NOVI LIGURE: IL SUO NOME; LE SUE ORIGINI, IL SUO PRIMO DOCUMENTO

Il nome attuale di Novi Ligure è tale per decreto reale dell’ 11 gennaio 1863, a seguito della decisione unanime del Consiglio Comunale, durante la seduta del 17 settembre 1862, in cui si doveva scegliere un termine aggiuntivo all’antica denominazione, per evitare confusioni con altre località omonime entrate a far parte del Regno d’Italia dopo la sua unificazione, come la Novi in provincia di Modena.

L’aggettivo prescelto intendeva non dimenticare i legami storici della Città con Genova, sotto la cui giurisdizione era stata soggetta  ininterrottamente dal 1529 al 1815, oltre a precedenti altri alterni periodi, durante le confuse vicende comunali nel Medioevo italiano, quando anche per la nostra comunità i passaggi dall’influenza di uno Stato all’altro erano  assai frequenti.

Oltretutto ricordiamo che il 14 dicembre 1818 Novi era diventata capoluogo di una provincia facente parte della Divisione di Genova e tale rimase fino alla Legge dell’alessandrino Urbano Rattazzi del 23 ottobre 1859, che la incluse nella Provincia di Alessandria.

Verso la fine degli anni trenta del XX secolo ci fu un tentativo di sostituire l’aggettivo Ligure con il sostantivo Piemonte – esistono alcune cartoline dell’epoca con tale denominazione – ma la cosa non ebbe largo seguito e venne abbandonata definitivamente per la non approvazione dei novesi.

L’origine del primitivo toponimo, Nove, in uso fino ai primi anni del 1800 – in documenti napoleonici si legge Municipalità di Nove – non è documentata, come d’altra parte molti toponimi attuali; c’è stato chi lo fece derivare dal numero 9 e chi invece dall’aggettivo plurale latino novae.

 La prima ipotesi si basa sul fatto che anche Novi vanta una sua origine leggendaria, che il Capurro ci ha tramandato: certo Tolomeo Ancisa, profugo dalla distrutta Libarna, avrebbe costruito le prime nove case per i suoi nove figli (Arrigo, Timoteo, Xillo, Lidoro, Tedaldo, Manfredo, Ascanio, Timero, Guglielmo). Respinta come falsa questa tesi, che il Capurro aveva dedotto da antichi manoscritti di Ercole Spinola, il quale aveva scritto la storia della città fino al 1135, e di Paolo Serra, che l’aveva continuata fino al 1625, sul numerale c’è anche la teoria di Lorenzo Capelloni, secondo cui il toponimo deriva da nove Castelli che si sarebbero uniti nel fondarla, a somiglianza della fondazione di Alessandria, per la quale si erano uniti i villaggi del contado.

Questi castelli sarebbero stati: Castel Gazzo, Castel Busseto, S.Marziano, Vignale, S.Maria di Avignano, Castel Serra, Castel Marenco o S.Ruffino, La Motta, Castel Dragone. La mancanza della  localizzazione di alcuni di loro, la notevole distanza reciproca fra quelli localizzati e la presenza di un decimo castello sul luogo dove realmente sorse la città  rendono assai fragile anche questa teoria.

D’altra parte nei documenti compare il termine latino Novarum, declinazione dell’aggettivo Novus e non del numero che è notoriamente indeclinabile. 

Secondo il Bottazzi, Novi deriverebbe invece da una corte dell’alto medioevo collegata alla decadente romanità, chiamata appunto Corte Nuova, ma anche questa supposizione si dimostra poco sostenibile perché le località derivate da una Corte hanno mantenuto sempre l’antico toponimo, come Cortenuova, Corteolona, ecc.

Il Cavazza tenta di far derivare Novi dal termine Noue, vocabolo arcaico francese che significa pascolo paludoso, acquitrino, antico letto di fiume. È vero che l’acqua abbonda nel nostro sottosuolo, ma anche questa ipotesi appare destituita di ogni fondamento. Infatti il primo documento francese in cui la parola noue compare è del 1333, sicché si pretenderebbe che a Novi si parlava francese 200 anni prima che in Francia.

Si può quindi sicuramente affermare che il nostro toponimo derivi dall’aggettivo latino novae. Vediamo perché.

Quando nel 962 Ottone I il Grande ristabilì con i due regni di Germania e d’Italia il già carolingio Sacro Romano Impero  – che durerà fino al 1806, quando sarà abolito da Napoleone – la Frascheta, nella zona a sud di Tortona, faceva parte della Corte di Marengo, un vasto latifondo di proprietà regia, ossia dello stesso Imperatore, insieme con altre due, quella di Gamondio e quella di Corana. La Corte di Marengo sarà poi, tra il 970 ed il 973, ceduta da Ottone al Monastero di S.Salvatore di Pavia.

Dai documenti risulta che al centro di questo vasto territorio, ossia a Marengo, sorgevano gli edifici regi, mentre nella boscaglia intorno si praticava la caccia riservata per lo più al Sovrano ed ai suoi notabili. Col tempo si sviluppò l’opera di bonifica e di disboscamento, che procedette dal centro verso la periferia con l’istituzione di abitati minori, dipendenti dal più importante e più antico.

Nel territorio, oggi novese, si formò uno di questi villaggi e quando si trattò di dissodare altre terre per il sostentamento dei suoi abitanti, queste furono le ultime ad essere bonificate, trovandosi il territorio alla estrema periferia della Corte di Marengo. Poiché in latino novus significa anche “ultimo in ordine di tempo”, queste terre furono chiamate terrae novae, per cui il villaggio che vi sorse prese il nome di Novae.

Il primo documento sicuramente autentico che riguarda Novi è del gennaio 1135 ed è un trattato di alleanza con Genova e Pavia contro Tortona. Esistono altre carte con date anteriori in cui Novi viene citata, come quella del 999 per la sua donazione, insieme ad altre corti, ai Monaci di S.Salvatore di Pavia da parte dell’imperatrice poi santa Adelaide, vedova di Ottone e reggente durante la minorità del nipote Ottone III.

Non pochi storici hanno invece pensato che il primo documento accennante a Novi sia quello del 1006 con il quale Giovanni, Vescovo di Genova, dona alla chiesa di S.Siro di Genova un certo numero di terre e decime in Carrosio, Voltaggio, Gavi e Novi per compensarla della perdita della dignità della Sede Vescovile, avvenuta a favore della chiesa di S.Lorenzo.

In un altro atto notarile del 1050, stipulato nell’Isola di Tiro (o del Tino ?), compare fra i testimoni certo Albertus de Novi: non si hanno prove che il Novi del documento sia la nostra città e se così fosse sarebbe questo il primo documento in cui esso compare come è scritto oggi, il che è molto improbabile, trattandosi senz’altro di un errore dello scrivano, che avrebbe omesso la lettera finale s.

Abbiamo poi nel 1092 una bolla dell’antipapa Clemente III, che conferma ai Canonici di Reggio la proprietà di una corte situata nel Tortonese, e detta Nova: «...curtem unam in Terdonensibus, que dicitur Nova ». Gran parte degli storici ha ritenuto che questa corte detta Nova fosse l’attuale Novi ed è possibile che sia così, ma non è da escludere che si sia trattato di Castelnuovo Scrivia, che in parecchie carte medievali viene chiamata Castrum Novum.

Lo stesso dilemma si pone per un altro documento precedente, datato 5 novembre 979, riguardante il diploma di nomina di Gereberto a Vescovo di Tortona da parte di Ottone II, in cui si legge: «Castellum quoque quod dicitur novum...». Dalla differenza fra il significato medievale di Castrum e quello di Castellum, oltre ad altre considerazioni di carattere geografico, l’Allegri, confortato anche da autorevoli storici precedenti, sostiene, con una disanima interessante e verosimile, che, in questo caso, si tratta proprio di Novi. (cfr NOVINOSTRA, dic 1974 )

Quello che è certo è che la donazione dell’Imperatrice Adelaide e la bolla del Vescovo Giovanni sono state riconosciute sicuramente false o falsificate: in quei tempi coloro che sapevano scrivere erano soprattutto ecclesiasti, i quali qualche volta approfittavano della loro cultura per inventare donazioni, lasciti od investiture a loro vantaggio.

Tuttavia, questi falsi ci portano ad alcune riflessioni inconfutabili sulle origini di Novi: nessun falsificatore di documenti avrebbe spinto la sua temerarietà fino a ricorrere a località inesistenti, poiché l’inganno sarebbe saltato agli occhi anche del più sprovveduto. Quindi quei falsi, oltre agli altri documenti ricordati, anche se discussi, ci dicono in definitiva che Novi esisteva almeno già nel X secolo.

In attesa che la fortuna favorisca qualche studioso frequentatore di archivi, i quali, per quanto riguarda Novi, non sono ancora stati del tutto compulsati, accontentiamoci di ciò che abbiamo, il documento del 1135, prima citato, tuttora conservato nell’Archivio di Stato di Genova, la cui autenticità non è contestabile e che quindi risulta essere la prima pagina scritta della storia di Novi.

In esso, detto nel latino medievale la Conveniencia, si legge che un’ambasceria genovese, capeggiata da Bongiovanni Cainardo, arrivata a Novi nella chiesa di S.Nicolò, da poco edificata (non è l’attuale, ma una precedente), chiedeva ed otteneva da tutti i Novesi, poveri, mediocri e ricchi, fanti e cavalieri, abitanti del borgo e del castello, riuniti in assemblea con i loro consoli, l’approvazione del trattato concluso dalle autorità novesi con quelle genovesi.

Sull’atto, stilato dallo stesso Cainardo, sono riportati i nomi dei 5 consoli allora in carica, cioè Gherardo, Uberto della Cavanna, Alberico della Costa, Oberto Bianco, Canicola di Berengario, ed i nomi di 47 altri cittadini – le cui famiglie, nella storia di Novi, compariranno molto spesso, fino ai nostri giorni – omettendone molti altri (atque alii plures).

Nei primi decenni del sec.XII, anche a Novi si respirava un’aria “comunale”: a somiglianza di altre località, chi aveva promosso questa ondata di libertà erano stati i valvassores e i mercatores, ossia i nobili feudali, che a Novi abitavano nel castello ed avevano vincoli di vassallaggio con i signori vicini perché probabilmente venuti da Bosco e da Marengo, ed i mercanti, più in generale coloro che, accumulata una rendita agricola nel territorio circostante, si erano costruita la casa nel borgo e si erano dati ad attività non più contadine, ma artigianali e commerciali.

Novi dipendeva dalla Diocesi di Tortona, ma l’ascesa di questi nuovi gruppi aveva finito col limitare il potere del Vescovo prevalentemente al solo ambito spirituale, perché essi si erano assunti gradatamente i poteri politici-amministrativi, che fino a quel momento erano esercitati dal Vescovo: era nato il libero Comune.

A prescindere dalle considerazioni prima fatte, se nel 1135 Novi era già un comune organizzato con i suoi Consoli, la sua fondazione non era stata certo di pochi anni prima e poi, per quanto modesta, la sua importanza era tale da indurre la potente Repubblica di Genova a ricercarne l’alleanza contro un altro potente avversario.

Genova, che si era arricchita con le Crociate e con i conseguenti commerci con l’Oriente, aveva bisogno di un sicuro accesso alla valle del Po, per dirigervi la corrente dei suoi traffici. Chi le sbarrava la strada attraverso le valli della Trebbia e della Scrivia era Tortona, mentre la valle del Lemme le era preclusa dai Marchesi di Gavi.

Novi aveva raggiunto con Tortona un rapporto di sudditanza molto critico, per cui i suoi reggitori preferirono con quell’atto sottostare ad un eventuale signoria più potente, ma anche logisticamente più lontana. Da notare comunque che formalmente i Novesi cedevano il loro Castello, per metà alla Chiesa di S.Lorenzo di Genova e per metà alla Cattedrale di S.Siro di Pavia, cioè ad autorità ecclesiali e non statali.

Anche se non si ha alcuna traccia scritta, senza dubbio, come risulta dal testo, il trattato era stato preceduto da accordi preliminari presi al vertice, e che il popolo di Novi avrebbe dovuto ratificare, dimostrando così l’esistenza nella comunità novese di una forma di democrazia evoluta, sorprendente per quei tempi. Si nota poi che Genova ha mandato ,per concludere il trattato, uno dei suoi diplomatici più sperimentati: Bongiovanni Cainardo aveva infatti pochi anni prima, nel 1131, rogato una donazione del Giudice di Arborea in Sardegna, alla chiesa di S.Lorenzo ed al Comune di Genova.

Per quanto riguarda la cessione del castello, questa era più che altro simbolica, perché il suo presidio rimaneva a carico dei Novesi, i quali, occupando un edificio altrui, dovevano pagare il censo: a S.Lorenzo di Genova tre mine di fior di farina (circa 200 chili) ed a S.Siro di Pavia un barile d’olio (circa 62 litri). E qui si nota che Cainardo si è dimostrato buon genovese, perché la farina proveniva dalle campagne novesi, mentre l’olio per Pavia bisognava andare a comprarlo a Genova, che rimaneva quindi la più favorita fra i tre contraenti

La convenzione doveva durare 15 anni, ma durante questo periodo le relazioni fra novesi e tortonesi migliorarono, sicché il patto non fu più rinnovato, anzi 7 anni dopo la sua scadenza, nel 1157, dopo la distruzione di Tortona da parte di Federico Barbarossa, i Novesi promettevano di proteggere Milanesi e Tortonesi con ogni loro mezzo  e nel 1164, quando i Pavesi distrussero a loro volta Tortona, i Novesi concorsero a riedificarla.

Questa sorta di alleanza divenne unione 10 anni dopo, quando il Barbarossa assoggettò Novi a Tortona, che ora egli voleva rafforzare in seguito al mutato atteggiamento verso di lui dei reggitori tortonesi nel conflitto tra l’imperatore e la Lega Lombarda. Federico II nel 1220 confermò questa sudditanza dei Novesi ai Tortonesi, i quali, pagandola però con parecchia moneta sonante, riebbero Novi, che nel frattempo era stata occupata da Bonifacio. Marchese del Monferrato.

Nel 1232, Tortona vi edificò la torre del Castello, ancora oggi ben salda e diventata il simbolo della città. Tutto sommato furono rispettate le autonomie comunali, di cui Novi è sempre stata fiera, retta dai suoi magistrati e dalle sue leggi. La Conveniencia del 1135 intanto era stata dimenticata sepolta negli archivi genovesi.  


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