di FRANCESCO MELONE
Dell’epica impresa dei Mille, alla quale, come è noto, parteciparono anche volontari novesi, si vuole qui ricordarne l’antefatto e le azioni che ne seguirono fino alla conquista di Palermo, quando si contarono più volontari tra le file dei garibaldini rispetto al numero col quale sono passati alla storia, e cioè nel periodo che comprende la parte forse più romantica, avventurosa ed entusiasmante di tutta l’impresa, con uomini animati dalla volontà di contribuire alla costruzione di un futuro migliore per sé e per gli altri.
È meno noto che l’attributo “I Mille” risale a qualche mese dopo l’imbarco da Quarto, precisamente ed ufficialmente al 24 ottobre 1860, allorquando si diede seguito alla delibera del Senato della Città di Palermo, datata 21 giugno 1860, che istituiva una medaglia d’argento per onorare i volontari che avevano per primi messo piede in Sicilia: il relativo diploma inizia infatti con «A Voi (nome e cognome), uno dei 1000 prodi sbarcati con Garibaldi a Marsala…»
Nel marzo 1860 la penisola italiana è divisa in tre Stati: il Regno di Sardegna – comprendente il Piemonte con la valle d’Aosta, la Liguria, la Lombardia, l’Emilia e la Toscana – lo Stato Pontificio con Umbria, Marche e Lazio, ed il Regno delle Due Sicilie, con Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia. Fanno parte dell’Impero Austriaco Mantova, il Veneto, il Trentino, ed il Friuli.
Il Regno delle Due Sicilie, immutato da secoli nelle sue frontiere, è il più esteso degli Stati della Penisola e il più popoloso, con i suoi nove milioni di abitanti, ed i circa 500 mila cittadini di Napoli costituiscono la più numerosa popolazione urbana d’Italia, superando torinesi e milanesi messi insieme. Ha però altri miserevoli primati: quello della più diffusa povertà, dell’analfabetismo, del minor sviluppo industriale, della minore estensione stradale e ferroviaria e quindi ignoranza estrema delle classi popolari. Al ceto contadino abbruttito, alla misera e rassegnata borghesia, alla nobiltà parassitaria e animata da spirito feudale, si contrappone una classe intellettuale attiva e intelligente, ma il solco tra questa e la monarchia si è venuto da sessant’anni inesorabilmente approfondendosi.
È ancora vivo il ricordo di quei giorni del 1799, quando nella piazza del mercato di Napoli, gremita di plebaglia plaudente, centoventi tra le più belle e alte figure della nobiltà e dell’intellettualità erano state sacrificate sul patibolo all’odio del re. Erano colpevoli di aver creduto negli ideali di eguaglianza, fratellanza e libertà ed avevano creato, sotto l’usbergo della Francia, la Repubblica Partenopea; per annientarli re Ferdinando II di Borbone aveva scatenato contro di loro quel popolo, che essi intendevano riscattare, meritandosi poi, nel 1848, l’epiteto di “re Bomba”, dopo il bombardamento di Messina in rivolta e sotto assedio. È da questo momento che l’intelligenza e la coscienza del Mezzogiorno abbandonano i Sovrani, ma a costoro poco interessano gli intellettuali e si fidano molto di più dell’esercito e del clero, che controlla le plebi rurali.
Alla vigilia del suo crollo, lo Stato borbonico può contare su una forte flotta (22 navi a vapore, 10 a vela), su un esercito ben armato con circa 80 mila uomini e 5000 cavalli; i soldati sono abbastanza ben addestrati, sobri e resistenti, ma hanno in genere comandanti inadeguati e gli alti ufficiali sono ormai vecchi e rinunciatari. Nei quadri più giovani, e specie in quelli della Marina, sono diffuse le idee liberali, un certo patriottismo italiano e la consapevolezza, o almeno il dubbio, di servire un regime ormai decrepito. Infatti i Borboni si sono via via sempre più isolati dalla maggior parte degli Stati Europei. Re Ferdinando II muore nella primavera del 1859, proprio mentre si stava scatenando sull’Italia la bufera della guerra e delle rivoluzioni, lasciando il trono al figlio ventitreenne, Francesco II, sensibile, intelligente, ma debole, privo di fantasia, pieno di ripensamenti e che, non certo fatto per il potere, aveva osservato inerte gli avvenimenti che scuotevano la Penisola. Passerà alla storia con il nomignolo di “Francischiello”
Da Torino, nell’aprile 1860, re Vittorio Emanuele II gli scriveva, consigliandolo a concedere la Costituzione, a fare qualcosa, a uscire dall’isolamento, ad allearsi con lui, creando un’intesa fra Torino e Napoli, avviando eventualmente una federazione fra i due regni. A questa lettera Francesco non aveva risposto, probabilmente consigliato a ciò dalla moglie, la principessa bavarese Maria Sofia di Wittelsbach (sorella della celebre Sissi, imperatrice d’Austria), donna non brillante d’ingegno, ma energica, coraggiosa, testarda, la vera detentrice del potere.
Camillo Benso, conte di Cavour, primo ministro del Regno Sabaudo, dopo l’annessione della Lombardia, dell’Emilia e della Toscana, riteneva, almeno per il momento, esaurita la capacità espansiva del suo Governo. L’Italia meridionale è del tutto assente dai suoi pensieri, ma alcuni eventi lo costringono a rivedere i suoi propositi: oltre al riavvicinamento all’Austria del giovane nuovo re borbonico, in appoggio alle rivendicazioni di Papa Pio IX, del Granduca di Toscana e dei duchi di Modena e Parma, veniva segnalato il riacutizzarsi di fermenti liberali soprattutto in Sicilia.
Infatti, mentre la classe popolare napoletana era largamente filoborbonica, una larga diffusione di idee liberali serpeggiava nella borghesia e in parte nell’esercito, mentre la più decisa ad opporsi era la fronda siciliana in chiave separatista antinapoletana, sopravvissuta alla feroce rappresaglia del 1848, condivisa anche dal ceto rurale. Tale opposizione si concretizza nell’aprile 1860 con l’insurrezione a Palermo, capitanata da Francesco Riso, subito però repressa in città, ma tenuta desta nelle campagne con la marcia da Messina a Piana dei Greci di Rosolino Pilo, il quale, dopo lo sbarco di Marsala riuscirà ad aggregarsi ai garibaldini e morirà combattendo a San Martino, sulla via di Palermo.
Dappertutto si sente esclamare: «Verrà Garibaldi!». C’era però nei pensieri dell’Eroe l’incertezza se ci fosse da arrischiare una spedizione, che, fallendo, potesse compromettere il futuro dell’unità d’Italia; appena tre anni prima era finito sanguinosamente a Sapri il tentativo di Carlo Pisacane di far insorgere il Napoletano. Inoltre Garibaldi era fortemente adirato con Cavour, che aveva ceduto ai francesi la sua città natale, Nizza: forse valeva la pena di tentare invece un moto popolare in Nizza stessa.
Per il Primo Ministro piemontese l’Eroe dei Due Mondi era fonte di preoccupazione a causa della dichiarata determinazione di marciare su Roma, e quindi di provocare un intervento della Francia, col rischio di vedere annullato anche ciò che si era appena ottenuto e cioè le annessioni degli Stati dell’Italia Centrale. Tuttavia sapeva che era l’uomo giusto per agire al di là degli schemi convenzionali, proprio secondo le intenzioni cavouriane. Inoltre era noto che Garibaldi, contrariamente a Mazzini, aveva messo da parte l’ideale repubblicano a favore della primaria causa dell’Unità Italiana, per cui egli, avvolto nell’alone della sua universale popolarità, rappresentava l’uomo adatto per tentare un’impresa, che, se fosse fallita, non avrebbe compromesso il Governo Sardo.
Di fronte alle insorgenze dei siciliani ed alle richieste provenienti da più parti, soprattutto da quella di Francesco Crispi, che aveva fatto carte false per convincerlo, Garibaldi vinse la sua titubanza ed è risaputo che, presa una deliberazione, non retrocedeva mai.
«Mandate le balle di seta, il negoziante parte». Con questo “messaggio speciale”, diramato tramite telegrafo, i garibaldini vecchi e nuovi sono avvertiti che la spedizione è imminente. Il 2 maggio, mentre a Genova stanno affluendo volontari, contributi ed armi, queste poche, Cavour, che aveva sempre segretamente favorito ed incoraggiato le agitazioni che scoppiavano in Sicilia, con una improvvisa corsa in treno, si incontra a Bologna con Vittorio Emanuele II, giunto in carrozza da Firenze. Non si sa e non si saprà mai che cosa si siano detti, ma pare che Cavour abbia manifestato ancora delle perplessità, mentre il re, spesso in contrasto col suo Primo Ministro, abbia espresso il suo completo consenso all’avventura garibaldina; resta il fatto che Garibaldi è lasciato libero di condurre i preparativi, e l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, comandante della flotta, riceverà l’ordine di non ostacolare in mare la spedizione, ma solamente di fermarla in caso di attracco in un porto sardo.
Come scrive nel suo Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille, il 4 maggio, insieme ad altri sedici volontari, la maggior parte studenti, Giulio Cesare Abba parte da Parma in treno, che ferma a Voghera, a Tortona e a Novi, allora uno dei nodi ferroviari più importanti. Qui sostano alcuni soldati di fanteria ed un sottotenente gli chiede «Vorrebbe telegrafarmi da Genova l’ora che partiranno?». L’Abba stupito e titubante non risponde subito. Dov’è la segretezza? « Serbi pure il segreto, ma creda, non l’ho pregata con cattivo fine » soggiunge sorridendo l’ufficiale.
Intanto quel 4 maggio Giacomo Medici, veterano della difesa della Repubblica Romana del 1849, firma, per conto di Garibaldi il contratto di acquisto dalla società Rubattino dei due vapori Piemonte e Lombardo, il cui prezzo è segretamente garantito dalle Finanze Regie, mentre per il loro possesso si fingerà un atto di pirateria, eseguito da Nino Bixio con una quarantina di volontari. Nella notte tra il 4 ed il 5 maggio, i garibaldini, lasciato il raduno di Sottoripa, si imbarcano presso lo scoglio di Quarto, ovviamente perché meno esposto rispetto al porto di Genova: sono 1162, armati, pochi, con vecchi fucili e con scarsissime munizioni.
I più tanti sono sotto i 25 anni dì età: il più giovane, Giovanni Marchetti, proveniente da Chioggia con il padre, ha undici anni, il più anziano, Tommaso Parodi, genovese, è un sessantanovenne che ha combattuto con Napoleone I, e c’è anche una donna, l’unica della spedizione, Rosalia Montmasson, che in abito maschile accompagna il marito, Francesco Crispi. I sudditi borbonici sono una novantina, l’80% proviene dall’Italia settentrionale, soprattutto bergamaschi (166), con altri 277 lombardi, 157 liguri e 30 piemontesi; 14 i trentini, sudditi austriaci, e 18 gli stranieri: 5 ungheresi, 3 nizzardi, 2 svizzeri, un corso, un francese, un inglese, un greco, un russo, un turco, un africano e un americano, il figlio dell’Eroe, Menotti, nato a Mostardas in Brasile nello Stato del Rio Grande do Sul. Nell’elenco 12 sono dichiarati di ignota origine.
Ci sono veterani e reduci, patrioti sfuggiti alle forche ad alle prigioni, idealisti che inseguono sogni di gloria, letterati in cerca di emozioni, indigenti che sperano in una migliore sistemazione, ma anche ufficiali e sottufficiali dell’ Esercito: di questi 15 sarebbero diventati un giorno generali e Crispi e Cairoli primi ministri. Molti gli operai, pochi i contadini, parecchi provengono dalle Università, 150 sono già o diventeranno poi avvocati, 25 sono medici, 6 farmacisti, 2 veterinari, 18 ingegneri, 50 capitani di mare e marinai, 10 pittori e scultori, tra i quali Giobatta Tassara, genovese, che aveva preso a modello se stesso per scolpire il Mosè che figura nella chiesa del cimitero di Staglieno; si contano parecchi scrittori, professori, tre preti e qualche seminarista; una settantina quelli qualificati proprietari e possidenti e poi centinaia di artigiani, tra cui un bottaro, un causidico, un prestidigitatore e un girovago, che sarà dichiarato indegno della medaglia e della pensione vitalizia istituita per i Mille. Solo 150 hanno la camicia rossa; i più sono vestiti in modo disparato. “Variopinti” li definirà Garibaldi con un efficace termine, che non si riferisce solo all’abbigliamento.
La spedizione, con il Piemonte al comando di Garibaldi ed il Lombardo a quello di Bixio, il 7 maggio fa tappa davanti al forte di Talamone, sulla costa toscana, per rifornirsi di armi e munizioni ed il 9 a Porto Santo Stefano per caricare carbone. Garibaldi ottiene quanto fa prelevare, in virtù del suo grado di maggior generale dell’Esercito Sardo, di cui veste la divisa, ma soprattutto con l’evidente tacito consenso di Cavour, e provvede a organizzare militarmente i volontari, che si erano imbarcati alla rinfusa, raggruppandoli in 8 compagnie componenti due battaglioni, comandati il 1° da Nino Bixio ed il 2° dal siciliano Giacinto Carini. Per non servire la causa monarchica, proclamata da Garibaldi con l’ordine del giorno “Italia e Vittorio Emanuele”, letto ai reparti, nove intransigenti mazziniani abbandonano la spedizione.
Inoltre, allo scopo di far credere ad una diversione, 64 volontari restano a terra con l’ordine di penetrare nello Stato Pontificio ed accendervi la rivolta. Sono guidati dal forlivese Callimaco Zambianchi, acceso anticlericalista ammazzapreti, combattente con Garibaldi in America e a Roma nel 1849, individuo poco raccomandabile, per cui è probabile che Garibaldi volesse liberarsene. Sono in effetti subito fermati a Grotte di Castro, a nord del Lago di Bolsena, in uno scontro con le truppe papaline e, arrestati poi dai carabinieri piemontesi, saranno condotti a Genova sotto scorta armata; ben presto rimessi in libertà, escluso lo Zambianchi, che processato verrà espulso e scomparirà in un viaggio verso l’America, a scaglioni raggiungeranno Garibaldi in Sicilia, ma nessuno verrà incluso nell’elenco dei Mille, anche se riceveranno poi ugualmente la pensione.
La mattina dell’11 maggio, 1089 garibaldini – numero riportato nell’elenco alfabetico del supplemento alla Gazzetta Ufficiale n.266 del 12 novembre 1878 – armati di vecchi fucili, 20 cartucce a testa e un’artiglieria di tre cannoncini e di una colubrina del XVII secolo “lunga come la fame”, annullato lo sbarco previsto a Trapani, dove vengono segnalate truppe borboniche, dirigono su Marsala, nel cui porto sono ormeggiate due cannoniere inglesi ed un mercantile americano, ma nessuna nave ostile. Durante lo sbarco sopraggiungono tre unità da guerra borboniche, che però non possono aprire il fuoco per il rischio di colpire i legni neutrali. Soltanto dopo lo sbarco, salpate le navi inglesi, il Lombardo, arenato, viene incendiato ed il Piemonte, catturato, è rimorchiato a Napoli. L’accoglienza della popolazione marsalese è abbastanza fredda, forse per diffidenza, paura, o semplicemente per la non conoscenza del fatto e ciò preoccupa Garibaldi, che conta sull’appoggio della popolazione di fronte all’esercito borbonico, che sulla carta appare molto agguerrito, come abbiamo visto, con una forza di circa 80.000 uomini, 25.000 dei quali sono dislocati in Sicilia, con cavalleria ed artiglieria, appoggiati a munite fortezze.
Senza più possibilità di scampo sul mare, a Garibaldi non resta che una scelta: o vincere o morire. Convocato la sera stessa il Decurionato di Marsala, nella sala grande del palazzo della Loggia, su consiglio del siciliano Crispi, mente politica della spedizione, annuncia, fra le ovazioni, la decadenza dal trono di Francesco II delle Due Sicilie. Alle 5:30 del 12 maggio inizia la marcia verso Salemi, dove il 13 si proclama “Comandante in capo delle Forze Nazionali in Sicilia” e “Dittatore in nome di Vittorio Emanuele II, re d’Italia”. I Mille sono già circa 1500, affiancati dai picciotti del barone Giuseppe Sant’Anna di Alcamo, promotore nell’aprile di una rivolta nella sua città, e del cavaliere trapanese Giuseppe Coppola, già accanito cospiratore antiborbonico.
A Salemi G.C. Abba rivede l’ufficiale incontrato a Novi, si informa e gli dicono che è un disertore proveniente da Novara e che si fa chiamare De Amicis.
Partiti da Salemi, i Mille avanzano all’alba del 15 sulla via per Calatafimi, dove si trova l’anziano generale borbonico Francesco Landi a capo di 3100 uomini. Appreso l’arrivo dei garibaldini il Landi irradia sei compagnie in avamposti presso una collina detta Pianto dei Romani (Chiantu de Romano, cioè vigneto di Romano), mentre i garibaldini coronano le alture di Pietralunga. Verso le ore 10 i borbonici decidono di attaccare e scendono nel vallone iniziando la salita opposta. I garibaldini li attendono sulle prime senza far fuoco, quindi si lanciano al contrattacco obbligando il nemico a ripiegare e lo inseguono fino alle pendici del ciglione da cui è partito. Qui la lotta diventa più aspra per l’accanimento dei borbonici, che, come riconoscerà Garibaldi, si battono meglio degli Austriaci in Lombardia, negli scontri dell’anno prima con i suoi Cacciatori delle Alpi.
Infatti in un primo momento i garibaldini sembrano destinati a soccombere, tanto che Nino Bixio, suggerisce a Garibaldi la ritirata, ma « Bixio, qui si fa l’Italia o si muore » è la storica risposta del generale. Forse l’Eroe ha gridato più prosaicamente «Ritirarci, ma dove?», pensando che una sconfitta avrebbe fatto svanire l’appoggio dei siciliani e la fine dell’impresa. Postosi alla testa di un centinaio di volontari attardati nella retroguardia ordina l’attacco alla baionetta e l’impeto dei nuovi venuti capovolge la situazione: sono le tre del pomeriggio e il colle su cui erano attestati i borbonici viene conquistato. Ancora una volta ha trionfato la tattica garibaldina di tenere incessantemente il nemico sotto pressione e, in inferiorità di armamento, con attacchi alla baionetta. Le truppe napoletane, sorprese, finiscono per sbandarsi ed il Landi, temendo che venga loro tagliata la via verso Palermo, ordina la ritirata, che egli considererà “la migliore delle vittorie”, ma che invece gli procurerà l’accusa di tradimento. Nella notte prenderà la via per Alcamo e Garibaldi all’alba entrerà in Calatafimi. Tra i garibaldini 32 sono i caduti – il primo dei quali è un francese di Bastia, Desiderato Pietri – e 180 i feriti, tra cui Menotti e Bandi; sono da aggiungere una decina di morti ed una quarantina di feriti tra i picciotti. I borbonici lamentano 34 morti e 140 feriti.
Scrive ancora G.C.Abba: « I nostri morti che giacciono su quei dossi, sono più di trenta. Gli ho quasi tutti dinanzi agli occhi, come erano due giorni or sono, baldi, confidenti, allegri. Ma un d‘essi mi mette un non so che sgomento nell’anima, quell’ufficiale che vidi a Novi, che rividi a Salemi, e non rivedrò mai più. Anche De Amicis è morto, è rimasto là nella gloria con nome non suo». Si chiamava infatti Costantino Pagani, di 23 anni da Borgomanero e per seguire Garibaldi aveva disertato dall’esercito piemontese, insieme ad un piccolo gruppo di soldati che si erano uniti alla spedizione.
Affermerà Garibaldi: «La vittoria di Calatafimi, benché di poca importanza per quel che riguarda gli acquisti, avendo noi conquistato un cannone, pochi fucili e pochi prigionieri, fu d’un risultato immenso per l’effetto morale, incoraggiando le popolazioni e demoralizzando l’esercito nemico. La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la brillante campagna del ’60 ».
Infatti quella vittoria apre a Garibaldi la conquista di Palermo, presidiata da oltre 20.000 borbonici, occupata il 30 maggio, dopo una dura lotta di tre giorni con l’aiuto di una insurrezione popolare. A questo punto si può considerare terminata l’impresa dei Mille, perché il Cavour, visto i felici successi dell’impresa, cominciò ad aiutarla apertamente, sia inviando nel porto di Palermo la flotta piemontese, agli ordini dell’ammiraglio Persano, sia favorendo due nuove spedizioni di volontari, una condotta dal Medici, giunta a Palermo il 20 giugno con 3500 uomini su tre vapori americani e, pochi giorni dopo, il 6 luglio, l’altra con circa 2500 volontari guidati dal generale Enrico Cosenz. Giungono appena in tempo per rinsanguare quanti restano dei Mille, poche centinaia di combattenti validi, male equipaggiati, con appena 390 fucili e scarse munizioni.
Sembra impossibile che un pugno di uomini male armati, non appoggiati da nessun governo, abbia messo in ginocchio un regno secolare e ne abbia umiliato l’esercito, appoggiato a poderose fortezze, dotato di artiglieria e sostenuto da una agguerrita flotta.
Rimaneva da conquistare la Sicilia orientale, il che avvenne il 20 luglio, con la difficile battaglia di Milazzo contro il grosso delle truppe borboniche comandate dal colonnello Ferdinando Beneventano Del Bosco – forse il miglior stratega in cui si imbatté Garibaldi – e la successiva entrata in Messina il 28 luglio. Nella notte fra il 18 e il 19 agosto si effettua lo sbarco nel continente a Melito Porto Salvo, 30 km a sud-est di Reggio Calabria. Inizia subito la risalita verso Napoli, dove entrerà da trionfatore il 7 settembre, quattro mesi dopo l’imbarco a Quarto.
Dopo l’ardua battaglia del Volturno, il 26 ottobre Garibaldi incontra Vittorio Emanuele II sul bivio da Presenzano a Teano, presso una stazione di posta, la taverna della Catena, nella locanda S. Nicola e, accompagnatolo a Napoli, il 7 novembre gli cede la sovranità sui territori conquistati, prima di imbarcarsi il 9, sul far dell’alba, per la sua Caprera, salendo su una barchetta, che egli stesso stacca dalla riva per raggiungere il piroscafo americano Washington, posto ai suoi ordini. Deluso ed amareggiato per il mancato riconoscimento di alcuni richiesti diritti militari a favore delle sue Camice Rosse, aveva rifiutato tutti gli onori che gli venivano offerti, il Collare dell’Annunziata ed il grado di Generale d’Armata. Portava con sé quale ricompensa per i pericoli occorsi, per le vittorie conquistate, per le regioni assicurate al Regno d’Italia, un rotolo di merluzzo secco, un sacco di sementi ed uno di legumi e qualche centinaio di lire.
Il giorno prima nella piazza di Caserta aveva adunato il suo piccolo, ma ardimentoso esercito per congedarlo, ma non con un addio, bensì con un arrivederci e col pensiero volto a Venezia ed a Roma. Il 3 a Napoli l’aveva passato in rassegna e distribuito personalmente 457 medaglie d’argento istituite dal Consiglio Civico di Palermo, 78 delle quali destinate ai caduti in combattimento durante la spedizione; il 26 ottobre il colonnello Antonio Mordini, prodittatore in Sicilia, ne aveva già distribuite alcune centinaia ai garibaldini presenti nella capitale siciliana. Non ne saranno assegnate altre ed il conio distrutto.
I Mille erano diventati diecimila, duemila dei quali avevano dato la vita per la causa dell’Unità d’Italia. La loro straordinaria impresa era entrata nella mitologia popolare ed aveva suscitato sentimenti di ammirazione in tanti Paesi.
L’episodio narrato da G.C.Abba, prima citato, non è il solo della città di Novi legato all’impresa dei Mille. Due sono i volontari novesi riportati nell’elenco ufficiale del 1878. Uno è Cattaneo Francesco, di Michelangelo, nato a Novi il 17 ottobre 1835. Partito da Quarto sul Lombardo e assegnato alla compagnia di Nino Bixio, negli assalti di Calatafimi venne ferito ben quattro volte da arma da fuoco e ricoverato nel Convento di San Michele, trasformato in ospedale della città. Ristabilito fece tutta la campagna meridionale, raggiungendo il grado di tenente, come riferisce Giuseppe Bandi, il quale, nel citarlo nel suo libro “I Mille”, racconta che durante l’assedio di Capua gli ordinò di rintracciare ed arrestare una spia borbonica, certo Garofalo. Il diploma relativo alla medaglia dei Mille che gli fu conferita recita: A Voi, Cattaneo Francesco, uno dei 1000 prodi sbarcati con Garibaldi a Marsala il dì 11 maggio 1860, il Senato di Palermo questo attestato rilascia, accompagnato dalla medaglia che decretava la nostra cittadina rappresentanza, e che oggi il Municipio vi conferisce. Palermo il dì 24 ottobre 1860.
Tornato a casa aveva ripreso la sua attività di negoziante, sempre presente in occasione di cerimonie in onore di Garibaldi e di Benedetto Cairoli, che riceverà il 7 aprile 1879 alla stazione ferroviaria di Novi. Alla morte dell’Eroe sarà uno degli oratori nella cerimonia commemorativa. Fu socio dell’Accademia Filarmonica, Artistica, Letteraria e presidente della sezione novese della Società dei Carabinieri. Colpito da male incurabile, morirà il 15 novembre 1884.
L’altro novese è un carrettiere, Punta Paolo Giuseppe di Alberto, nato nel 1841 e morto a Novi il 15.11.1864. Non si hanno di lui altre notizie, data anche la brevità della sua vita, di appena 23 anni.
Un terzo novese ha partecipato all’impresa: è Papa Paolo Alberto Filippo, che nei registri dei battesimi della parrocchia di San Pietro è elencato come figlio di Bartolomeo di Francesco e di Pesce Paola fu Pietro. Nato il 22 giugno 1832 e laureato in Farmacia nel 1854 all’Università di Genova, si dedicò ai soccorsi dei malati colpiti dal colera, che in quell’anno infieriva nel capoluogo ligure.
Nel giugno 1860, imbarcato sulla nave Utile, partiva con la spedizione Medici – per ciò non indicato nell’elenco dei Mille – e raggiungeva a Palermo Garibaldi, che lo nominava Capo-farmacista dell’Ambulanza Generale. Nella battaglia del 1° ottobre si distingueva sotto Capua, per cui fu fregiato della medaglia al Valor Militare, mentre Garibaldi, nel promuoverlo con decreto speciale al grado di maggiore, gli scriveva: Vi ringrazio pel coraggio unico con cui avete raccolto i nostri feriti sul campo di battaglia e li avete assistiti. Sul Times di Londra del 27 ottobre 1860 dalla corrispondenza relativa alla presa di Capua si legge: Lasciatemi far menzione fra le persone che meritano grande onore e che non bisogna dimenticare, il nome di Paolo Papa, chimico genovese, il quale si è esposto al più gran pericolo e più di qualunque altro, nel portar via i feriti dal campo. Al termine della campagna riceverà un ritratto con una dedica che recita: All’egregio cittadino Paolo Papa ex Capo-farmacista nell’Armata Meridionale, che durante la guerra nell’Italia meridionale diede nobili prove di operosa dedizione alla Patria ed ai combattenti per essa, Giuseppe Garibaldi manda in dono la propria effigie qual segno di affettuosa riconoscenza. Giuseppe Garibaldi.
Il 29 agosto 1862, Paolo Papa è ancora con Garibaldi durante l’infausto episodio dell’Aspromonte, concluso col ferimento e l’arresto dell’Eroe; anch’egli viene arrestato ed amnistiato solo all’inizio di ottobre. Nel 1864, con decreto governativo è nominato Farmacista Visitatore del Circondario di Levanto. Durante la terza guerra d’Indipendenza, nel 1866, parte per la campagna del Tirolo come Capo-farmacista di prima classe nel corpo dei Volontari Italiani, comandati da Garibaldi, e Sovrintendente di tutto il materiale d’ambulanza. Nell’elenco delle ricompense speciali assegnate a coloro che si distinsero in quella campagna è compreso il nome di Paolo Papa perché: Decorato Cavaliere dell’Ordine dei SS: Maurizio e Lazzaro, per la diligenza e l’assiduità dimostrate nel suo molteplice lavoro di Ispettore di tutto il materiale, provvedendo ai nostri Ospedali temporanei, raccogliendo e distribuendo i doni dei Comitati, prestandosi con distinzione a perizie di forniture farmaceutiche e per esami chimici di vettovaglie (Da “La Società” n.44 del 31 agosto 1873).
L’impresa dei Mille ha coinvolto anche due illustri nostri concittadini.
Il primo ballo del musicista novese Romualdo Marenco, composto a 21anni nel 1862, si intitola Lo sbarco di Garibaldi a Marsala e la presa di Palermo; verrà rappresentato al teatro “Doria” di Genova con la coreografia storica del Pulini, ottenendo un enorme successo.
La sera del 30 maggio 1862, al teatro Regio di Parma, l’attore Romagnoli declama, alla presenza dell’Eroe, il Cantico della Sicilia, scritto dal drammaturgo Paolo Giacometti. Al termine, Garibaldi, commosso, si alza per stringere la mano all’autore e la sera dopo, tornato in teatro, lo vuole seduto accanto a sé, nel palco reale, e gli donerà il proprio ritratto con la dedica Al caro poeta della libertà italiana Paolo Giacometti, il suo Giuseppe Garibaldi.
Ricordiamo gli altri volontari partiti in quel 1860 dalle terre dell’attuale provincia di Alessandria:
- Buffa Emilio fu Paolo (Ovada, 18.11.1833 – Torino, 23.12.1875),
- Cogito Guido (Acqui T., 22.11.1841- Milano, 30.10.1910),
- Giola Giovanni (Alessandria, 12.11.1814 – morto a Torino),
- Marchelli Bartolomeo di Giacomo (Ovada, 24.8.1834 – Nervi, 17.2.1903), virtuoso giocoliere. Si distinse a Sebastopoli nel 1855 e seguì Garibaldi nell’Aspromonte, a Bezzecca ed a Mentana,
- Olivieri Pietro, (Alessandria, 25.6.1835 – Salerno, 17.10.1884),
- Pernigotti Giovanni di Vittorio (BoscoMarengo,15.11.1842-ivi,18.6.1905),
- Repetto Domenico fu Giuseppe (Tagliolo, 1.8.1829 – ivi, 18.11.1871),
- Rodi Carlo fu Vincenzo (Bosco Marengo, 23.3.1799- Fresonara,22.2.1862),
- Romanello Giuseppe di Giovanni Battista (Arquata S.,18.3.1839 – 24.5.1860), morto nell’ospedale di Calatafimi, in seguito alle ferite riportate in quella battaglia.