Una <storia di Genova nella vita privata> sulla falsariga di quella dei Molmenti per ciò che è di Venezia, non so se sia mai stata scritta.
Mi pare sene parlasse anni sono: qualcuno (Carlo Maria Martini?) doveva averne steso la traccia, si trattava di raccogliere gli scritti di autori diversi, per dar loro impronta e vita unitaria.
Non mancherebbe il materiale e l’interesse sarebbe vivissimo.
Uno e più capitoli andrebbero necessariamente dedicati alla villeggiatura, e avrebbe Novi un certo rilievo. I palazzi che vediamo tra le nostre vie cittadine accoglievano l’estate fino all’autunno non tardo, il fiore della nobiltà genovese, molti ancora ne portano il nome. Provate ad immaginarli senza quei negozi a terreno che in così malo modo li imborghesiscono e vedrete come sorgono austeri e dignitosi sulla mediocrità delle costruzioni circostanti.
Che facevano, come se la passavano quei signori la lunga estate fra noi? Il gioco, il ballo, la caccia, le allegre gite in campagna, e riandiamo col pensiero al Settecento, il secolo d’oro della villeggiatura. Sappiamo anche di un teatro frequentato specialmente da loro, non si pensi al <Carlo Alberto> inaugurato soltanto nel 1839, ma precisamente del teatro dell’Ospedale.
Io non mi accingo a trascrivere qui le cronache del nostro antico Ospedale <San Giacomo>.
A parte che esiste una compendiosa monografia tratta dai documenti conservati nell’archivio suo stesso, sarebbero essenzialmente non lontane da quelle di qualunque altra istituzione del genere. Si compierebbe tutto in breve dicendo: miracoli del buon volere, tesori di carità e solidarietà umana e cristiana, i più edificanti, i più luminosi; e per tutto una luce dall’alto, i soccorrimenti della Divina Provvidenza, quasi aiuto tangibile da una potente invisibile mano.
Ma sopra un particolare capitolo di questa storia vorremmo fermarci un istante: perché molti mezzi si può pensare suggerisca il bisogno e cerchi attuare la carità per sostenere una istituzione sempre povera e sempre più bisognosa, ma quello qui trovato e messo in atto potrebbe parer, se pur non è, nuova cosa.
Si tratta appunto di un teatro dell’Ospedale, costruito nell’interno dell’edificio, che fu per oltre un secolo, vivo, non so se benemerito dell’arte e della cultura, ma ragguardevole certo per l’apporto di sempre nuove energie al più e non meno vacillante organismo della nostra pietosa istituzione.
Sul finir del ‘500 i ricoverai sono più che una ventina.
Il più antico documento che possediamo è del 1450. L’investitura di vari pezzi di terra di proprietà dell’Ospedale a certo Giovanni Gatto de’ Pellegrini per il canone annuo di minas undecim frumenti pulchri et nitidi ad starium novense (lo staio novese era di litri 29,02, la nostra mina di quattro staia). Si parla di pochi infermi ricoverati in un locale a terreno affidati alle cure di un religioso che viveva di elemosine egli stesso. Un discreto passo avanti in un centinaio di anni o poco più.
Ma i redditi non bastano forse neppure per la metà del fabbisogno: quattro mila lire all’anno quante a pena se ne conta fino al primo Settecento, non sono che pochi soldi al giorno per ciascun ricoverato. Un’Istituzione dunque, come quella di un teatro, a beneficio dell’Ospedale, per quanto, ripeto, possa parer strana cosa, non torna poi tanto a sproposito se permette di arrotondare ogni anno le entrate della metà perfino dei proventi ordinari.
Sorse il Teatro dell’Ospedale (come si è già detto nell’interno della Fabbrica, perché si sa che fu più tardi trasformato in corsia) verso la fine del ‘600 e fiorì naturalmente in quella età che fu il secolo d’oro dei teatri ed ebbero gli avi nostri per essi una più o meno innocente mania.
Nel 1704 è già stabilmente affermato e soltanto nello scompiglio degli ultimi anni del secolo, quando l’econome de l’hopital dovrà accogliere i sanculotti della rivoluzione, vale a direi soldati dell’Armata d’Italia e li ricetterà precisamente nel vano della vecchia platea, dovette far tristemente sorridere, se non muovere sdegno, come un lacrimevole avanzo di un tempo tramontato per sempre.
Il teatro veniva affidato a compagnie di dilettanti, di cui purtroppo non abbiamo notizie e vi si rappresentavano nella stagione autunnale commedie e melodrammi, di qualcuno dei quali, di una Adelina per esempio, si conservano brani di partitura e frammenti.
Se amore le rende
Si triste ritorno,
tu almeno il soggiorno
men triste le fa.
Con questa arietta, più o meno metastasiana, gorgheggiata da non so che virtuoso o virtuosa, si chiudeva il primo atto dell’operetta Adelina per l’appunto.
Ora dice il Molmenti (la Storia di Venezia nella vita privata, vol. III – e si vedrà che un’istituzione del genere era cosa tutt’altro che fuor dell’ordinario) che un pubblico elegante assisteva alle accademie musicali nei circoli dei filarmonici e < più specialmente nei conservatori di musica degli ospedali, che erano ritrovi di grandi signori>. Lo stesso ci dà alcuni altri particolari: l’andazzo era quello e le considerazioni del Molmenti assumono carattere generale che si portano fare capolino, attraverso quelli veneziani del tempo, al nostro Teatro di Novi.
< Un’ora prima che si levasse il sipario si accendevano ai due lati del palcoscenico due poveri lucignoli ad olio posti in cima a due torce di legno, e un po’ di luce gettavano le candelette che alcuni, seduti in platea, tenevano in mano per leggere il libretto. Così la parsimonia dell’illuminazione cospirava all’effetto, perché in tanta oscurità meglio splendeva la scena quando si alzava la tela. Prima che finisse lo spettacolo, un attore si presentava al proscenio per annunciare quello del giorno dopo, e la prima e l’ultima sera d’ogni stagione un’attrice rivolgeva un complimento poetico agli spettatori …>
< Durante lo spettacolo le dame prendevano il caffè o il sorbetto, non smettevano mai di chiacchierare coi cavalieri che stavano intorno a loro… Si faceva silenzio al momento che qualche celebre virtuosa doveva cantare la sua aria, ma appena essa aveva finito ricominciava il baccano e il pubblico non si contentava di manifestarle la sua approvazione coi battimani…Cadevano dai palchi piogge di fiori , di fogliolini con versi entusiastici , e si videro perfino volar per il teatro colombi con sonagli al collo , messaggeri di lodi poetiche>.
Così lo scrittore ci conduce in mezzo a quella gente spensierata. Una gran tempesta si addensa sul loro capo? Nessuno ora se ne avvede. A Venezia come altrove, i tempi sono ora alquanto lieti. Il Settecento porta sorrisi e dolce vita anche nella nostra piccola semirustica Novi.
A parte queste considerazioni di carattere generale, come si diceva, c’è un <Libro Spese> del Teatro, del nostro teatro, che è una raccolta di piccole curiose notizie e illumina bene, se pur di riflesso, palcoscenico, spettacolo, attori.
Nel 1792 un certo Emanuele, macchinista, costa soldi sedici per sera; lire dodici l’olio per l’illuminazione; e soldi sedici per la bussola per la prima donna che nel suo pomposo guardinfante, o verdogale che è lo voce franco-piemontese del tempo, non può avventurarsi altrimenti per le nostre vie immerse ancora la notte di una tenebra tutt’altro che incoraggiante.
Due comparse per l’opera e otto per il ballo costano complessivamente lire tre. C è un custode e tre uomini del palco, il portinaio alla platea e al pollaio e sfilano davanti agli occhi, con il suggeritore, il capo dei balli e via dicendo, contraddistinto ognuno dal nome del proprio strumento, l’obboe, la viola il violoncello, ecc., i componenti di una di quelle orchestrine del tempo di cui il cembalo era il capo e la guida.
Teatro in piena regola dunque, con palchetti, pollaio e platea e nove soldati di guardia compreso il caporale.
Se le spese volgono complessivamente intorno a lire quaranta per sera, il profitto va crescendo di anno in anno. La sera di giovedì 12 novembre 1789 per esempio si raggiunge una delle quote più elevate. Sono lire trecentoquarantatre, né sembri poco. Un paio di scarpe, precisamente scarpine della prima donna, di raso, erano costate tre lire.
Le rappresentazioni avendo luogo in autunno, accorrevano i villeggianti della città, tricorni e parrucche genovesi. Passatempo di nobili dunque. Questo spiega fors’anche l’istituzione del teatro all’interno di un ospedale. E dà la chiave del successo.
Del resto i signori villeggianti rispondevano generosamente all’appello non soltanto con la frequenza al teatro ma con fiorite sottoscrizioni che qualche pia dama si degnava sempre raccogliere fra i suoi amici, gli incliti ospiti della città. Ecco coi più bei nomi suoi la Genova del Settecento; ecco la lista delle limosine raccolte da S.E. la Marchesa Placida Cattaneo Pallavicini (un’ava della Luigia Pallavicini del Foscolo?) per la villeggiatura del 1775; delle LL. EE. Le Nobilissime Signore Maria Saoli Spinola e Spinola Pallavicini, del 1785 ed altre assai. Scuti, rusponi, giliati, ongari, zecchini di Roma, pezzi di Spagna e via via, nella varietà e confusione delle monete del tempo, la <bussola et bassina> dell’Ospedale doveva parere fiorita raccolta di un numismatico.
Per tornare al nostro Teatro, esso, come se detto, fu trasformato più tardi in corsia, ma non definitivamente, prima del 1839, l’anno dell’inaugurazione del Civico Teatro Carl’Alberto. Il quale ha dunque un glorioso antecessore, che vive e vivrà sempre negli annali della beneficenza ospitaliera.
Ma intanto fino al 1775, le due piccole infermerie di cui si compone il nostro Ospedale sono ancora modestamente al piano terreno. Assegnate distintamente ai degenti dei due sessi, contengono ciascuna < dodici letti di tavola coi suoi cavalletti >. Sono opposte l’una all’altra, e comunicano da piede per un cancelletto con la chiesetta posta così tra le due: tutti dal letto gli infermi possono scorgere il prete officiante.
Finalmente nel 1775, si erige la così detta < Nuova Fabbrica> e i letti sono poetati da 20 a 60! Questa fu impresa davvero straordinaria, anzi un vero miracolo, ad esalta la carità dai nostri nonni, il buon volere dei nostri concittadini e benefattori.
Nel raggiungimento di questo scopo il Teatro non va dimenticato. Quando si dice la Provvidenza si serve pur dei mezzi più impensati! …
Angelo Daglio