dovesse restare lì in quelle frontiere e provvedere alla conservazione delle Terre che teneva messer Perino [Fregoso], cioè Voltaggio e Fiacone, e dare qualche denari all’Arcivescovo e a Pandolfo, fratelli di Perino”; ma il napoletano “non gli ha voluto dare un quattrino”. Invece occorrerebbero altri soldi, almeno per tenere tranquilli quei soldati che, scampati alla sconfitta di Genova, si ammassano ora a Novi. In quei giorni passano per il Tortonese alcuni Ambasciatori francesi: “Siano onorati e carezzati quanto più sia possibile”, raccomanda[16] prudente lo Sforza al feudatario di Pozzolo e al Governatore dell’Oltrepò. Nessuno vuole creare altri incidenti.

La vedova Bartolomea con i figli ha preso alloggio in paese, in una casa a fitto da Guascone Clavario poiché i feudatari non hanno nemmeno un Palazzo proprio, e lì rinnova[17] a nome del figlio minorenne Battistino  l’atto di “aderenza e raccomandizia” al Duca di Milano, in presenza di quattro testimoni novesi e del notaio Corradino Girardengo. Poi insieme al cognato Arcivescovo Paolo firma[18] una pergamena con cui la famiglia si  impegna a mantenere il controllo dei Castelli di Voltaggio e Fiacone ché non cadano nelle mani dei Francesi. Sono giorni di intenso lavoro per i notai novesi, che rogano anche un atto con cui Bartolomea Fregoso si dichiara[19] legale tutrice del figlio maschio Battistino.

Ai Fregoso arrivano[20] altri “200 ducati d’oro per il sostenimento di Voltaggio e Fiacone”, perché in quei castelletti occorre mantenere una guarnigione per evitare brutte sorprese dalla parte di Genova. Quei soldi, mandati dal Re di Napoli, vengono versati[21] a Novi in casa di Lanfranco Scorza, mentre il comandante sforzesco, che dall’Abbazia di Rivalta tiene d’occhio la situazione, riceve[22] altri 400 ducati, sempre portati dall’Ambasciatore napoletano. Così si conclude l’annus horribilis 1459, che ha visto decimata la famiglia Fregoso (e anche quella dei suoi ‘alleati’ Fieschi).

 

L’ennesimo tentativo di riprendere Genova

Il 1460 sembra avviarsi più tranquillo dopo che i Francesi tentano di sbarcare a Napoli, ma ricevono una dura batosta. Lo Sforza chiede[23] alla “amica nostra carissima” Bartolomea Fregoso il favore di affidare la Podesterìa di Riva di Nazzano (feudo Fregoso) a un proprio suddito di Pontecurone; ma quel posto Bartolomea l’ha già assegnato[24] “a un carissimo amico e parente”. La tensione sembra calata al punto che Tiberto Brandolini  fa venire all’Abbazia di Rivalta perfino sua moglie, che lui scherzosamente chiama[25] “la Badessa”. I Fregoso mandano[26] un messo a Milano per strappare i promessi “denari per la guardia dei Castelli di Voltaggio e Fiacone”, dove loro mantengono piccole guarnigioni. E proprio da Fiacone arriverà poco dopo a Brandolini un messaggio[27] trafelato: “Noi ci caliamo in questo punto per andare a Genova perché intendiamo che la città è sollevata in armi”, comunica l’animoso Arcivescovo Fregoso, annunziando l’ennesimo tentativo inutile di riprendere il controllo di Genova, e la sua sede arcivescovile che non vede più da due anni. A Milano GianGiacomo Villaspinosa, tesoriere del Re di Napoli, fa un po’ di conti[28] di quanto gli sta costando questa guerra non dichiarata. In totale 9057 ducati, che lo Sforza ha anticipato di tasca propria e che il Re promette di rimborsare.

 

I Novesi si comportano male con i feudatari

Ma dentro le mura della piccola Novi le cose si stanno mettendo male perché tutto quel viavai di stranieri, funzionari, soldati di ventura (e probabilmente anche spie) non aiuta a riportare la calma. Lo Sforza, infatti, comunica[29] a Brandolini (sempre all’Abbazia di Rivalta) che “l’Arcivescovo, la donna che fu di messer Perino e Pandolfo, suo fratello,” gli hanno segnalato i nomi di alcuni novesi “che si [com]portano male con loro e gli sono inobbedienti”. Sono alcuni membri della famiglia Bianchi (Blengio, Teodoro e Marco, classificati come “guelfi e franzosi”, cioè filofrancesi come tutti i guelfi), poi Matteo Bossi, del partito degli Adorno, e Stefanino e GianGiacomo Girardengo, classificati come “ghibellini adorni”. “Questi sono li principali, che sollevano e contaminano gli altri” novesi, quasi fossero degli untori.

L’ordine è di convocarli e poi spedirli alla Corte milanese dove avranno la lavata di capo che si meritano. Infatti l’avvocato Matteo Anfossi (un novese che però fa il funzionario sforzesco a Pavia) avverte[30] il Duca che vi “sono giunti da Novi 11 uomini, che sono tutti di parte duchesca” cioè simpatizzanti dello Sforza “ai quali è stato fatto comandamento da madonna Bartolomea che, sotto pena di ribellione, entro due dì devono essere a Milano. E domani, loro e mì insieme, monteremo a cavallo e verremo da Sua Signoria”. Gli uomini venuti da Novi (è sempre l’Anfossi che scrive, cioè una fonte di parte) “dicono che l’altra notte sono entrati nel Castello” di Novi “60 fanti che vengono da Genova”, evidentemente arruolati dai feudatari fra i soldati  che la momentanea tregua ha messo in disoccupazione. Non si capisce bene “che voglia dire questo” ma si dubita che i Fregoso l’abbiano fatto per potere meglio disporre a suo modo di Novi”. Anche il figlio del Duca, il futuro Galeazzo Sforza, comunica[31] al padre le stesse notizie aggiungendo che “la notte precedente, madonna Bartolomea tirò nel Castello circa sessanta uomini di quelli di Genova, non si sa a che effetto”. Ma è chiaro che donna Bartolomea ha deciso di passare alle maniere forti contro i suoi oppositori interni. I nomi dei reprobi vengono comunicati[32] anche al comandante Brandolini a Rivalta, che a sua volta rimanda a Milano un elenco[33] leggermente diverso: sono Mattia Cattaneo, Antonio Guarnero, Domenico Anfossi, Lorenzo e Stefano Girardengo, Luca Guarnero, Teodoro, Melchione e Blengio Bianchi. Alla lista viene aggiunto in un secondo momento proprio il Matteo Anfossi che li accompagna a Milano.

 

Ogni notte in casa Anfossi si fanno le guardie grandi

Ma quella trasferta alla Corte milanese sembra portare pochi frutti. Una settimana dopo, infatti, donna Bartolomea comunica[34] allarmata a suo cognato Arcivescovo che a Novi “questi nostri ‘amici’ pur perseverano in sparlare come facevano, e ogni notte a casa di questi Anfossi ed altri si fanno le guardie grandi” cioè si veglia per evitare brutte sorprese. Il pomo della discordia fra feudatari e oppositori è prima di tutto economico. La politica c’entra poco: molti[35] novesi “non vogliono dargli né legna né strame né altra cosa, per gli aggravamenti che hanno sopportato per lo passato”. I feudatari gravano già di 1000 lire di tasse i loro sudditi, ma esigono anche versamenti in natura: legna da ardere, fieno, paglia per la stalla, grano, vino. Hanno già avuto abbastanza, sostengono i loro oppositori, e non possono pretendere anche di essere riforniti di legna da ardere e di fieno per le loro cavalcature. Siamo nel cuore dell’inverno 1460. Il Duca si rende conto che occorre intervenire e spedisce[36] a Novi proprio il fido avvocato Matteo Anfossi perché veda “di mettere accordo fra i gentiluomini e gli uomini di Novi” (si noti la contrapposizione classista), e quando il mediatore tarda ad intervenire (per sue questioni di salute) verrà di nuovo spronato[37] dal Duca. Anche se funzionario della Corte sforzesca, Anfossi fa parte di una delle famiglie che fanno opposizione ai feudatari.

Finalmente Anfossi va a Novi e dopo lunghe trattative si giunge[38] “a questa conclusione: mettere un Officiale [Podestà] che sia duchesco” cioè legato al Duca di Milano “per contentare la brigata” degli oppositori. Il giorno dopo, infatti, le famiglie Girardengo, Bianchi e Cattaneo mandano[39] a Milano una lettera comune chiedendo di “avere un Podestà che faccia equa ragione ad ognuno” ed allegano “la copia dei nostri Statuti”, dove c’è scritto che “lo Podestà non deve stare più che un anno e, finito l’anno, come si deve eleggere il prossimo”, e si precisa anche “quando siamo obbligati a pagare al Podestà e al Castellano”.

 

Ormai a Novi si è perduta del tutto l’obbedienza

A loro volta donna Bartolomea e il cognato Arcivescovo garantiscono[40] al Duca di Milano: “Non dubiti del Castello” di Novi, promettendo che, quanto al paese, “con i buoni uomini e gli amici, faremo ogni provisione a noi possibile. Ben ricordiamo che vi sono alcuni uomini male obbedienti”. Infatti i due scriveranno[41] ancora rievocando “l’importunità e le infinite insolenze che ci usano ogni giorno di più questi uomini di Novi”, un feudo dove ormai “si è perduta del tutto l’obbedienza e ogni dì, in parole e in fatti ingiuriosi oltremodo insopportabili”, gli oppositori “moltiplicano e perseverano”, rifiutando di versare ai loro feudatari anche “le mille lire e le altre cose” a cui sarebbero obbligati. E poi “di presente, ricusano di voler dare certa minima entrata di biave [cereali] che noi avevamo nella Frascheta”, cioè un pagamento in natura sui raccolti della Frascheta. Infine, questi sudditi disobbedienti, “contro nostra saputa e volontà hanno mossa rissa con Gavi”. Conclusione: o lo Sforza “si degna di provvedere a queste cose oppure non sia malcontento che vi provvediamo noi, e quanto più presto tanto meglio, poiché la natura della cosa richiede celerità”. E per caldeggiare un decisione, la volitiva Bartolomea annuncia che vuole “venire lì a Milano” per un faccia a faccia con il Duca.

Nel pieno dell’estate 1460 il solito Matteo Anfossi torna ancora una volta a Novi “per mettere composizione tra questi signori Fregosi e alcuni della Comunità di Novi” ma alla fine deve concludere[42]: “Abbiamo fatto tutto quello che è stato possibile ma l’accordo non ha potuto aver luogo perché i signori Fregoso volevano che la Comunità gli rilasciasse la Fraschetta”, cioè i terreni sulla riva sinistra della Scrivia che i Fregoso sostengono essergli stati donati a suo tempo, anche se “non appare donazione alcuna” che lo dimostri. Il collega Giovanni d’Appiano, che gli ha fatto compagnia in quella trasferta, riferisce[43] più dettagliatamente: i novesi vorrebbero “eleggere il Podestà cioè eleggere tre, dei quali poi i Signori gliene avessero a deputare uno, secondo la forma dei loro Statuti”, che prevedono due gradi di selezione. D’Appiano ha notato che “i loro Statuti e capitoli da 50 anni in qua mai non gli erano stati osservati” però gli uomini obiettano che quelle regole sono state “osservate al tempo del Doge Giano Fregoso” quando, subito dopo la morte del vecchio Duca di Milano Filippo Visconti nel 1447, i Novesi “per togliersi dall’obbedienza dei Milanesi, si diedero ai Genovesi” (guidati appunto da Giano), che “li accettarono come vollero e capitolarono che non fossero obbligati a pagare se non il Castellano e il Podestà”, e quest’ultimo scelto da loro. Quanto alla rendita dei terreni della Fraschetta, il Comune ne incassa meno di 200 lire e non potrebbe corrisponderne 1000 come pretendono i feudatari.

 

Se pagare le tasse fosse in arbitrio dei sudditi, chi le pagherebbe?

La lettera si dilunga a descrivere tutte le trattative e sostiene che si potrebbe arrivare a un accordo se non fosse per l’opposizione “di otto o dieci” estremisti, che sono cagione di questi mali e vanno subornando gli altri poveri uomini dandogli ad intendere” che, stando dietro a loro, “non pagheranno nulla”. Con tali promesse demagogiche questi pochi ottengono ascolto dal popolo e “hanno qualche seguito, e questo non fa meraviglia, perché se il pagare i carichi fosse in arbitrio dei sudditi, nessuno vorrebbe pagare niuna cosa”. Da questa lettera apprendiamo anche che il clan dei feudatari conta “bocche settanta e più, oltre ai cavalli” (che mangiano più dei cristiani) e che nel gruppo ci “sono più di 40 tra femmine e piccolini”. Gli adulti, fra padroni e servi, sono soltanto una trentina.

Rientrando da Novi, i due inviati dello Sforza (Matteo Anfossi e Giovanni d’Appiano) passano per l’Abbazia di Rivalta e qui in presenza del Brandolini mettono[44] nero su bianco quanto si è stabilito “sopra le differenze dei magnifici Signori di Novi da una parte e gli uomini di Novi per l’altra”: la legna da ardere sarà fornita ai feudatari eseguendo due viaggi “per ogni carro che si ritrova dentro Novi e nella giurisdizione di Novi” e due viaggi (“somate” li definisce il testo) per chiunque possieda “muli, asini o cavalli”. Insomma qualsiasi mezzo di trasporto deve contribuire a quella corvèe. Bisogna ricordarsi che la legna è l’unico combustibile per scaldarsi e far da mangiare: se ne consumato quantità enormi. Inoltre si dovrà “pagare la pigione delle case” prese a fitto da “madonna Bartolomea e tutta la sua famiglia” nonché “la casa dell’Arcivescovo e per la sua famiglia [seguito]”. Per mantenere i cavalli dei feudatari saranno forniti 10 carri di fieno. E infine l’entrata dei terreni della Fraschetta, che il Comune di Novi soleva mettere all’asta, sarà goduta come prima dai feudatari.

Un mese dopo, già i feudatari si lamentano che i Novesi non stanno ai patti. “Già abbiamo cominciato ad eseguire”, ribattono[45] però i sudditi, “con fargli condurre della legna e similmente si farà il resto”. E il Duca “non voglia credere alle loro false lamente”. I feudatari pretenderebbero anche gli arretrati, ma Matteo Anfossi si oppone e spiega: i Novesi filosforzeschi sono “delle quattro parti, le tre” cioè il 75% della popolazione ma se si vedessero costretti “a pagare per lo tempo passato, si potrebbero raffreddare de animo e de amore che portano” allo Sforza. Il quale infine se la cava con un lettera[46] molto diplomatica alla comunità di Novi: “Pare che non abbiate animo di eseguire la convenzione, del che prendiamo ammirazione, se così è (e non lo credèmo)”. Quando vuol farsi sentire lo Sforza sa usare toni molto più duri di questo. L’invito è a pagare secondo gli accordi e, “oltre ciò, essere riverenti e obbedienti ai Signori, come è ragionevole. E così facendo darete cagione a loro di [com]portarsi bene con voi e a Noi di darvi favore e aiuto”. Ma “se alcuno facesse verso loro qualche cosa indebita, vi avvisiamo che quel tale sarà punito et castigato”.

 

Io non vidi mai Terra tanto divisa né in tanto rancore

Tutto sembrerebbe in ordine. “Lunedì passato presi possesso dell’officio di questa Podesterìa” di Novi, comunica[47] soddisfatto il neopodestà alessandrino

Guglielmino Lanzavecchia, che è stato “ben veduto da questa magnifica madonna” Bartolomea. Anche “gli uomini sono rimasti molto contenti della mia venuta, dico tutte la parti, perché questa Terra è divisa in sei parti [fazioni] principali e, di quelle sei, ciascuna [a sua volta] divisa in forma [tale] che io non vidi mai Terra tanto divisa né in tanto rancore né mala volontà come questa”. Ci voleva un Podestà forestiero per fotografare così bene una situazione ingestibile.

Il Podestà viene avvisato[48] dai Fregoso che a Genova si preparano molte scale da assedio e spingarde e “bombarde conzate [modificate] in modo che buttano la pietra in su per potere rompere i tetti” ricadendo in basso. Pare sia la trovata di “uno mastro francisco”, cioè un artigliere francese. Come abbiamo visto, la famiglia Fregoso controlla anche Voltaggio e Fiacone, e proprio in quei castelletti sperduti l’avvicinarsi dell’inverno 1460 provoca una crisi degli uomini di guardia, tanto che i Fregoso temono[49] “che si partano e lascino le Fortezze con le porte aperte e abbandonate”. Su loro richiesta il Podestà ordina[50] a 160 uomini di Novi che “vadano con loro per più sicurezza” ma una parte dei comandati si rifiuta di obbedire, sostenendo “che non sono obbligati a tale angarìe”, cioè a servizi feudali gratuiti. Nuove proteste dei feudatari, finché il Duca di Milano scrive[51] al Podestà ricordandogli che ha fatto bene a multare i renitenti e insistendo: “Noi ti abbiamo mandato là con questa intenzione: che tu ti faccia ubbidire e punischi chi falla”. E lo sprona: “Devi farti obbedire  e fare giustizia ad ogni uomo indifferentemente e punire chi falla, non guardando in faccia a veruno”. La multa inflitta ai disobbedienti è di 25 ducati a testa e il Podestà cerca[52] di riscuoterla, ma dovrà scontare “a chi due ducati, a chi quattro, a chi più, perché ve n’è alcuni che hanno fatto disobbedire gli altri” cioè sono i veri colpevoli.

 

Un fratello tende a una via e l’altro all’altra

Fatto sta che alla vigilia di Natale 1460 sei novesi lasciano il paese per andare fino alla Corte di Milano a protestare. Il povero Podestà commenta[53] ancora: “Mai non vidi una Terra più divisa né dove sia più cattiva volontà fra le parti, che sono sei principali e tutte ancora divise tra loro. Dico che un fratello tende a una via e l’altro all’altra. Mai si potrìa trovare uomini meno stabili. Ho trovato questa Terra molto squadernata e con poca obbedienza e in gran disordine” ma spera che “grazie a Dio l’ho ridotta assai bene e ho trovato dei furti e altri eccessi”. Si lamenta del fatto che molti novesi hanno affari a Genova e da lì “venivano e ritornavano a loro modo, senza dire pur una parola a questi signori” feudatari “né a me, e gli ho detto che prendano partito: o di stare a Genova o qui, e non andare tanto qua e là, perché dubitavo che non venissero per intendere quello che si diceva e faceva qua, ché sempre dicevano [riferivano] notizie favorevoli ai Francesi”. Ma come si fa ad impedire a un novese di andare a Genova per affari e poi tornare a riferire quanto ha sentito là?

 

Una gola profonda dei feudatari fra i ribelli  

Anche i feudatari avvisano[54] il Duca che “sono partii questa mattina sei uomini di questa nostra Terra di Novi per venire lì a Milano” dopo che “questa notte sono stati adunati in consiglio insieme in una casa e scossi [raccolti] denari fra loro per venire là, e in questo loro partire hanno usato parole di grande umbrezza [scontento] e sono partiti senza dirci una parola”. Almeno le buone maniere … sembrano dire i Fregoso, che evidentemente dispongono di una gola profonda fra i ribelli. “Questi modi ci paiono alieni dalla buona obbedienza verso noi”, concludono. Ma il Duca cerca[55] di rassicurarli: “L’intenzione nostra è che siate riveriti e obbediti, come è debito” e la convocazione dei sei novesi a Milano è per sentire che hanno da lamentarsi. Ma la manovra dilatoria non servirà a molto. Passano quindici giorni e un allarmato Podestà di Tortona comunica[56] che il 18 gennaio 1461 a Novi “fu levato un gran rumore e avvenuto un omicidio e molte ferite, in modo che [la situazione] ha bisogno di presta provvisione”. Ed il feudatario della vicina Pozzolo aggiunge[57] che sono giunti in paese “certi uomini di Novi, dicendo che in quella Terra c’è grandissimo rumore [agitazione], e chi gridava ‘Francia!’, chi gridava ‘Duca!’; onde subito mandai mio figlio Raimondo con suoi soldati per intendere come passavano le cose e anche per parlare con madonna Bartolomea”. A Novi Raimondo trova che molti paesani sono “fuggiti fuori” e perciò già si è “acquietato il rumore” ma “non senza che siano ferite genti assai”.

 

Dì e notte con le armi in mano

Che cosa è veramente avvenuto entro le mura di Novi ce lo spiega[58] il solito Matteo Anfossi, che parla di “un insulto fatto domenica passata alla casata dei Bianchi da messer Pandolfo Fregoso e sua famiglia [scorta armata]. Dapoi in qua siamo stati dì e notte con le armi in mano. Questa mattina siamo stati confortati da madonna Bartolomea e da tutti i nostri vicini che vogliamo deporre le armi per lo ben vivere della nostra Terra, e così abbiamo fatto in nostra mala ora perché, avendo fatta la pace tra loro e noi, siamo andati a disnare e disnando, [i Fregoso] hanno fatto calare dal Castello più di 200 loro paesani di Gavi i quali hanno fatto insulto contro di noi, che eravamo dispersi di qua e di là [per il paese], e infine hanno preso Urbano Bianchi e Teodoro e condottili in Castello e [negli scontri] n’è morti tre dei nostri e molti altri feriti, tanto che [i feudatari] hanno tutto il paese in loro balìa e hanno cacciato fuori 150 uomini dei migliori della nostra squadra[59], che sono in parte a Pozzolo, parte a Cassano e parte a Pasturana. Di questo male è stato cagione Guglielmino Lanzavecchia, nostro Podestà, perché ha posto differenzia [discordia] nella casa dei Bianchi e ne ha levato gli amici dei Cavanna, che erano con noi”. I profughi chiedono allo Sforza “che faccia che possiamo rimpatriare a casa sicuramente” anche perché gli avversari hanno “preso i figlioli piccoli di alcuni di noi e li hanno chiusi in Castello e hanno fatto fare una grida che ognuno di noi deve rimpatriare a casa subito, altrimenti faranno saccheggiare le case nostre, come già da tempo hanno desiderato di fare”.

In questa lettera, scritta nel cuore dell’inverno 1461, c’è il riassunto di tutti i mali di una guerra civile, comprese le crudeltà verso i bambini.

 

A Novi si tagliavano a pezzi

Anche il Vicegovernatore dell’Oltrepò comunica che un tortonese, venendo da Pozzolo, gli ha portato “la novella che a Novi si tagliavano a pezzi e che è stato ucciso un fratello di Teodoro Bianchi”, un altro  fratello del quale è stato rinchiuso agli arresti in Castello dalla vedova Fregoso. Informato della cosa, Raimondo Attendolo “incontinente è andato là con 60 uomini di Pozzolo, che quelli di Novi non hanno voluto lasciare entrare”. Anche da Alessandria arrivano[60] alla Corte avvisi che “gli uomini di Novi si levarono a rumore e sono sulle armi perché un famiglio di Madonna Bartolomea ha ferito uno della parentela dei Bianchi”. Il Duca scrive[61] al suo Governatore a Tortona: ”Abbiamo inteso che le cose di Novi sono peggiorate e seguìti certi omicidi e feriti e cacciati fuori una grande brigata di quei Bianchi. Tu metti ogni pensiero e studio a rimediare e provvedere. E non ti partire da lì finché non ti scriveremo altro”.

Il Duca in quei giorni ha perduto la vecchia madre Lucia e perciò è il segretario Cicco Simonetta a gestire[62] la complicata vicenda: “Quel messo da Novi, che era partito [da Milano] per andare con Giorgio d’Annone, è ritornato qua perché ha trovato [per strada] un altro messo che mandava Matteo Anfossi con queste lettere che ha avuto da Pozzolo, dalle quali pare che [a Novi] le cose siano peggiorate e seguìto omicidio e altri inconvenienti”. Il nuovo messaggero sostiene che a Novi “le cose sono ancora in peggior termine che non dicono le lettere e che si dubita assai che saccheggino quelle case” dei fuorusciti. Il giorno dopo si discute nel Consiglio ducale di quella “novità di Novi” e di una lettera che i Fregoso indirizzano al Duca; un consigliere giudica[63] che la vicenda non si sanerà tanto facilmente, “attesi li feriti e cacciati” dal paese, ma raccomanda di fare di tutto “che quella Terra capiti bene, ché è importantissima a quel paese”, e due giorni dopo è proprio lui a essere mandato sul posto della crisi: “Monto a cavallo in quest’ora e vado senza dimora”, comunica[64] infatti Pietro Pusterla.

Anche il Governatore dell’Oltrepò si precipita a Novi, da dove aggiorna[65]: “Ho mandato a Cassano e a Pozzolo, dove si sono ridotti [a stare] i fuorusciti, per confortarli a rimpatriare perché questi Signori gli perdonano la vita, dandogli garanzie” se i fuorusciti si impegneranno a star buoni. Poi, di fronte alle loro comprensibili esitazioni, i feudatari minacciano “di mandargli le donne e figlioli a star fuori con loro”, visto che i capifamiglia si rifiutano di rimpatriare. Ma il Governatore vuole spegnere il fuoco: “Li ho confortati e pregati che non lo facciano, perché non dubito che rimpatrieranno e saranno fedeli e obbedienti”. Secondo il Governatore “questi magnifici Signori e madonna Bartolomea mi paiono benissimo disposti” perché si rendono conto “che non possono venire a quello che desiderano, salvo che col braccio” dello Sforza; il quale, aggiunge lo scrivente, “ha ancora in questa Terra [di Novi] più servitori che non avrei creduto”. Insieme al Podestà sale[66] in Castello a visitare i feudatari e gli strappa la promessa che, a parte alcuni caporioni, i Fregoso saranno contenti di perdonare la vita a tutti, salvo 12 persone più compromesse, “li quali per adesso stessero fuori” dal paese. Invece uno dei principali oppositori, Mattia Boccia, fa presente che tutti loro si sono impegnati a non “rimpatriare finché da Milano non siano tornati alcuni di loro, mandati” ancora nella capitale a parlamentare col Duca.

 

Una parte retrograda e una obbediente

Al Duca arriva anche una lettera[67] ufficiale dei Fregoso dove raccontano che alcuni sudditi, “perseverando nel solito mal proposito e nella consueta inobbedienza, avendo prese le armi per certe parole corse fra loro della Terra, non si degnarono mai di deporle”. La loro ricostruzione dei fatti è chiaramente di parte e divide i sudditi in “una retrogada parte”, che ha malmenato le loro guardie fin quando non si sono chiuse in Castello, e una “obbediente parte” che “raccogliendo le armi si oppose a tanta temerità, e finalmente vinti e scacciati, gran parte dei retrogradi uscirono dalla Terra, chi per le porte, chi [calandosi] per le mura” per evitare di essere fermati dai Conestabili di guardia alle porte. I Fregoso lamentano anche che il loro vicino “Antonio Spinola di Cassano e questi Spinola si vadano intromettendo nelle cose nostre”, addirittura fino a venire sotto le mura di Novi “in sussidio della parte retrograda”.

Ma è a Pozzolo che si svolgono[68] i colloqui più drammatici fra i fuorusciti novesi e il nuovo inviato del Duca. Il quale si fa riassumere i fatti (visti, naturalmente, dai ribelli rifugiati a Pozzolo), poi si trasferisce nel campo avversario: “Me ne andai a Novi, dove fui veduto molto volentieri dal popolo e dai gentiluomini” cioè dai Fregoso. A questi ultimi ha cercato di spiegare “che ogni disobbedienza commessa dagli uomini contro di essi è stata propria disposizione degli uomini, e non voglia“ del Duca di Milano, che non sa assolutamente nulla di quella ribellione. La diplomazia dell’inviato sforzesco cerca di convincere i Fregoso “a volere unire quella Terra e signoreggiare il tutto, e non parte” ma l’uomo si rende conto che i feudatari “sono maldisposti contro i fuorusciti e, viceversa, i fuorusciti mal disposti a essi”. Alla fine si conclude che tutti possano rimpatriare “eccetto sei, che [i feudatari] dicono essere stati cagione di ogni male”. Quanto agli uomini che sono nelle galere del Castello, tutti vengono rimessi in libertà tranne Teodoro Bianchi, a cui però viene promesso “che non gli sarà fatto male nella persona” con torture o peggio. Venendosene via, l’inviato milanese esprime la sua “compassione della estrema rabbia che c’è fra questi uomini”.

 

Disarmo generale a Novi

Così, due giorni dopo, quei fuorusciti “che hanno licenza di poter rimpatriare” rientrano[69] nella mura di Novi. Ma “questi signori Fregoso hanno fatto togliere a tutti le armi che avevano in casa” e hanno fatto venire un avvocato che manderà a processo “quelli che restano fora” cioè che rifiutano ancora di rimpatriare. Un sospetto si è insinuato nella mente dei feudatari: che il Duca di Milano sappia qualcosa di quella ribellione, e magari l’abbia incoraggiata. Il Commissario dell’Oltrepò riferisce[70] infatti al Duca: “Mi sono sforzato di levargli ogni sospetto dalla mente ma mi pare di comprendere che male gli si possa cavare dal petto che queste cose di Novi non siano procedute senza volontà e saputa di Vostra Signoria”. I Fregoso sostengono “che sono stati in pericolo di essere svergognati e tagliati a pezzi” ma sono pronti a tutto pur di non perdere Novi. Il suggerimento del Commissario è che, “essendo Novi quella buona Terra, grossa e forte e di grandissima importanza” che è, lo Sforza “voglia vedere di averla in sua possanza”, magari chiamando alla Corte milanese il figlio minorenne di madonna Bartolomea.

Il Duca è indubbiamente in contatto con i novesi ribelli. “I fuorusciti hanno mandato due da Noi”, ammette. “Li abbiamo confortati a voler ritornare a casa e attendere al ben vivere, e così faranno”. E ordina[71] al suo Commissario di “ritornare subito a Novi e, ritrovandoti con quei signori Fregoso, li devi avvisare di questo e confortarli che vogliano usare maggiore liberalità e grazia ed essere contenti che tutti possano rimpatriare e stare a casa, così quei 7 che sono detenuti nella Rocca come gli altri 8 che dicono di voler che restino di fuori” dal paese, “e fargli restituire la roba” sequestrata “e perdonargli liberamente ogni offesa e delitto commessi, perché così facendo se li obbligheranno in modo che, se per il passato hanno commesso qualche errore, se ne guarderanno per l’avvenire e gli saranno sempre buoni sudditi e servitori”  mentre invece, “tornandone a casa una parte e rimanendo di fuori gli altri”, gli esclusi “mai non vivranno contenti” e daranno ai loro feudatari “qualche ombrezza e sospetto, come accade nei luoghi dove ci sono i fuorusciti”. Lo Sforza la sa lunga su questo argomento perché anche Milano ha i suoi fuorusciti, che gli danno fastidio.

 

I luoghi dove ci sono i fuorusciti

“Noi“, assicura il Duca, “li abbiamo rabuffati e barbozati in modo che, fra quello che gli hanno fatto” i feudatari “e quello che gli abbiano detto Noi, in avvenire non stracorreranno più a tanto disordine ma avranno caro di starsene a casa a farsi i fatti loro”. Ma se i feudatari fossero contrari al perdono, il Commissario gli ricordi che non sembra “una buona via tenere fuori costoro, perché la natura e consuetudine dei fuorusciti è sempre di cercare di tornare a casa e non guardano a nessun pericolo per fare i fatti suoi, e che simili uomini hanno sempre dei parenti e amici” dentro il paese, che complicano ulteriormente le cose. Al Duca pare che, con il castigo già subìto, “possono aver purgato la contumacia e [sop]portato la pena del loro errore, considerato che non hanno commesso cosa alcuna nel sangue né contro lo Stato né contro le persone” dei feudatari, poiché gli scontri sono avvenuti fra i sudditi o al massimo con le guardie.

Alla Corte milanese giungono[72] poi altre segnalazioni preoccupanti: “Ieri sera giunse un mio intimo amico da Novi” il quale sostiene che il paese sta per “mutare signoria” e addirittura che “quei Fregoso sono d’accordo con i Genovesi e che ha parlato con una mastro Giorgio di Montegualdone, maestro di scuola di grammatica che abita a Tortona”, il quale dice che un certo Giorgio Bogero del clan Pellegrini di Novi, partigiano dei Fregoso e cognato di Blengio Bianchi, sa per sicuro che i Fregoso “erano d’accordo con i Genovesi che gli devono fra pochissimi giorni sborsargli i 15mila ducati dei quali fu impegnata la Terra di Novi a Pietro Fregoso”. Questo tortonese che la sa tanto lunga sostiene addirittura che i feudatari “hanno in Novi 100 fanti langaroli[73] e ne aspettano 200, come si dice pubblicamente a Novi”.

 

Se fossi stato un Turco non mi avrebbero trattato peggio

Pare perfino che, in vista di altri disordini, “il Podestà ha mandato via la nuora sua e il figlio”, che stavano con lui. Ma si capisce perché lo scrivente è così critico: “Della roba mia”, aggiunge, “ogni cosa è andata a sacco e, se fossi stato un Turco, non mi avrebbero fatto altro”. L’unica voglia che i Fregoso non si sono cavata è “che non hanno potuto maneggiare [maltrattare] le nostre persone come avevano in desiderio”. Pochi giorni dopo, da Serravalle giunge[74] l’avviso che “a Genova si è scoperto un trattato [congiura] che si menava a nome dell’Arcivescovo Fregoso e dei suoi”; uno dei loro uomini è stato catturato e torturato nelle carceri genovesi. E’ l’ennesimo tentativo fallito di rientrare a Genova.

Ma fra Milano, Tortona e Novi vanno ancora avanti le trattative “per fare ritornare e stare a Novi i fuorusciti e rilasciare quelli detenuti nella Rocca; però Pandolfo Fregoso fa sapere che, per quanto lo riguarda, lui piuttosto “ne manderìa altri dieci fuori di Novi per le insolenze” che hanno commesso. L’Arcivescovo Fregoso si incontra a cena a Tortona con il Commissario e ripete[75] “che già un anno fa furono principiate le insolenze da parte dei fuorusciti” ma che il Duca di Milano non era intervenuto come doveva, costringendolo  così a “stare otto dì in Castello recluso per pagura”, e dopo quel fattaccio “non seguì alcuna punizione di loro”. Se anche si usasse clemenza verso i ribelli, sostiene l’Arcivescovo, loro “non gli sarebbero amici, come uomini di poca discrezione”. I feudatari fanno i duri e minacciano che “gli faranno tale provisione, con farne impiccare qualcuno, che terranno la brigata in terrore”. L’Arcivescovo sembra inflessibile: “Entrando da un canto in Novi i fuorusciti e rilasciando quelli che sono nella Rocca, dall’altro canto lui se ne partirebbe” da Novi e così farebbero tutti i suoi “per pagura di essere tagliati a pezzi” dai ribelli.  Poi lo stesso Arcivescovo si sposta a Serravalle dove si incontra[76] con alcuni degli Adorno alloggiati alle Vignole, per concordare un altro colpo di mano su Genova.

 

Una porta da cui entrare in Novi

A complicare le cose interviene quel ribelle di Filippo Spinola del Castello della Pietra, che confida[77] al Governatore di Tortona come alcuni di “quelli [fuori]usciti di Novi lo sollecitano che li aiuti a rientrare in casa loro e che hanno una porta [di Novi] a loro posta” cioè pronta ad aprirsi a loro richiesta, “e quando quella gli mancasse, hanno una chiavica” non sorvegliata “per la quale si entrerebbe” facilmente in paese dai cunicoli, “e, come quelli di dentro sentiranno la loro entrata, non dubitano che la maggior parte della Terra sarà in loro favore”.

Invece la sorpresa arriva da Genova dove è scoppiata una rivolta contro gli occupanti Francesi. “I miei cognati, sentendo che Genova era in armi, si sono posti in cammino”, comunica[78] infatti a Milano la vedova Fregoso. Rimasta sola al comando a Novi, Bartolomea informa[79] il Duca che ancora “li fuorusciti di questa terra e miei ribelli molestano la mente mia, essendosi ridotti a Pozzolo, Fresonara e altri luoghi circostanti. Fra le altre insolenze, essendo venuti alcuni di loro fin presso le mura di Novi gridando in mio obbrobrio parole molto ingiuriose” e così pesanti che, se non si fosse trattenuta, “li avrei fatti perseguire” fino ai loro rifugi. E pochi giorni dopo, il suo Vicario, “volendo andare a casa sua per le feste di Pasqua” ha dovuto farsi scortare da guardie armate, “come se avesse a passare in territorio guerreggiato”. Poi manda[80] a Milano il suddito fedele Bartolomeo Bovone a riferire i guai che lei sta passando, lasciata da sola in quel covo di vipere.

Ma a madonna Bartolomea arriva una tirata[81] di orecchi dal Duca: da Pozzolo si lamentano che i Novesi hanno fatto “certa novità nelle biade e nel raccolto degli uomini di Pozzolo che hanno seminato” sul territorio di Tortona. Infatti anche da Tortona giunge[82] la protesta che “gli uomini di Novi hanno usurpato una grandissima parte della nostra Fraschetta, là dove sono migliaia e migliaia di pertiche di vigne e altre buone possessioni” e che, “ritrovandosi qui a Novi l’Arcivescovo di Genova con una grande compagnia di soldati”, ne stanno approfittando per raccogliere i frutti di quel terreno, che non sono loro.

Le truppe che l’Arcivescovo ha riunito a Novi gli servono per ancora attaccare Genova. La città infatti a luglio 1461 cadrà[83] nelle mani dei Fregoso, che eleggono Doge il loro parente Spinetta. Scrive[84] scandalizzato il Papa: “L’Arcivescovo, dimentico della sua dignità religiosa, si slancia davanti a tutti nella mischia e, saltando giù da cavallo armato di scudo, elmo e corazza, colpisce per primo i nemici, facendo non piccola strage dei Francesi”. Questa è la dimensione del personaggio con cui hanno a che fare i Novesi. Alcuni nobili francesi catturati a Genova vengono trascinati nelle Terre-di-mezzo in attesa che paghino un riscatto. Lo Sforza ne chiede conto, e gli rispondono[85] da Pozzolo: “In questo loco non è alcuno presòne ma ho inteso che Prospero Adorno ha uno signore [prigioniero] et etiam che in Novi n’erano stati condotti alcuni altri, perché all’impresa di Genova gli furono molti di quelli di Novi con monsignore Arcivescovo”. I prigionieri sono proprietà di chi li ha catturati e che ne gestisce personalmente il riscatto.

Qui di notte si fanno le guardie

Ripreso il controllo di Genova, la famiglia Fregoso ha altro da pensare che alle miserie di Novi. Anche Bartolomea si trasferisce a Genova mentre se ne va[86] anche il Podestà Lanzavecchia, che il Duca ha mandato a Novi un anno prima “per acconzare le differenze sorte” fra feudatari e sudditi; Bartolomea lo sostituisce[87] con Ladislao Guinigi da Lucca ma Lanzavecchia lascia una Novi tutt’altro che tranquilla: “Qui di notte si fanno le guardie come se il campo [nemico] fosse a cerco alla Terra”, comunica[88] preoccupato al Duca, “e nessuno può entrare senza che sia presentato al Podestà” che vuol sapere tutto.”Non si aprono le porte alla mattina se prima non si fa la discoperta fuori dalla Terra” cioè una ispezione dall’alto attorno alle mura per controllare che non ci siano pericoli da parte dei fuorusciti. Nella Rocca si stanno ammassando sacchi di farina, polvere da bombarda, verrettoni e cerbottane.

La cacciata dei Francesi da Genova ha richiamato l’Arcivescovo Fregoso nella sua sede e indirettamente sembra riportare un po’ di pace a Novi. Da Genova giunge notizia[89] che i Fregoso si sono di nuovo divisi fra loro e che l’Arcivescovo si è autonominato Doge “senza sangue né strepito alcuno”. “Dopo mangiare l’Arcivescovo Doge cavalcò per la città con la croce & la spada innanzi”, informa da Genova una lettera[90], che conclude con un maligno commento: “Vostra Eccellenza avrebbe avuto piacere a vedere il lupo con la cuculla” cioè una belva con in testa il cappuccio dei frati. Lo stesso Papa ne scrive[91] scandalizzato: “E’ inaudito che un Vescovo venga fatto tiranno della sua città con la forza delle armi”.

Intanto a Novi l’assenza dei Fregoso ha richiamato sulla scena gli Anfossi e i loro partigiani, che abbiamo visto cacciare dal paese nel 1461: “Sono entrati in questa Terra messer Matteo Anfossi, Scazoso[92] e Giovanni, suoi fratelli”, scrive[93] a Milano un preoccupato Giovanni d’Appiano, Podestà di Nove, “e sono andati a casa loro senza dirmene una minima parola”, aggiunge, sorpreso del fatto che “abbiano presunto di entrare nella Terra così vello levato[94], non senza pericolo delle loro persone”. Gli Anfossi sostengono di essere rientrati in Novi con il consenso dello Sforza, che in quei giorni sta preparando l’occupazione milanese di Genova e la cacciata dell’Arcivescovo Paolo. Perciò Appiano raccomanda al Duca le sorti di donna Bartolomea, che ha seguito il cognato a Genova: “Ella è servitrice di VE e ha fatto per Voi quello che farìa una sorella e figlia”. Approfittando di quella situazione di stallo i “bandeggiati” Anfossi e i loro seguaci sono rientrati in paese come niente fosse, anzi dicono in giro che hanno il permesso del duca Sforza, a cui il Podestà chiede in confidenza: “Averìa a caro di sapere se questa cosa procede da VS o no”. Per sapere come regolarsi.

Lo Sforza gli spiega[95]: “Messer Matteo [Anfossi] è venuto da Noi, dolendosi molto in nome suo e dei suoi del loro esilio”, e così lui gli ha concesso di poter rientrare a Nove “per vivere e godersi del suo in pace e tranquillità” purché non arrechi “molestia né ingiuria a madonna Bartolomea”. Lo stesso giorno scrive[96] anche agli Anfossi, raccomandando loro  di “non consentire cosa alcuna che possa generare scandalo”, e di essere “obbedienti e riverenti a madonna Bartolomea”. La donna si trova ancora assediata nel Castelletto di Genova dalle truppe milanesi mentre il cognato Arcivescovo è ormai in un esilio da cui rientrerà soltanto dopo oltre un decennio..

 

Li suoi antichi e devoti servitori

Così si firmano Matteo Anfossi e la sua fazione in un documento presentato al Duca di Milano, dove precisano che: “Donna Bartolomea deve avere per il salario del suo Podestà e sua famiglia libre 750, e libre 865 per il salario del Castellano e di 12 paghe [guardie] del Castello, che sono in somma 1615 libre e niente altro. Per i quali denari gli furono assegnati i dazi e le gabelle di Novi acciò che la Comunità non pagasse altro”. Il documento precisa che quando Pietro Fregoso aveva lasciato Genova nel 1458 e “venne a stare a Novi gli furono assegnate 1500 libre di Milano per riparazioni del Castello, i quali denari [i Fregoso] oltre il primo anno li hanno convertiti in suo uso”. Inoltre madonna Bartolomea “ha tenuto indebitamente l’entrata dei molini non soltanto del Comune ma anche di persone singole, e anche l’entrata della Frascheta. Le quali entrate gli furono date al tempo dell’espulsione degli Anfossi”. Il documento verrà presentato dagli stessi Anfossi nel 1468 (ASMi Comuni 62. Senza precisazione di data e di luogo).

 

A Novi tutto dovrebbe essere tranquillo, ma pochi giorni dopo, gli Anfossi radunano la loro fazione e pretendono di “tirare dentro alcuni loro amici del Bosco, con le armi, al numero di cinquanta”. Il Podestà gli nega[97] il permesso, ma non può impedire che la fazione opposta prenda le armi per difendersi. Per maggior sicurezza, aggiunge il Podestà, “mi misi con loro e stetti con loro tutta la notte” in armi. In paese si rischia di nuovo la guerra civile, malgrado un intervento dei Girardengo che frappongono la loro “mezzanità” fra le parti. Invece, dopo un ultimatum di donna Bartolomea, la fazione Anfossi si divide: da una parte Scazoso, dall’altra i suoi fratelli Matteo e Giovanni, che lasciano[98] Novi: “Si sono partiti e andati in pace, senza scandalo alcuno, a Fresonara”, che è il loro feudo[99] di famiglia dal 1413. Ma a Novi vengono elette sette persone che vadano a Genova per ottenere che madonna Bartolomea “li voglia riconciliare, loro e tutti i fuorusciti, e che possano stare a casa loro” mentre una lettera da Genova raccomanda allo Sforza le sorti di Bartolomea, che “invero è stata sempre propizia all’assesto”, cioè alla consegna di quella città ai Milanesi.

Da Novi il capoclan degli Anfossi avvisa[100] di avere “ottima intelligentia con il Castellano” (Lazzaro Verri, di Voltaggio); perciò, quando allo Sforza piacerà, assicura, “avrò via [mezzo] per avere la Rocca senza questione”. Il Castello, infatti, risponde ancora formalmente ai feudatari Fregoso.

A questo punto lo Sforza decide di intervenire: “Per i demeriti di Paolo Campofregoso, e di Bartolomea e figli, siamo costretti a mandare il Commissario Giorgio D’Annone per prendere in nostro nome la possessione di quella nostra Terra e Fortezza”, annuncia[101] ai Novesi, i quali non oppongono la minima resistenza. La stessa operazione si svolge a Riva di Nazzano, Voltaggio e Fiacone, tutti feudi dei Fregoso. Soltanto allora Bartolomea decide di cessare ogni resistenza a Genova e tornarsene a Novi mentre già si fanno avanti i primi pretendenti: l’affarista milanese Cristoforo Panigarola, per esempio, sostiene[102]: “I mulini di Novi [sulla Scrivia] sono miei, come appare da più istrumenti” notarili, e non dei Fregoso.

 

La notte stanno tutti in armi

Il Commissario dell’Oltrepò già è informato[103] che “fra gli uomini di Novi c’è grande divisione e sono stati alle mani fra loro” e parte da Tortona per Novi affinché “non vengano alle armi”. Giunto in paese riferisce[104]: “Era necessaria la mia venuta perché la Terra era in grande confusione e la notte stanno tutti in armi”. Non è riuscito a farsi consegnare il Castello , custodito da Lazzaro Verro di Voltaggio: “Mi ha risposto che vuole aspettare la morte piuttosto che consentire a fare novità alcuna del Castello senza licenza di madonna Bartolomea”. Quando qualcuno sparge la voce che lo Sforza ha donato il feudo di Novi al proprio erede Galeazzo c’è chi addirittura accende falò di gioia e grida “Duca, Duca! Galeazzo, Galeazzo!”, e il giorno dopo alcuni novesi scrivono[105] una lettera a Milano dichiarandosi “contentissimi” di diventare sudditi milanesi. Lo Sforza risponde[106] subito lodandoli “della vostra ottima fede e disposizione” mentre al Governatore spiega che “per l’importanza di quel luogo e per la loro fede e devozione verso Noi deliberiamo di ritenerli per Noi e fargli buon trattamento”. Da Novi, dove si è trasferito, il Governatore risponde[107] lodando il comportamento del Podestà Giovanni d’Appiano che, mentre il paese “era in armi e sollevato per le loro grandi differenze, ha usato tale prudenza che mai non è intervenuto scandalo alcuno”. Suggerisce quindi di lasciarlo al suo posto poiché “è necessario qui un uomo da bene, esperto e di grande sufficienza” come lui. Ma il Duca viene informato che donna Bartolomea aveva con sé nel Castelletto di Genova “circa 16 uomini di Novi” e poiché gli pare insopportabile “che i sudditi nostri ci facciano guerra”, ordina[108] di fare un bando a Novi “che ogni nostro suddito che sia in Castelletto uscisca fuori e torni a rimpatriare, sotto pena di confisca dei beni”. Il Governatore non perde tempo: si fa prestare fedeltà dalla popolazione di Novi e poi si impossessa del Castello catturando la moglie e il figlio del Castellano, ancora fedele ai Fregoso. Il Duca lo loda[109] della spregiudicata azione ordinando di liquidare al Castellano la paga che gli è dovuta. Verrà infatti pagato “con le entrate di Novi, e con gran fatica, perché questi Fregoso per il bisogno loro le spendevano innanzi tempo”, spiega[110] il Commissario. Quello stesso giorno all’alba i soldati milanesi sono penetrati nel Castelletto di Genova facendo sloggiare donna Bartolomea, che si adatta a ricevere 14mila ducati e il riconoscimento di Novi e di Rivanazzano. Lo Sforza la loda[111] del buonsenso dimostrato. Spostatosi a Rivanazzano per sistemare le cose anche in quel feudo, il Governatore loda[112] ancora il Podestà di Novi “del quale non ho avuto un minimo richiamo” da parte della popolazione e giudica “molto necessario il suo stare lì per pacificare quelle loro differenze, che intende benissimo e le saprà assestare”. Infatti il Podestà assicura[113] che tutto va bene: ”Io faccio stare la brigata quieta, senza altra dimostrazione”.

Il 4 giugno 1464 si celebra a Milano la solenne festa per l’adesione di Genova al Ducato, ma a Novi Matteo Anfossi sa che il Duca ha ceduto a tutte le richieste di madonna Bartolomea e per questa ragione lui “si trova molto di mala voglia e malcontento”, sapendo bene “che gli sarà forza a lui e a tutti i suoi fratelli e amici partirsi” da Novi. Vengono convocati[114] urgentemente a Corte Urbano Bianchi e il Podestà di Novi. Mentre si trova a Novi, il Governatore dell’Oltrepò riceve una missiva[115] ducale che gli spiega come l’accordo fatto con donna Bartolomea prevede che “dobbiamo restituire Novi e Rivanazzano con le loro Fortezze”, senza dimenticare di ringraziare gli abitanti dei due paesi “della fede e affezione che hanno dimostrato” in quei frangenti “con giurarci la fedeltà e venire all’obbedienza così volontariamente come hanno fatto. Li conforterai a essere obbedienti “ ai Fregoso, facendogli capire “che Noi sempre li vogliamo avere sotto la protezione nostra e che, quando gli fosse fatta ingiuria o torto veruno, abbiano ricorso a Noi che provvederemo sempre in modo che saranno ben trattati e ben veduti, e ognuno potrà godere il suo”. E il Governatore esegue[116] l’ordine “della restituzione che debbo fare di Novi e Rivanazzano a madonna Bartolomea e a Battistino, suo fiolo, comandando agli uomini di essergli obbedienti e a stare di bona voglia reputandosi di essere sempre sotto la protezione” di Milano.

 

Ancora campane a stormo a Novi

Già si parla[117] di far rientrare a Novi il giovane Battistino, che sua madre ha messo in salvo a Piombino presso parenti. Invece, quando ormai il paese e il Castello sono stati riconsegnati ufficialmente a Bartolomea, il Podestà informa[118] che “Matteo Anfossi e i suoi fratelli hanno fatto una congiura di aiutarsi fra loro, a torto e a diritto”, e dopo la partenza da Novi del Governatore, due di loro “la sera, circa le due ore di notte, assaltarono con le armi uno dell’altra squadra [fazione] il quale , per volersi vendicare, ieri sera ferì uno di quei due che l’avevano assaltato”. In un attimo Novi è di nuovo in tumulto, si grida ‘all’armi!’, si suonano a stormo le campane. “In un subito fu tutta la Terra in armi in su la piazza, tanto che dubitai che tutto andasse a fuoco e fiamma, se non mi fossi posto di mezzo come altre persone dabbene, non senza pericolo della persona, essendo sempre fra spade e partesane”. Il tumulto dura a lungo. Donna Bartolomea riferisce[119] a Milano che Matteo Anfossi, convocato dal vicePodestà Lancillotto Guinigi per prestare giuramento a lei, ha obiettato che lui è “obbligato di fedeltà al Duca di Milano, come feudatario suo di diverse cose, e per questo non voler riconoscere altro Signore”. Matteo ha aggiunto “che la fedeltà sua è di tal natura” che se lo Sforza, riferisce la donna, gli ordinasse “che mettesse le mani alla mia persona o a mio figlio, lui lo farebbe a sua possanza” cioè non ci penserebbe un attimo. La signora di Novi è scandalizzata e ora pretende che gli Anfossi “o pigliano partito a giurare come gli altri o pensino di allargarsi dalla Terra” di Novi. La donna ha appena manifestato la sua devozione allo Sforza rifiutandosi di ricevere un messaggero di suo cugino Martinetto Fregoso, mandato a Novi dal cognato Arcivescovo, e il Duca la loda[120] raccomandandole che “di quei 13mila ducati che aveste del Castelletto non dobbiate darne un minimo denaro all’Arcivescovo”, che sta facendo cose tanto assurde “che non merita di stare fra i Cristiani”. Il Duca è imbestialito[121] per il suo comportamento: “Per le ribalderie, scelleraggini e tradimenti suoi deliberiamo di cacciarlo e perseguitarlo usque ad fines Terre e non solo lui, ma suo fratello Pandolfo, Paolo Benedetto, Lazarino e Martino e GianGaleazzo, tutti Fregoso, i quali meritano ogni male”. Tutti, tranne donna Bartolomea e figlio, che si sono sottomessi. Ma la figlia Oriana, che è stata promessa sposa al cugino Martino, dovrà chiedere[122] espressamente il permesso ducale per lasciare Novi e congiungersi a Martino.

 

Gli Anfossi a Novi hanno soltanto due case e una vigna

Ora che il suo dominio si estende dalle Alpi fino al mare, il Duca ha bisogno di tranquillità a Novi. Così ordina alla fedele tribù degli Anfossi che “per bene loro e di tutta le Terra se ne andassero a stare alli luoghi loro, dove solevano abitare”. Gli Anfossi non avrebbero motivo si stare a Novi, “dove non hanno altro che due case e una vigna, da cui non cavano 12 brente di vino. Meglio sarebbe per loro affittare quel poco che hanno [a Novi] e lasciare la Terra in pace”. Quando Bartolomea incarica il Podestà Ladislao Guinigi di ricevere il giuramento dagli abitanti, infatti, gli Anfossi rifiutano di prestarlo, dicendo di “non voler riconoscere altri che il Duca di Milano”. Poi la feudataria segnala[123] “le trame che menano Giovanni Anfossi, Blengio Bianchi e prete Zanino Anfossi” e scrive che addirittura Giovanni Anfossi “è stato in Asti”, forse per cercare aiuto da parte dei Francesi. E a quel punto, realisticamente, fra la famiglia Anfossi e Bartolomea Grimaldi Fregoso, lo Sforza sceglie Bartolomea. Bartolomea deve anche difendere[124] i propri diritti “per i miei molini di Novi”, che vengono pretesi[125] dal milanese Panigarola, come abbiamo visto. Attorno a questi molini si riaccendono gli ultimi fuochi quando il novese Biagio Avondone ferisce il fittabile di un mulino provocando un ultimo intervento[126] da Milano.

Poi le discordie interne di Novi scompaiono dai documenti, dove si parla d’altro: donna Bartolomea chiede[127] il permesso di importare a Novi 2-300 some di frumento da Sale mentre il Duca di Milano le chiede[128] in prestito argenti e tappeti per apparecchiare degnamente il pranzo di nozze di sua figlia. Questo scambio di cortesie sembra interrompersi dopo la morte di Francesco Sforza. La sua vedova è costretta a scrivere[129] a donna Bartolomea per ricordarle che il marito aveva rinnovato agli Anfossi una esenzione fiscale risalente ai Visconti e che lei non deve permettersi di violarla. E negli anni seguenti Bartolomea dovrà camminare sul filo del rasoio: da una parte, continua ad assicurare fedeltà al nuovo Duca di Milano; dall’altra mantiene segreti contatti col cognato, l’Arcivescovo, ormai diventato un esule irrequieto e così impoverito che “per vivere ha impegnato un po’ di argento e alcune gioie della cognata”, come assicura[130] l’Ambasciatore milanese a Venezia, dove Paolo Fregoso dovrà rimarsene in scomodo esilio fino a quando il Duca di Milano non sarà ucciso in un attentato di cui lui forse non è del tutto all’oscuro.

 

NOTE

[1] Novinostra  LI- Dicembre 2011.

[2] Archivio di Stato di Milano (d’ora in avanti ASMi), Missive 44. Mantova, 17 settembre 1459.

[3] Ibidem.

[4] I.Cammarata, Novinostra XLIV (2004).

[5] ASMi Sforzesco 413. Cremona, 19 settembre 1459.

[6] Carteggio degli Oratori mantovani alla Corte sforzesca. Roma 2000.

[7] A.F.Trucco, Antiche famiglie novesi, Novi Ligure 1927.

[8] G.Ghilini, Annali di Alessandria. Milano 1666.

[9] ASMi Sforzesco 769. Rivalta, 19 agosto 1459.

[10] ASMi Sforzesco 1461. Milano, 22 settembre 1459.

[11] ASMi Sforzesco 200 e 201. Varie località e date. Vedere anche Sforzesco 413. Milano, 21 agosto 1459, nonché Sforzesco 1624. Abbazia di Rivalta, 25 agosto 1459, e Sforzesco 1604. Abbazia di Rivalta, senza data, e Sforzesco 1528, Milano,20 e 21 novembre 1459.

[12] ASMi Sforzesco 413. Novi, 26 settembre 1459.

[13] ASMi Sforzesco 201. Cremona, 9 ottobre 1459

[14] ASMi Sforzesco 769. Abbazia di Rivalta, 27 settembre 1459.

[15] ASMi Sforzesco 218. Mantova, 30 settembre 1459.

[16] ASMi Missive 44. Cremona, 6 ottobre 1459.

[17] ASMi Sforzesco 1527. Novi, 16 ottobre 1459.

[18] ASMi Sforzesco 1528. Novi, 20 ottobre 1459. Dalla pergamena, scritta dal notaio Domenico Cavanna e certificata dal suo    collega Pietro Girardengo, risulta che Podestà di Novi è il genovese Francesco Vernazza.

[19] ASMi Sforzesco 1527. Novi, 26 ottobre 1459.

[20] ASMi Sforzesco 1528. Milano, 20 Novembre 1459.

[21] ASMi Sforzesco 1528. Milano, 21 Novembre 1459.

[22] ASMi Sforzesco 201. Milano, 24 dicembre 1459.

[23] ASMi Sforzesco 413. Milano, 5 gennaio 1460.

[24] ASMi Sforzesco 413. Novi, 17 gennaio 1460.

[25] ASMi Sforzesco 769. Abbazia di Rivalta, 8 gennaio 1460.

[26] ASMi Sforzesco 413. Novi, 13 gennaio 1460.

[27] ASMi Sforzesco 769. Fiacone, in aurora noctis diei XV januarii 1460.

[28] ASMi Sforzesco 1528. Milano, 28 febbraio 1460.

[29] ASMi Missive 44 nonché Sforzesco 1622. Milano, 6 marzo 1460.

[30] ASMi Sforzesco 1287. Pavia, 13 marzo 1460.

[31] ASMi Sforzesco 965. Pavia, marzo 1460.

[32] ASMi Missive 44. Milano, 9 marzo 1460.

[33] ASMi Sforzesco 769. Abbazia di Rivalta, 13 marzo 1460.

[34] ASMi Sforzesco 413. Novi, 19 marzo 1460.

[35] ASMi Sforzesco 757. Pavia, 27 marzo 1460.

[36] ASMi Missive 47. Milano, 28 marzo 1460.

[37] ASMi Missive 47. Milano, 12 maggio 1460.

[38] ASMi Sforzesco 413. Novi, 10 giugno 1460.

[39] ASMi Sforzesco 413. Novi, 11 giugno 1460.

[40] ASMi Sforzesco 413. Novi, 17 giugno 1460.

[41] ASMi Sforzesco 413. Novi, 25 giugno 1460.

[42] ASMi Sforzesco 413. Novi, 8 luglio 1460.

[43] ASMi Sforzesco 428. ????, 8 luglio 1460.

[44] ASMi Sforzesco 1528. Abbazia di Rivalta, 29 luglio 1460.

[45] ASMi Sforzesco 413. Novi, 13 settembre 1460.

[46] ASMi Missive 44. Milano, 17 settembre 1460.

[47] ASMi Sforzesco 413. Novi, 8 ottobre 1460.

[48] ASMi Sforzesco 413. Novi, 14 ottobre 1460.

[49] ASMi Sforzesco 413. Novi, 3 dicembre 1460.

[50] ASMi Sforzesco 413. Novi, 4 dicembre 1460.

[51] ASMi Missive 44. Milano, 13 dicembre 1460.

[52] ASMi Sforzesco 413. Novi, 22 dicembre 1460.

[53] ASMi Sforzesco 413. Novi, 23 dicembre 1460.

[54] ASMi Sforzesco 413. Novi, 23 dicembre 1460.

[55] ASMi Missive 44. Milano, 2 gennaio 1461.

[56] ASMi Sforzesco 770. Tortona, 19 gennaio 1461.

[57] ASMi Sforzesco 770. Pozzolo Formigaro, 20 gennaio 1461.

[58] ASMi Sforzesco 414. Pozzolo Formigaro, 20 gennaio 1461.

[59] E’ la prima volta che viene usata questa definizione di fazione, che ricorre invece in altri località.

[60] ASMi Sforzesco 716. Alessandria, 21 gennaio 1461.

[61] ASMi Missive 44. Milano, 21 gennaio 1461.

[62] ASMi Sforzesco 672. Milano, 21 gennaio 1461.

[63] ASMi Sforzesco 672. Milano, 22 gennaio 1461.

[64] ASMi Sforzesco 672. Milano, 24 gennaio 1461.

[65] ASMi Sforzesco 414. Novi. 25 gennaio 1461.

[66] ASMi Sforzesco 414. Novi, 25 gennaio 1461.

[67] ASMi Sforzesco 414. Novi, 25 gennaio 1461.

[68] ASMi Sforzesco 770. Pozzolo Formigaro, 27 gennaio 1461.

[69] ASMi Sforzesco 414. Novi, 29 gennaio 1461.

[70] ASMi Sforzesco 414. Tortona, 1 febbraio 1461.

[71] ASMi Sforzesco 414. Milano, 9 febbraio 1461.

[72] ASMi Sforzesco 757. Pavia, 9 febbraio 1461.

[73] Originari del Monferrato.

[74] ASMi Sforzesco 770. Tortona, 13 febbraio 1461.

[75] ASMi Sforzesco 414. Tortona, 14 febbraio 1461.

[76] ASMi Sforzesco 414. Serravalle, 19 febbraio 1461.

[77] ASMi Sforzesco 671. Milano, 3 marzo 1461.

[78] ASMi Sforzesco 414. Novi, 20 marzo 1461.

[79] ASMi Sforzesco 414. Novi, 8 aprile 1461.

[80] ASMi Autografi 160. Novi, 10 aprile 1461.

[81] ASMi Missive 52. Milano, 21 giugno 1461.

[82] ASMi Sforzesco 770. Tortona, 21 giugno 1461.

[83] ASMi Sforzesco 414. Genova, 17 luglio 1461.

[84] E.S. Piccolomini, I Commentarii, Vol. I, Milano 1984.

[85] ASMi Sforzesco 770, Pozzolo, 26 luglio 1461.

[86] ASMi Missive 52, Milano, 9 ottobre 1461.

[87] ASMi Sforzesco 414, Novi, 3 ottobre 1461.

[88] ASMi Sforzesco 414, Novi, 9 novembre 1461.

[89] ASMi Sforzesco 416, Genova, 16 gennaio 1463.

[90] Biblioteca Nazionale di Parigi, Cod. 1589. Genova, 17 gennaio 1463.

[91] E.S. Piccolomini, Op.cit.

[92] Nel 1469 Scazoso Anfossi risulta essere Podestà di Vigevano (ASMi Missive 90, Abiate, 17 maggio 1469).

[93] ASMi Sforzesco 418, Novi, 7 aprile 1464.

[94] Ossia con il pelo alzato, come un animale furioso.

[95] ASMi Missive 63, Milano, 9 aprile 1464.

[96] Ibidem.

[97] ASMi Sforzesco 418, Novi, 9 aprile 1464.

[98] ASMi Sforzesco 418, Novi, 11 aprile 1464.

[99] Lo cederanno allo zio Bernardo Guasco di Bisio nel 1482.

[100] ASMi Sforzesco 418, Novi, 18 maggio 1464.

[101] ASMi Missive 67, Milano, 18 maggio 1464.

[102] ASMi Sforzesco 419. Genova, 21 maggio 1464.

[103] ASMi Sforzesco 770. Tortona, 24 maggio 1464.

[104] ASMi Sforzesco 418. Novi, 24 maggio 1464.

[105] ASMi Sforzesco 418. Novi, 25 maggio 1464.

[106] ASMi Missive 67. Milano, 28 maggio 1464.

[107] ASMi Sforzesco 419. Novi, 28 maggio 1464.

[108] ASMi Missive 67. Milano, 29 maggio 1464.

[109] ASMi Missive 67. Milano, 30 maggio 1464.

[110] ASMi Sforzesco 770. Tortona, 1 giugno 1464.

[111] Biblioteca Nazionale Parigi, Cod.1590. Milano, 2 giugno 1464.

[112] ASMi Sforzesco 760. Rivanazzano, 3 giugno 1464.

[113] ASMi Sforzesco 419. Novi, 3 giugno 1464.

[114] ASMi Missive 63.  Milano, 13 giugno 1464.

[115] ASMi Missive 67. Milano, 6 giugno 1464.

[116] ASMi Sforzesco 419. Novi, 7 giugno 1464.

[117] ASMi Sforzesco 419. Genova, 18 giugno 1464.

[118] ASMi Sforzesco 419. Novi, 14 giugno 1464.

[119] ASMi Sforzesco 419. Novi, 19 giugno 1464.

[120] ASMi Missive 63. Milano, 25 agosto 1464.

[121] Biblioteca Parini. Cod. 1590. Milano, 25 settembre 1464.

[122] ASMi Sforzesco 420. Novi, 12 dicembre 1464.

[123] ASMi Famiglie 40. Novi, 26 agosto 1464.

[124] ASMi Sforzesco 420. Novi, 22 settembre 1464.

[125] ASMi Sforzesco 420. Genova, 28 settembre 1464.

[126] ASMi Missive 67. Milano, 12 dicembre 1464.

[127] ASMi Sforzesco 421. Novi, 3 marzo 1465.

[128] ASMi Missive 67. Milano, 1 aprile 1465.

[129] ASMi Missive 70. Milano, 11 marzo 1466.

[130] ASMi Sforzesco 353. Venezia, 9 gennaio 1467.

 

 

 


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