di ITALO CAMMARATA
Nella primavera del 1498 il Duca di Milano Ludovico Sforza, detto il Moro, compie un viaggio a Genova, città tornata soggetta a Milano nel 1487. Il Moro conosce bene questa strada per averla già percorsa nei due sensi parecchie volte: già alla fine del 1467 (perciò 30 anni prima) è andato a Genova per accogliere sua sorella Ippolita che veniva dalla sua corte di Napoli in vista del fastoso matrimonio che si stava preparando per l’anno seguente fra il fratello duca Galeazzo e la francese Bona di Savoia. Ora Ludovico è diventato a sua volta Duca di Milano e per la prima volta in questa veste visita Genova, soprattutto per controllare la situazione delle difese in vista di un possibile attacco da parte dei Francesi, che rivendicano diritti sul Ducato di Milano.
Nei quattro fogli di istruzioni date poco prima al nuovo Commissario dell’Oltrepò Lucio Malvezzi il Duca si mostra ben cosciente dei pericoli, quando gli ricorda che Tortona e Alessandria “sono divise di fazioni, et li sospetti presenti dei Francesi ricercano che si debba aprire ben l’occhio a ogni cosa”. Il compito del Commissario sarà di “essere ben avvertito ché niuno tristo et pravo ingegno possa fare machinatione che potesse portare disturbo allo Stato”. Poiché le due città dell’Oltrepò hanno “gran transito di forestieri”, dovrà fare in modo che “ognuno avrà a consegnarsi” cioè a denunciare alle guardie il proprio arrivo “per investigare con bono modo la qualità e conditione di quelli che passeranno, donde vengono e da chi sono mandati e se hanno lettere”.
Il Moro sa che la sua popolarità non è proprio al massimo, e infatti una curiosa lettera lo ha appena avvisato: “Mi ve dico che non vi dobbiate andare per nessun modo, et la ragione è questa: che questi Genovesi sono falsi e, con un verrettone o con uno schioppetto, vi potrebbero far morire”. E prosegue: “Vostra Signoria può ben andare fino a Terdona ma, se farete al mio consiglio, non pasate più oltre: che volete di più che essere Signore di Genova? La buona memoria del Duca Filippo [Visconti] signoreggiava Genova e mai non vi andò; similmente fece vostro padre e non vi andò mai. Sicché vi conforto che stagàti a casa vostra”.
Ma il Duca non dà retta a questo profeta di sventure e, mentre si reca a Genova per quella che sarà la sua ultima visita, sosta a Tortona “per vedere il disegno della Fortezza che vi vogliamo fare” allo scopo di migliorare l’apparato difensivo della città, a lungo trascurato dai suoi predecessori.
Quasi sicuramente lo accompagna il suo consulente artistico-militare Leonardo da Vinci mentre un altro consulente, Mastro Ambrogio Ferrari, si fermerà a Tortona per parlare “con li maestri delle prede [pietre] et la calcina e de la manifactura”. Il 14 marzo, dopo aver dormito a Voghera, arriva a Tortona, da dove scrive di avere “veduto et stabilito dove si deve fare la Fortezza”. A Tortona gli viene incontro un’ambasceria composta dai genovesi Anfrono Spinola, Ambrogio Fieschi, Vincenzo Borlasca e Vincenzo Sauli. Sempre a Tortona in Duca incontra Gianluigi Fieschi e Giovanni Adorno, che ripartono quasi subito per Genova. Anche il Duca si ferma pochissimo, giusto poche ore.
Partendo da Tortona, il Duca lascia a Mastro Ambrogio istruzioni pignole: “Volèmo che tu resti a Tortona per due o tre dì per far pratica con fornasari da prede [pietre] et da calcina per la nova Fortezza che avèmo deliberato di far fare, avvertendo di far le fornaci più propinque possibile al lavorèrio [cantiere] e in più numero possibile, in modo che per mancamento di pietre o di calcina non si resti dal lavorare gagliardamente”. C’è infatti una certa fretta, in quanto si teme un nuovo attacco al Ducato di Milano da parte dei Francesi, che soltanto un anno prima si sono impadroniti di Novi per qualche giorno; le fortificazioni a difesa di Tortona non sembrano affatto all’altezza della situazione.
Il lavoro di fortificazione dovrà essere messo all’asta “facendo almanco 4 compagnie [squadre], con dare una facciata per compagnia” e deve essere subito iniziato “in modo che alla ritornata nostra [da Genova] troviamo essere fatta qualcosa”, ordina il Moro.
Capocantiere viene nominato mastro Bernardino de Vegi ma i Deputati rerum pecuniarium smontano tanto decisionismo comunicando che la spesa per “fare il novo Castello”, calcolata in 14.902 ducati e 40 scudi, da versare con rate stringenti entro settembre, appare “di gran summa” e “li termini troppo brevi”, tanto che sarìa impossibile provvedervi”. E più tardi il Duca tirerà le orecchie ai Tortonesi per “quanto freddamente si procede nelle fabbriche” mentre gli arrivano raffiche di proteste di cittadini danneggiati e del Clero, anch’esso obbligato a contribuire alla spesa. I lavori comunque procedono: a giugno 1499 mastro Ferrari risulterà ancora a Tortona, ed intanto verrà perfino scolpita una lapide per celebrare il Duca, che “instauravit hanc Arcem Derthone, vetustate dirutam”.
Tornando al viaggio, i tempi sono questi: il 12 marzo 1498 il Moro parte dalla Corte di Vigevano, passa a Voghera, da cui parte la mattina del 14 marzo per Tortona dove incontra l’ambasceria di Genovesi venuti ad accoglierlo. La sosta è brevissima, proprio una ispezione rapida, in quanto la sera stessa il Duca scrive da Serravalle Scrivia, dove è stato accolto in Castello dal feudatario Giovanni Spinola “che ci ha incontrato con bella compagnia et in specie di 12 gentiluomini giovani genovesi vestiti di velluto, e forse 20 staffieri, vestiti anche loro di velluto”. Il giorno dopo si prosegue per Borgo Fornari, Busalla, Pontedecimo, Cornigliano. A Borgo Fornari è sempre il feudatario Giovanni Spinola a fare gli onori di casa. A Cornigliano sono gli Spinola ad ospitare.
Grande struscio a Genova
Già in una seduta del 9 gennaio i Genovesi hanno nominato otto magnati incaricati dell’accoglienza e a loro il Banco di San Giorgio anticipa 25 mila libre per le spese. 100 case della Genova-bene sono state messe a disposizione degli ospiti. Il Moro arriva a Genova sabato 17 marzo, accolto solennemente. Due lettere da Genova segnalano “l’ingresso di Sua Eccellenza con singolare reverentia del popolo” e che “la città resta quietissima e senza un minimo scandalo”. Viene alloggiato in palazzo S. Giorgio. Un documento riporta un elenco prezioso degli “Alberghi che oggi hanno fatto riverentia” al Duca “nella Sala grande, posta nel Palazzo di Genova”. Sono nell’ordine: “Primo, li Marini, Fieschi, Lumellini, Cattanei, Pichamelli, Cibo, Salvatici, La Loggia di S. Donato cioè popolari vicini di diverse famiglie, Franci popolari diversi, Negri, Genali, Pallavicini, Centurioni, Pinelli, Lercari, Camilli, Spinoli in gran numero, Scaya, De Levante, Sauli, Fornari, Prementorii, Usus Maris, Gentili, Cigala, Squarciafichi, Grilli, Italiani, Imperiali, De Auria, Grimaldi, Justiniani, Da Campo, De Susilia, De Piccapietra, De S. Ambrogio, Negroni, Vivaldi”. C’è insomma tutta la Genova-bene ma è ben rappresentata anche la Genova che produce, con la presenza di “artèsi numero infinito, tutti ben vestiti come li gentiluomini”.
Chi conosce la storia di Genova noterà comunque che mancano alcuni nomi importanti come i Campofregoso; la ragione è che Battistino Campofregoso, signore di Novi ed ex Doge, in quel momento si è rassegnato a ritirarsi in esilio a Ferrara mentre suo zio ed acerrimo rivale, il Cardinale Paolo, arcivescovo e ex Doge di Genova, si trova anch’egli in esilio ma a Roma, dove muore proprio il 22 marzo di quello stesso 1498, mentre la Corte milanese è in trasferta a Genova. Quasi un segno del destino.
Una Corte nobile
In una lettera a suo cognato, il Cardinale d’Este, lo stesso Duca ci fa capire di aver portato con sé un battaglione di cortigiani, che costituiscono una specie di Corte mobile per permettergli di esercire atti di governo in ogni occasione e luogo: “Nel solenne corteo c’erano li camerieri nostri di camera con li altri gentiluomini nostri di maggiore conditione, la Cancelleria nostra e poi altra moltitudine”. E infatti, proprio mentre è a Genova, il Duca investe ai fratelli Carlo e Giorgio Spinola fu Luca le porzioni del feudo e del Castello di Dernice, che i due hanno acquistato da loro parenti condomini.
Mentre passa in Valle Scrivia l’illustre visitatore, i feudatari locali non trovano di meglio che litigare fra loro. Una lettera di Franco Spinola da Mongiardino ci fa sapere di una vertenza che ha con i Marchesi Malaspina, al cui Podestà di Godiasco (nonché Castellano di Cella) è stata sequestrata una mula. “Non è stata rubata alla strada”, assicura Franco, ma è stata catturata per rappresaglia dopo che lo stesso Podestà “prese de molti denari a due uomini di Baldassare Spinola, partecipe di questo luogo”. Il diritto di rappresaglia è stato ormai abolito nel Ducato di Milano ma in questi feudi imperiali non ha mai perso vigore.
Evitiamo al lettore la descrizione delle feste genovesi. Il Duca trova anche il tempo di visitare le fortificazioni del Castelletto e degli altri forti, da poco ritornate sotto controllo milanese dopo essere state affidate in custodia per due anni al Duca di Ferrara.
Poi, si pensa sempre accompagnato da Leonardo, visita il porto e le fortificazioni che lo proteggono. Il Senarega si limita a ricordare lapidariamente che il Moro “darsenam refici jussit”, probabilmente seguendo i suggerimenti di mastro Leonardo. Il fatto che del grande artista i documenti non parlino mai non deve stupirci perché egli non ha ancora raggiunto quella fama che poi è arrivata moltiplicata fino a noi. Ha appena finito di affrescare la Sala del Cenacolo in S. Maria delle Grazie ma pochissimi sono coloro che già hanno visto il capolavoro.
Mistero sul viaggio di ritorno
Anche del viaggio di ritorno del corteo ducale da Genova a Milano non si sa quasi nulla. Sappiamo che il Duca riparte da Genova il 26 marzo e che soltanto il 5 aprile è ad Alessandria. Ma che cosa fa durante tutto questo tempo? E’ probabile che sia passato di nuovo per Tortona per controllare se i lavori di fortificazione stessero procedendo come ordinato ma questa seconda visita non è documentata da alcuna lettera. Invece due lettere familiari inviate da Polidoro Calco “filius obsequentissimus” a suo padre aprono uno spiraglio interessante. Bartolomeo Calco, il padre di Polidoro, era un personaggio importante alla Corte di Milano, dove aveva cominciato la carriera come segretario della Duchessa Bona fino a diventare primo Segretario di Ludovico il Moro.
Il giovane Polidoro stava invece facendo i primi passi della carriera nella Cancelleria sforzesca.
La prima lettera di Polidoro è datata Novi, 28 marzo 1498, e dice:
Magnifice domine pater observantissime,
“Visto quello che mi ha scritto VM in risposta di una mia, che non mi ha scusato per non averLa avvisata de li andamenti nostri, benché La sia avvisata da altri, non mancherò da hora innante di tenerLa avvisata alla giornata dello star nostro et progressi. Avviso dunque VM come lunedì partissimo da Genova et andassimo ad alloggiare al Borgo de’ Fornari, et messer Agostino con tutta la Cancelleria et io alloggiassimo in Castello in cima del monte, per avere il nostro Ill.mo Signore preso l’alloggiamento della Cancelleria da messer Giovanni Spinola di
Serravalle, patrono di quelle terre et Castello.
Fùremo visti volentieri et ci fece le spese delle bocche; li cavalli erano alloggiati di sotto a l’hostaria. Lo martedì andassimo ad alloggiare a Novi, et messer Agostino con una parte dei Cancellieri alloggiarono in casa di uno messere Gabriele da Pino, cognato di messer Battistino [Campofregoso] et Commissario di quella Terra, et da lui ci furono fatte le spese del mangiare.
Lo mio logiamento del dormire lo ebbi in un altro luogo né mai ebbi una peggior notte, perché andai in uno letto ch’era pieno di pulici et cimici, et vi erano tanti ratti nella camera che pareva che tutto quel luogo andasse a rumore, in modo che la mattina stavo molto fresco et, se la notte che verrà non mi aiuta, li miei occhi si ritroveranno a mal partito.
Oggi andremo ad alloggiare al Castellazzo. Messer Agostino con tutti noialtri stiamo benissimo né alcuno di noi ha avuto alcun sinistro né male, per la gratia del nostro signore Dio.
Mi raccomando a VM, la quale prego saluti madonna mia madre da parte mia.
Ex Novi, die 28 marzo 1498
Filius obsequientissimus Polidorus
Questa lettera fu scritta chiaramente al mattino di quel 28 marzo, prima che la carovana ducale muovesse da Novi verso Alessandria. Infatti la lettera seguente porta la stessa data 28 ma parte da Castellazzo. Eccone il testo:
Magnifice domine pater observantissime,
ieri scrissi a VM che oggi anderessimo ad alloggiare al Castellazzo. Hora vi significo come vi siamo giunti et visti tutti universalmente tanto volentiera quanto sapessi desiderare, et abbiamo avuto le spese di noi et de li cavalli da li homini di questa Terra, dove siamo alloggiati senza pagamento alcuno.
Vennero incontro allo Ill.mo Signore uno gran pezzo [di strada] circa 300 putini dal Castellazzo, tutti con le bandiere de palpero [carta] pinte, gridando ‘Duca, Duca, Moro, Moro!’, et era un gran piacere a vedere con quanto buon ordine andavano con li suoi capi et tamburini.
Lo ill.mo Signore [il Duca] alloggiava nel Castello et noi nella Terra [paese], in casa di diversi cittadini. Messer Augustino et io, insieme con alcuni altri de li Cancellieri, andassimo a cena a casa de messer Matteo del Castellazzo, avendo lui voluto così, il che fu contro la volontà di quelli dove eravamo alloggiati, che volevano che restassimo con loro. Havemmo da trionfare [pranzare] politamente, et maxime di bonissimi vini. Et, cenato, ci invitò la mattina seguente alla colatione, et così vi andremo per non abbandonare quei suoi buoni vini et per fargli piacere.
Del che ne ho voluto dare avviso a VM per osservare quello che VM mi ha commesso [ordinato]. Non altro. Che VM si conservi in bona convalescentia.
Castellazzo, 28 marzo 1498
Filius obsequientissimus Polidorus Chalcus
Queste due lettere ci raccontano alcune cose curiose ma son ancora più interessanti per quello che tacciono. Cominciamo da quello che dicono. La velocità di spostamento della carovana è chiara: in un giorno si va da Genova a Borgo Fornari, poi ne occorre un altro per arrivare a Novi, un terzo per arrivare a Castellazzo. Diciamo una media di 30 chilometri/giorno. I cavallari della posta si muovono certo più velocemente (circa il doppio) ma si tratta di professionisti del viaggio. Un’altra cosa che colpisce è il modo di muoversi della carovana ducale, che viene ospitata di volta in volta dal feudatario più vicino o da quello che dispone del palazzo più importante. Meglio ancora se è un Castello, perchè con un ospite come il Duca non si sa mai. L’ospitante offre naturalmente vitto e alloggio ma se non ha abbastanza spazio per tutti, delega l’ospitalità ai vicini, che non sempre possono assicurare una completa igiene. Il fatto che il giovane Calco sia stato tormentato da pulci e pidocchi non deve stupire. E del resto, chi ha ora i capelli bianchi, ricorda benissimo che questi animaletti ci erano familiari nella prima metà del secolo scorso fino all’arrivo della rivoluzione chimica che li ha (quasi) sterminati.
Borgo Fornari è dunque la prima tappa. Gli ospiti di riguardo stanno nel Castello, il resto insieme ai cavalli giù in paese, nelle osterie che di solito danno alloggio e stallaggio ai mulattieri che trafficano da e per Genova, e dove si dorme su grandi pagliericci comunitari di dubbia igienicità.
La seconda tappa è Novi
La seconda tappa è Novi, dove c’è un Castello piccolo e non molto in ordine ma che probabilmente accoglie il Duca con pochissimi del suo seguito. In quel momento il Castellano è l’ufficiale sforzesco Giacomo da Vezzano secondo gli accordi che sono stati stipulati all’inizio dell’anno fra il feudatario Battistino Campofregoso e il Duca di Milano. Gli altri ospiti si devono accontentare dell’ospitalità in casa di Gabriele da Pino, un piemontese che ha sposato una sorella di Battistino Campofregoso e che ora governa il feudo di Novi, di cui è stato nominato recentemente Podestà. L’illustre cognato, infatti, in quel momento si trova da un mese a Ferrara in dorato esilio dopo che, con una snervante trattativa condotta anche per mezzo del tipografo novese Francesco Girardengo, si è accordato col Duca di Milano per lasciare la Corte francese (dove si è a lungo rifugiato) e per ritirarsi in uno stato di neutralità fra i Francesi e lo Sforza. Commissario sforzesco a Novi è stato fino a fine febbraio il funzionario milanese Genesio Anguissola, che poi ha ceduto il posto proprio al Da Pino. Il momento storico a Novi è perciò molto particolare.
Il ragazzo Calco non trova posto nemmeno nella stessa casa del Da Pino e gli tocca dormire in una camera di fortuna, infestata da pulci e cimici e topi. Più che dormire, si tratta di vegliare per potersi grattare, ed infatti il ragazzo ne scrive al padre fra il divertito e l’irritato. Ma la cosa che più sorprende è il cambiamento che avviene il giorno seguente quando la carovana si approssima al Castellazzo. Qui addirittura ci sono 300 bambini del paese che vanno incontro al Duca invocandone il nome e agitando delle bandierine di carta dipinte alla meglio. La differenza con la fredda accoglienza di Novi non potrebbe essere più eloquente.
I Novesi infatti non hanno mostrato molto entusiasmo per questa visita, ancora memori di quanto è avvenuto prima di una incursione francese dell’anno precedente, quando le squadre sforzesche che stanziavano a Novi, non riuscendo a tenere il paese, prima di abbandonarlo al nemico hanno dato fuoco a tutta la paglia e ai viveri che si trovavano nei magazzini e hanno rotto le spine delle botti di vino nelle cantine. Insomma, non hanno lasciato un bel ricordo di sé.
Invece a Castellazzo
Castellazzo, benché si trovi a pochi chilometri da Novi, ha invece una storia completamente diversa. Nel 1437 era stato infeudato a Vitaliano Borromeo il quale nel 1440 lo vendeva a Catalano e Innocenzo Cotta. Nel maggio 1463 il Duca Francesco Sforza lo infeuda a Cristoforo Guasco, signore di Alice, e alla sua morte il feudo viene devoluto il 30 marzo 1470 a Tristano Sforza, che è un figlio bastardo di Francesco Sforza. E’ un feudo ricco ed ambìto, e i suoi uomini si dedicano attivamente agli sfrosi del gualdo e delle biade, sfruttando la posizione al bordo della ricca area agricola padana. Al momento in cui vi transita il corteo ducale, dunque, il paese è un feudo che appartiene a un parente stretto del Moro e questo spiega la diversità nelle accoglienze, fin troppo calorose rispetto a quelle di Novi. Anche a Castellazzo, come a Bosco, gli sforzeschi stanno costruendo qualche opera di difesa contro il pericolo francese.
Dopo la sosta a Castellazzo (e probabilmente un passaggio a Bosco), il corteo ducale il 5 aprile era finalmente ad Alessandria. E Leonardo era sempre della partita? Niente ce lo fa capire ma un appunto lasciato dal maestro in uno dei suoi preziosi manoscritti ci permette di immaginare che ci fosse, e quindi che anche lui sia passato per Novi. Ecco che cosa scriverà Leonardo più tardi: “Ad Alessandria della Paglia, in Lombardia, non c’è altra pietra da far calcina se non mista con infinite cose nate in mare, la quale [città] oggi è remota dal mare più di 200 miglia”. Il grande Maestro ha visto di persona questo materiale e si è reso benissimo conto che le rocce calcaree disponibili in gran parte dell’Alessandrino per produrre calce edilizia sono costellate di fossili marini, un fatto apparentemente inspiegabile, vista la distanza della città dalla linea di costa attuale.
Ludovico il Moro era stato già a lungo a Tortona nell’autunno del 1496 quando l’Imperatore Massimiliano I era sceso in Italia per uno strano viaggio che non aveva portato ad alcun risultato ma che lo aveva obbligato a dormire la notte del 23 settembre a Tortona nel palazzo Montemerlo. Da qui l’Imperatore ripartì subito per Genova mentre a Tortona arrivava Ludovico, che da lì il 25 settembre scriveva al suo uomo al seguito dell’Imperatore: “Continuando il tempo a questo modo, la Maestà Cesarea forse non potrà avere così presto come stima l’artiglieria. Perciò voi con bon modo entrerete a parlare con lui che questo è pur un cattivo tempo e che per essere li terreni di questo paese della qualità che sapete, piovendo, con difficoltà si potrà condurre l’artiglieria così presto” (Sforzesco 1185bis). Tre giorni dopo, il Moro è ancora a Tortona donde scrive al suo uomo a Genova: “Con gran piacere sentiamo che la Maestà Cesarea si sia confermata in opinione di andare a Pisa e perciò avrete tanto meglio il modo di persuaderlo a lasciare l’artiglieria e che non si conducano qui” (Sforzesco 1185bis). Il 29 settembre da Tortona rimprovera i “deputati rei pecuniarie” di Milano che non gli hanno spedito da Milano “la lettera di cambio per Genova” che aveva chiesto e che ora lo espone a una brutta figura con l’Imperatore “mancando Noi a quello che tutti gli altri confederati fanno innanti agli occhi della Maestà Cesarea” (Sforzesco 1135).
Il 1° ottobre il Moro è ancora a Tortona, dove probabilmente alloggia nel palazzo dell’amico Bergonzo Botta, fratello del Vescovo tortonese. Da lì scrive al suo uomo a Genova che Gianluigi Fieschi (signore, fra l’altro, di Garbagna, Grondona e Vargo) si è offerto di ospitarlo nel proprio palazzo di Via Lata a Genova; ma egli non ha nessuna intenzione di passare i Giovi (Sforzesco 1221). Sempre da Tortona manda un’altra lettera al fratello Ascanio Sforza, cardinale alla Corte papale di Roma (Sforzesco 116). Molti decreti firmati dal Moro risultano emessi a Tortona dal 26 settembre al 5 ottobre (Registri Ducali 189). Il 4 ottobre il Duca è ancora a Tortona dove un funzionario gli comunica che la moglie dell’Imperatore, Bianca Maria Sforza, nipote del Moro, è stata accolta a Castelnuovo “da questi gentiluomini et donne” che sono andati a prenderla fino a Voghera. La giovane Imperatrice, lasciata lungo il cammino dal suo marito pazzoide come se fosse un pacco troppo ingombrante, avendo saputo che il Moro sta per lasciare Tortona per rientrare a Milano, chiede che cosa dovrà fare “o stare o venirsene al Suo cospetto”. Probabilmente è lo stesso zio Duca che la preleva a Castelnuovo e la riporta a Milano passando però per Branduzzo (altra grandiosa residenza di Bergonzo Botta) da dove scrive l’8 ottobre al suo uomo a Genova (Sforzesco 1220).