Le Fiere di Cambio

di FRANCESCO MELONE

Le Fiere di Cambio ebbero grande importanza nella vita economica del Medioevo e dei primi secoli dell’Età moderna. Abbandonata progressivamente l’economia naturale, ossia la pratica del baratto – sale marino o olio rivierasco scambiati con grano o legna e così per altri prodotti – le Fiere di Cambio sorsero accanto a quelle delle merci, naturale evoluzione di queste, in conseguenza del crescente afflusso sulle stesse di monete diverse e spesso alterate, nonché della difficoltà dei pagamenti a distanza, che fece introdurre nel sec. XII l’uso della lettera di cambio, strumento per rendere più sicuro e rapido il movimento del denaro, ed evitare che l’insufficienza del contante fosse d’ostacolo allo sviluppo delle attività commerciali.
Le lettere di cambio, prima forma rudimentale dell’odierna cambiale, erano brevi scritti con cui si ordinava un pagamento in un determinato luogo e ad una data persona, in compenso di un acquisto o per una valuta di valore equivalente riscossa altrove. Secondo l’opinione più comune, furono inventate dagli Ebrei, quando, banditi dalla Francia, si rifugiarono in Lombardia. Con lettere o con biglietti compilati in brevi specifici o riservati termini, affidati a mercanti o a viaggiatori, trovavano il modo di rientrare in possesso di quanto avevano lasciato nei paesi d’origine in custodia a loro amici.
Occorre sapere che anche piccole Signorie potevano avere il privilegio di battere moneta, con regolamenti propri, che raramente tenevano conto rigidamente di appropriati valori rispetto a quelli di altri paesi, per cui è evidente la confusione che doveva nascere nei mercati, uguale quasi a quella delle lingue o dei dialetti, con conseguenze ovviamente ancora più gravi.

La Fiera di Cambio era essenzialmente costituita da un mercato di credito, nel quale la contrattazione non avveniva su merce visibile, ma attraverso una particolare moneta di conto, come quella lionese, sostituita poi dai Genovesi con lo scudo di marchi, valutato alla pari – salvo un aggio di appena l’ 1 % – con le cinque monete d’oro più pregiate di quel tempo (circolanti a Milano, a Genova, a Venezia, a Firenze ed a Napoli ): si divideva in 20 soldi di 12 denari ciascuno, conformemente alla riforma monetaria di Carlo Magno, ed aveva un valore costante in rapporto alle altre monete, una sorta di Euro dell’epoca. L’intento speculativo consisteva appunto nel lucrare la differenza che il valore della moneta acquistava in dipendenza del corso del cambio. In pratica il funzionamento di queste fiere era simile a quello delle Borse Valori attuali.
Inoltre, le monete, specialmente quelle d’oro (ducati, fiorini, zecchini) non essendo di forma perfettamente rotonda – come lo sono diventate quando si cominciò ad usare per la loro battitura appositi bilancieri, anziché il semplice martello – potevano essere di peso non regolamentale, a causa del fenomeno assai diffuso della cosiddetta “tosatura” del bordo per ottenere, senza alcuna spesa, polvere di metallo prezioso. I cambisti, forniti di apposite bilancine corredate da pesi di confronto tarati, durante le fiere potevano smascherare anche questo tipo di frode monetaria, oltre naturalmente le falsificazioni vere e proprie.

Successivamente intervennero i banchieri, i quali, oltre a speculare sulle quotazioni, imponevano gli interessi sul capitale, traendone guadagni veramente cospicui, e ciò avvenne quando gli Italiani conquistarono il mercato europeo e ne monopolizzarono quasi interamente il commercio bancario. Essi erano particolarmente attivi nelle fiere della Champagne, in Francia, che duravano tutto l’anno e la loro prevalenza era tale che quando si trasferirono in quella di Lione, il primato passò alla fiera di questa piazza.

Pur restando nelle sedi di quelle di merci, le Fiere di Cambio se ne resero progressivamente autonome, acquistando il carattere di mercati periodici specializzati del credito, dove però il fatto economico assumeva anche un’eminente funzione politica, perché i Sovrani che le controllavano avevano la possibilità di attingervi i mezzi per le loro conquiste e l’opportunità di effettuare versamenti in ogni parte d’Europa.

Non si sa perché i Genovesi un bel giorno abbandonarono Lione. È certo comunque che le loro prime Fiere di Cambio si stabilirono sempre in Francia, dapprima a Montluel, poi a Chambéry, a Lons-le-Saunier (1534) ed infine, nel 1537, nella regione della Franca Contea, a Besançon, centro che, all’incrocio delle vie del Rodano e del Reno, dava facile accesso alla Svizzera, alla Francia nord-orientale ed alla Germania. Perciò questa fiera divenne ben presto celebre in tutta Europa, tanto è vero che normalmente le Fiere di Cambio venivano dette Fiere di Bisenzone.

Con il trasferimento a Besançon, i Genovesi diventarono i veri padroni delle operazioni cambiarie e da allora provvidero a regolarne il corso con l’emanazione di speciali Statuti, per cui la legislazione dei cambi diventò ben precisa ed attuata rigorosamente: ad esempio, era stabilito il termine per l’accettazione o il rifiuto della lettera di cambio, le partite convergenti sulla fiera erano soggette ad una particolare procedura, con iscrizioni su appositi registri e tutti i trattanti ammessi dovevano versare una cauzione.
I Genovesi rimasero nella Franca Contea fino al 1579, poi se ne staccarono per le gravi difficoltà create dalle guerre di religione e passarono a Piacenza, città che godeva di una felice posizione geografica ed aveva facili comunicazioni con gli Stati interessati a quelle riunioni, seguite sempre con particolare interesse dai Sovrani di Francia e di Spagna, dalla Repubblica di Venezia, dai Ducati di Savoia e di Parma.

Era uso che le Fiere di Cambio, la cui durata era di 8 giorni, si svolgessero di norma 4 volte l’anno: 1 febbraio (Fiera dell’Apparizione), 2 maggio (Fiera di Pasqua), 1 agosto (Fiera d’agosto) e 2 novembre (Fiera dei Santi).

Per la loro organizzazione Il Senato ed il Maggior Consiglio della Repubblica nominavano il Magistratus triumvirum super omnibus differentiis cambiorum. La composizione di questo organo variò più volte, ma è da ricordare la riforma dei Capitula del 1622, la quale stabilì che « il console et un consigliere siano sempre della natione degli stessi Milanesi e Fiorentini un anno per ciascuna d’esse nationi ».

Nel 1636 sarà aggiunto anche un consigliere veneziano con le stesse modalità. Mansioni assai delicate erano affidate al Pesatore pubblico, che bollava la moneta da usare nella contrattazione ed al Corriere Maggiore o Maestro generale delle poste o Gran Maestro dei corrieri, il quale custodiva i titoli ed i valori, ed era tenuto al segreto verso i mercanti. Ad ogni riunione la cosiddetta Contrattazione eleggeva il Magistrato delle Appellazioni, che era composto da tre Genovesi e da due membri di altri Stati.

I Capitula del regolamento stabilivano un determinato numero di operazioni, che, per spiegare sommariamente il meccanismo della fiera, sono qui di seguito in breve descritte.
Il primo giorno si accettavano le partite; il secondo giorno si faceva il bilancio delle accettazioni, segnando il nome dei debitori e dei creditori; il terzo giorno si effettuavano la regolazione e il protesto delle partite, la denuncia del contante, il prezzo dello scudo di marchi e il listino dei prezzi delle varie piazze; il quarto giorno si facevano negozi privati con la partecipazione dei sensali, allontanati il giorno precedente, ed il Pesatore effettuava la bollatura delle monete ammesse; il quinto giorno si compilava il Libretto dei cambi e degli avalli (giorno di accettazione, prezzo, luogo, piazza, tariffa) e la registrazione delle cedole fuori fiera; il sesto giorno si esaminavano le risposte alle lettere scritte fuori e si concludeva la stima delle partite sospese. Praticamente alla fine della sesta giornata la fiera di cambio era terminata, perché gli ultimi due giorni erano dedicati al controllo delle operazioni di chiusura. Infatti il settimo giorno ogni commerciante controllava il suo cosiddetto Scartafaccio ed ordinava i documenti sistemandoli poi negli Spacci per la spedizione, mentre l’ottavo giorno si effettuava la consegna definitiva dei bilanci, controllati dai Puntatori, i quali bilanci dovevano risultare in pareggio per poter permettere al Console la compensazione pubblica dei cambi non regolati in privato; chi era sorpreso in fallo pagava alla fiera seguente capitale ed interessi.

In possesso di tutti i bilanci, il Magistrato dichiarava chiusa la fiera ed il Cancelliere ne dava annuncio pubblico.

I Genovesi partecipavano assai attivamente alla Fiere di Cambio di Piacenza, ma, avendo, con la loro esperienza mercantile, capito l’importanza del controllo totale di un tale strumento finanziario – controllo che avrebbero potuto esercitare compiutamente solo trasferendolo entro i confini della loro Repubblica e imponendo le proprie norme – quando la guerra della Valtellina creò improvvise difficoltà, ne approfittarono per portare la Fiera di Cambio a Novi, località soggetta alla loro giurisdizione.
Uno dei motivi decisivi a loro favore fu il miglioramento delle vie di comunicazione dal mare al nord e viceversa. Nuove strade, infatti, erano state aperte, come quella che, attraverso la Lomellina, portava da Novi a Gavi ed a Genova.
Il decreto istitutivo, datato 1° dicembre 1621, prevedeva la sua durata per due anni, ossia per otto riunioni, da quella di Apparizione del 1622 a quella dei Santi del 1623, ma dopo tale periodo, in barba alle richieste milanese, bolognese, toscana e veneta, che, con le più aspre proteste, sollecitavano altre sedi, la Fiera rimase nella nostra cittadina, fino al 1692, salvo brevissime parentesi, nel 1642, in favore di Rapallo e di Sestri Levante, nel 1672, anch’esse sotto il dominio genovesi.

Di fronte alle obbiezioni sollevate anche del Papa, il Senato genovese gli indirizzò una lettera in cui si diceva « … habbiamo deputato il luogo di Nove posto in pianura ne gli ultimi fini del nostro Dominio verso Lombardia, ampio, commodo e capace per simili affari, sicurissimo per le strade et abbondante di vettovaglie, rinfrescamenti e di tutte le commodità ».

Per mantenere le fiere a Novi, Genova, oltre ad offrire ogni comodità di soggiorno e di negozio ai trattanti, arrivò a proporre una scorta di soldati Corsi ai Milanesi, che si dimostravano preoccupati per il trasporto di rilevanti quantità di denaro – ammontante anche a 20.000 scudi – ed una galera ai Fiorentini, che volessero fare una parte del viaggio per mare.
L’interesse dimostrato dai Genovesi per continuare ad avere le Fiere di Cambio entro i loro confini territoriali potrebbe sembrare eccessivo, se non si tiene conto anche del fatto che la funzione di regolazione dei pagamenti e di contrattazione dei cambi era soltanto lo scopo meno importante di queste fiere, mentre nascondeva quello più concreto e sostanziale della funzione creditizia e speculativa.
I banchieri genovesi avevano assunto il primo posto nelle operazioni di finanziamento della Corona di Spagna, sostituendosi ai banchieri tedeschi, indeboliti e danneggiati dalle ripetute bancarotte della Casa d’Asburgo. Infatti Carlo V, nonostante che sul suo Impero, esteso dall’Europa all’America, non tramontasse mai il sole – come egli stesso diceva – fu forse uno dei primi grandi dissestati della storia ed il suo successore Filippo II dovette promuovere una sorta di svalutazione monetaria per non pagare i debiti ereditati. I banchieri anticipavano a Sua Maestà Cattolica le enormi somme di cui egli aveva bisogno per le costosissime operazioni di guerra in Fiandra ed in Italia e ne ottenevano in compenso una partecipazione sulle importazioni d’oro e d’argento dall’America.
Trattandosi di somme ingenti (si pensi, per esempio, che in una sola volta i Centurione, una delle famiglie facoltose di Genova, anticiparono ben 10 milioni di ducati d’oro, valore monetario enorme in quel tempo), i banchieri, poiché, per quanto fossero ricchi, non potevano da soli averne la disponibilità, si servivano appunto delle fiere per acquistarvi tratte pagabili sulle piazze di Fiandra e di Italia – in quelle regioni cioè, in cui dovevano essere fatti i pagamenti per conto della Spagna – e le ottenevano non pagandole in contanti, ma con altre tratte che rappresentavano i loro crediti presenti e futuri. Il prenditore di questi ultimi titoli di credito aveva naturalmente l’obbligo di pagarli alla scadenza.
È chiaro che con queste operazioni si potevano lucrare cospicui guadagni sotto forma dello sconto sulle tratte che si acquistavano, pagabili fuori piazza a scadenze più o meno lunghe, oltre alle commissioni e provvigioni connesse alle normali operazioni di cambio e di compensazione, operazioni tutte che venivano convertite nella particolare moneta istituita in fiera, con ulteriore possibilità di guadagno.
Viene da chiedersi perché tali fiere non venissero tenute nella stessa Genova: la ragione sta nel fatto che l‘utile derivato dalle operazioni relative doveva essere legittimo anche sotto l’aspetto formale. Vigeva infatti in quel tempo il divieto canonico di percepire qualsiasi interesse sui prestiti o sui crediti commerciali, cosa considerata comunque reato di usura e per il quale erano comminate pene severissime. Perché ad un contratto potesse essere riconosciuto il carattere genuino del cambio, si richiedeva dalle leggi canoniche la diversità di moneta e di luogo, per cui si doveva simulare, per esempio, un contratto di cambio di fiorini in ducati fatto a Genova, che veniva poi rinnovato in senso inverso a Novi: dalla diversa quotazione della moneta scambiata si ricavava l’utile dell’operazione.

Le Fiere di Cambio novesi raggiunsero una grande notorietà, tanto è vero che non si parlava più di “Fiere di Bisenzone”, ma addirittura di “Fiere di Nove“. A conferma della grande considerazione di cui godevano in quel tempo, nel Dizionario Universale degli inglesi Efraim Chambers e George Lewis, edito a Genova nel 1778 (vol. VIII, pagg.351-352), sono considerate come importanza al 3° posto fra quelle dell’Europa del tempo, dopo Francoforte e Lipsia, e prima delle russe Riga e Arcangelo e delle francesi Lione e Beaucaire. Un merito questo da non sottovalutare, considerata l’importanza politica ed economica delle città citate, e non solo, perché Novi è l’unica località italiana di cui si faccia menzione in quel Dizionario, ove si legge, tra l’altro: « Le fiere di Nove, piccola città del Milanese sotto il dominio della Repubblica di Genova, sono quattro all’anno…Ciò che principalmente contribuisce a renderle così famose è il grande concorso dei più ricchi mercanti e negozianti dei regni vicini per transigere affari, negozi e per saldar conti ». Inoltre in un memoriale presentato nel 1622 al Duca di Parma si legge «…si negotiano tesori grandissimi i quali negotiati in mercantie occuperebbero e pascerebbero genti innumerabili». Insomma, si può affermare senza esagerare che Novi era la Wall Street dell’epoca.

Un altro elemento che denota il rilievo di queste fiere ci viene offerto da un documento, esistente nell’archivio del Comune di Novi Ligure, datato 26 novembre 1675, in cui viene specificato il contributo degli ebrei novesi, consistente in quattro Scudi d’argento genovesi, da impiegare per lavori di restauro della Chiesa Collegiata, in cambio della concessione fatta loro di partecipare al mercato cittadino. Sembra che le barriere religiose, in quel tempo molto alte, a Novi non rappresentassero un ostacolo insormontabile. Di fronte alla possibilità, da una parte, di ottenere un finanziamento per la Chiesa, e dall’altra di avere uno spazio in uno dei mercati più importanti, ci si poteva mettere d’accordo.
Il vantaggio economico arrecato dalla presenza di alcune centinaia di forestieri in un grosso borgo, qual’era Novi nel Seicento, risultava ovviamente notevole, anche se c’era chi cercava di sminuirne la portata, per non pagare una eccessiva contribuzione ai soldati imperiali.
All’intensa attività del già prospero commercio nelle fiere delle merci e nei mercati, che richiamavano folle sempre più vaste, si aggiungeva il periodico convegno dei più facoltosi mercanti e da 60 a 120 banchieri provenienti da tutta Europa. Per 32 giorni l’anno, banchieri genovesi, fiorentini, milanesi, veneziani e di altri siti soggiornavano a Novi, con il seguito dei servi, dei segretari e dei sensali: vi arrivavano con ricche carrozze e quando trasportavano grosse somme di moneta sonante si facevano accompagnare da una propria guardia oppure, come si è detto, da una scorta armata inviata dal Senato genovese. Alcuni di essi, poi, vi mantenevano una propria casa, altri erano ospiti presso amici, altri ancora si sistemavano nelle locande.
Gli otto giorni della fiera erano occupati nelle riunioni collegiali delle contrattazioni e nelle trattative private, ma c’era anche tempo per i banchetti, i ricevimenti e gli spettacoli teatrali. Il fiume d’oro, che di là correva in numerosi rigagnoli ad alimentare le più diverse contrattazioni, lasciava certamente qualche preziosa pagliuzza a molti cittadini novesi, ai poveri soprattutto, ai quali andavano le rituali e generose elemosine propiziatrici, raccomandate anche dai regolamenti.

Quanti erano in quel tempo questi cittadini? La “Descrizione dei Luoghi e Terre appartenenti alla Ser.ma Repubblica di Genova” informa che nel 1629 « Novi è un buon Borgo ripartito in quattro parrocchie, o siano quattro quartieri », con 892 famiglie per un totale di 4446 abitanti.

Era logico che altre località brigassero per avere questo tipo di fiere e le difendessero strenuamente quando le avessero avute, come d’altra parte aveva fatto Genova. Il 29 settembre 1685 i Consoli del Collegio dei Mercanti di Piacenza pubblicarono un proclama che annunciava il ripristino delle Fiere di Cambio in quella città. I Genovesi restarono a Novi, ma progressivamente i commerci si spostarono su Piacenza, fino a quando, nel 1692, con l’estinzione anche di quella di Novi, se ne tenne una sola a Greco, nei pressi di Milano.
A causa della discesa delle truppe tedesche in Italia, nel 1694 i Milanesi stessi chiesero di potersi riunire nuovamente a Novi, spiegando che se ne erano allontanati solo perché non si erano accettati in pagamento i loro “Filippi” – monete così chiamate perché recavano sul diritto il volto di Filippo IV, re di Spagna e Duca di Milano – ma nel frattempo i Genovesi avevano ripristinato le fiere di Sestri Levante e nonostante che il 20 novembre 1695 i Padri del Comune novese, Giulio Cesare Maino e Giacomo Francesco Cravenna, si appellassero ai Reggitori della Repubblica di Genova per farle ritornare a Novi, il Serenissimo Senato deliberò che esse restassero a Sestri per altri tre anni, fino a tutto il 1698.

Venne di nuovo approntato un “Progetto per rimettere le fiere in Nove con la contrattazione dei Milanesi”, a cui seguì una nuova supplica della Comunità novese. Fu condotta allora un’inchiesta, una specie di referendum, presso i trattanti, il cui esito si rivelò largamente favorevole a Sestri; evidentemente, il clima aveva fatto la sua parte. Per Novi non c’era più alcuna speranza ed il Senato stabilì che le fiere continuassero nella cittadina rivierasca. Vi restarono fino al 1708, quando passarono a S.Margherita, ma avevano ormai ben scarsa importanza, perché si stavano affermando le Borse, che ne erano la loro naturale e necessaria trasformazione.
Le Fiere di Cambio cessarono definitivamente nel 1752, quando anche la Repubblica di Genova era già decisamente avviata nella china della decadenza economica e politica, sia per la crisi della fortuna spagnola cui era legata, sia per l’importanza mondiale assunta in materia finanziaria dalla piazza di Amsterdam.

Siamo agli albori della nuova era della storia economica, che con il sorgere dei primi Banchi Pubblici sarà matrice dell’attuale ordinamento bancario, causata dalla sfiducia provocata dai numerosi fallimenti dei banchieri privati, determinati dall’eccesso della speculazione e dalla immobilizzazione di capitali depositati nei prestiti agli Stati nazionali.

A Novi non è rimasta purtroppo traccia dello splendido periodo delle sue Fiere di Cambio, di cui quasi tre generazioni di novesi sono stati, se non altro, spettatori, e non si hanno neanche indicazioni sui locali dove esse si svolgevano.

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