Archivio mensile:Maggio 2024

La Pieve

Nel Cinquantenario della Parrocchia della PIEVE

 Cinquant’anni or sono S.E. Monsignor Simon Pietro Grassi, Vescovo di Tortona, elevava a Parrocchia la vetusta chiesa di Nostra Signora Beata Vergine dell’Assunta, detta Pieve di Novi.

     In occasione del cinquantenario la Società Storica Novese, certa di fare cosa gradita al Parroco, ai parrocchiani della Pieve e a tutti i Novesi che all’antica chiesetta sono sempre stati particolarmente affezionati, pubblica la versione del decreto Vescovile che in data 13 dicembre 1919 sanzionava tale elevazione.

     La Società Storica del Novese, ricordando ancora una volta a tutti la Pieve come monumento nazionale per la sua notevole importanza storica, intende anche esortare alla generosità quanti hanno a cuore le sorti della Chiesetta che, come Parrocchia, attende dalla sensibilità di tutti coloro che le vogliono bene un aiuto tangibile e concreto in modo da poter far fronte alle molte esigenze che la vita parrocchiale comporta.

Simon Pietro Grassi

Per grazia di Dio e della Sede Apostolica

Vescovo di Tortona

e Principe di Cambiò

     Nel nome della Santa e Individua Trinità Padre, Figliulo e Spirito Santo. Così sia.

     L’anno della Redenzione mille novecento diciannove, alli tredici del mese di Dicembre, del Pontificato di N. S. Papa Benedetto XV e del Nostro Episcopato anno V. E’ cosa per noi gioconda ripristinare secondo l’opportunità dei tempi nel loro decorso quelle chiese della Nostra Diocesi che primeggiano per antichità e dignità. Orbene la chiesa della Beata Vergine Maria Assunta in Cielo, situata nei sobborghi di Novi Ligure, va certo noverata tra le più antiche della Diocesi di Tortona, come può convincersene chiunque la guardi  e dal nome di Pieve, che ha ritenuto sino ai nostri giorni: erano infatti le Pievi quelle chiese antichissime, le quali, dopo data la pace alla Chiesa dall’imperatore Costantino e cresciuto il numero dei cristiani, furono costituite nei luoghi distanti dalla Sede Vescovile, chiamate anche chiese battesimali, perché ad esse bisognava recarsi da tutta la plebania per ricevere il battesimo, finché nel secolo XII invalse il costume di amministrare il battesimo anche nelle cappelle o parrocchie minori, ma con l’acqua battesimale , che nei Sabati di Pasqua e di Pentecoste si benediceva nella chiesa pievana; il rettore di questa chiesa veniva chiamato Arciprete, o Pievano; ed egli presiedeva al clero di tutta la Pievania.

Dal che rilevasi facilmente che la chiesa prefata della B. Vergine Maria Assunta in Cielo è stata anticamente la prima e l’unica chiesa battesimale a capo delle chiese della pievania di Novi.

Ora essendo avvenuto che per le guerre frequenti e per le intestine discordie non vi era più sicurezza e perciò gi abitanti della campagna si rifugiarono dentro i recinti del castello e delle città per mettersi al sicuro dalle incursioni dei nemici, quelle chiese pievane, che si trovavano in campagna aperta , a poco a poco vennero abbandonate; il che avvenne pure della Pieve di Novi, di guisa che il titolo di Arciprete fu trasferito nella Chiesa Collegiata di S. Maria situata dentro le mura, e nella chiesa pievana cessarono le sacre funzioni, come consta dagli atti della Visita Apostolica fatta nel mese di Agosto 1576 da Mons. Gerolamo Ragazzone (Vescovo di Famagosta dell’Isola di Cipro e poi trasferito a Bergamo). Nei quali atti dove si parla di Novi, sta scritto della Chiesa fuori dalla terra già Pieve, chiamata S. Maria d’Arzere: <S’accomodi et serri questa Chiesa et orni convenevolmente. Il che come prima sia fatto, a iudicio di Monsignor Ordinario si possa in essa celebrare et condurvi la processione come si solea fare anticamente>.

Ma ritornata la tranquillità si cominciò a riedificare case in campagna e, crescendo il numero di coloro che abitano in villa, era da provvedere ai loro bisogni spirituali; il che fu fatto dal Nostro Predecessore Mons. Igino Bandi. Imperocché alla istanza degli abitanti della regione Frascheta nel territorio della parrocchia di S. Pietro di Novi Ligure che la ciesa di B. Vergine Assunta in Cielo, volgarmente la <Pieve> ivi esistente fosse eretta in Parrocchiale, e sotto condizione di tale erezione donatasi dalla munifica signora Maria Fabiani la somma di L.10.000 italiane per dote della erigenda parrocchia a completamento della somma che ogni anno si sborsa dal Comune della Città di Novi per la conservazione e  l’esercizio del culto della prefata  Chiesa dalla Pieve, giusta la convenzione stipulatasi alli 20 Novembre 1869 dal Sindaco del Comune e L’Amministrazione Generale del Fondo per il Culto, con istrumento rogato dal R. Notaio Nicola Costantino Fermo Ricci, non essendo ancora sufficiente la dote per erigere la Parrocchia finché non venisse aumentata, il prefato Nostro Predecessore eresse la prefata Chiesa della B. Vergine Maria Assunta in Cielo, detta volgarmente <la Pieve>, in succursale della Chiesa Parrocchiale di S. Pietro di Novi, con decreto del 28 Febbraio 1913, con facoltà al  Rettore Curato pro tempore di amministrare ivi i Sacramenti e di fare tutto il resto che spetta a un vero Parroco e alla stessa Chiesa Succursale segnò i suoi confini.

E affinché la prefata Chiesa, volgarmente <la Pieve>, venga eretta finalmente in parrocchiale, dal Rettore della medesima Mons. Rev. Don Giuseppe Carrega venne offerta la somma di italiane L.3.000 e una pezza di terra, coerente alla piazza di essa chiesa, della superficie di quattro pertiche del valore di L.4.000 in aumento di dote.

Visto pertanto il consenso dato dal Rev.mo Capitolo della Nostra Chiesa Cattedrale alla erezione in parrocchiale della prefata Chiesa succursale;

Noi a norma del canone 1427 del Codice di Diritto Canonico e invocato il SS.mo Nome di Gesù Cristo Signor Nostro e della B. Vergine Immacolata; d’autorità Nostra Ordinaria e in ogni altro miglior modo col presente decreto dividiamo e smembriamo del tutto dalla parrocchia di S. Pietro di Novi la Chiesa di Beata Vergine Maria Assunta in Cielo , volgarmente <la Pieve>, situata nei sobborghi della città di Novi Ligure; ne la erigiamo e costituiamo in Parrocchiale e come eretta e costituita la vogliamo e dichiariamo, di guisa che concediamo alla medesima tutti i diritti e privilegi che di diritto competono alle chiese parrocchiali.

I confini della nuova parrocchia saranno i medesimi che vennero fissati dal Nostro Predecessore nel citato decreto delli 28 febbraio 1913.

Esoneriamo il parroco dall’ossequio verso le chiese di S. Pietro e della Collegiata di S. Maria stabilito nel decreto del 28 febbraio 1913 non essendo decoroso che quella chiesa, la quale è stata madre delle altre, sia in alcun modo soggetta alle medesime; e togliamo al rettore della Collegiata il diritto di fare la funzione dell’Ottava di Pasqua nella chiesa parrocchiale nuovamente eretta per la stessa ragione.

Rinnovando l’antica denominazione, la chiesa della B. Vergine Maria Assunta in Cielo, volgarmente < la Pieve>, si chiamerà Arcipretura senza però alcuna preminenza sulle chiese dell’antica pievania, e il Rettore di essa Arciprete.

Vogliamo e sanzioniamo che queste cose abbiano valore in perpetuo.

Dato in Tortona nell’anno, mese e giorno come sopra.

                        All’originale firmato: SIMON PIETRO vescovo.

                        Controfirmato: Can. VINCENZO LEGE’ Canc. Vescovile.

Articolo tratto da Novinostra n.3 – 1963 di Nilde Cima


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Francesco e Nicolò Girardengo

PICCOLA GALLERIA NOVESE

 Non tutti i residenti a Novi che passano in via Girardengo sanno chi sia il personaggio che dà nome ad una via tanto importante per la città da essere considerata la <nobile> tra le vie, un po’ come, fatte le dovute proporzioni, la celeberrima via Veneto di Roma e la non meno famosa via Montenapoleone di Milano.

     Quattro passi i Novesi vanno a farli in via Girardengo, altrimenti la passeggiata non avrebbe senso, così pure, se si devono incontrare degli amici, l’appuntamento è fissato senza altro in via Girardengo. La domenica poi la via Girardengo è gremita di folla vestita a festa che, quasi sfilasse su una passerella di alta moda, va con sussiego e contegno in <su> verso piazza Collegiata, e in <giù> verso porta Pozzolo; poi ancora in <su>, verso le falde del glorioso <Castello> e in <giù> verso l’aprirsi della vasta pianura padana: con un po’ di fantasia si potrebbe pensare che la via Girardengo, tagliando in due la <vecchia Novi> , congiunga idealmente  i lembi marginali del boscoso Appennino e della fertile pianura del Po.

     Ma quanti tra gli abitanti frequentatori di via Girardengo saprebbero dire chi è il Girardengo cui è intitolata la via? La maggior parte probabilmente è convinta che si tratti del campione del pedale, Comm. Costante, di cui Novi vanta i natali e che ha entusiasmato con le sue ben note imprese ciclistiche tutto il mondo sportivo.

     Ma sulla tavola marmorea della via il nome non è Costante, bensì Nicolò, sotto il quale sono riportate più in piccolo la qualifica di <tipografo> e una data in cui certamente le biciclette non si sapeva ancora che cosa fossero. Non si hanno notizie biografiche sicure su Nicolò Girardengo, si sa tuttavia che fu affiancato nella sua attività di tipografo da un Francesco Girardengo, con ogni probabilità suo fratello, e che entrambi dal 1479 fin verso la fine del secolo prestarono la loro opera successivamente nelle tipografie di Pavia, di Venezia, di Genova e, in proprio, in quel di Novi, associandosi nel loro lavoro ad altri tipografi come Antonio Carcano di Milano e Fra Cavallo Carmelita.  

     Erano tempi quelli in cui l’arte tipografica era ai suoi primi passi e in alcune città italiane, come Subiaco, Roma, Venezia, Milano, Pavia, Genova, e nella nostra piccola Novi, iniziavano la loro prima attività le prime rudimentali tipografie sotto la guida di appassionati pionieri.

     Da Nicolò Giuliani, autore di <Notizie sulla tipografia ligure sino al tutto il secolo XVI>, si apprende che in data 22 luglio 1490 a Venezia fu finito di stampare un Breviarium romanorum per Nicolaum Girardengum, registrato dal duca Cassano Serra come un <bell’ esemplare impresso su pergamena con eleganti miniature>.

     Sempre secondo il Giuliani, contemporaneamente a Nicolò appare un Francesco Girardengo che pubblicò parecchie opere in Pavia e in Venezia, tra cui <Pontani Ludovici consilia> del marzo 1485, <Nicolai Siculi Lectura> dell’aprile 1486 e, soprattutto una <Summa Baptistiniana> dell’aprile 1489, che il Capurro afferma accresciuta rispetto a quella di Nicolò stampata a Novi nel 1484. Anche il Giuliani conferma l’asserto del Capurro scrivendo che Nicolò pubblicò nel 1484 la <Summa Baptistiniana> della quale si hanno parecchi esemplari qui in Genova>. Una copia si trova nella Biblioteca Civica di Novi ed un altro esemplare sembra si trovi nel Museo Storico di Londra.

     Il Prof. Gian Franco Capurro, sotto lo pseudonimo <Giovanni da Novi>, pubblicò nel 1850 sul giornale <Il Provveditore di Novi> delle osservazioni su Nicolò Girardengo riportando, tra le altre cose, i quindici versi latini le cui lettere iniziali formano l’acrostico <Baptista de Salis>, il frate autore della <Summa Baptistiniana>.

     In Venezia Nicolò stampò altri libri, tra i quali i <Fioretti di San Francesco> nel 1480 e il < Breviarium  secundum consetuetudinem Romanae Curiae>nel 1481, tenendo con molto onore il campo negli annali della tipografia veneziana e lombarda.

     E’ giusto quindi che la via principale della nostra città sia intitolata a Nicolò Girardengo perché così si ricorda e si onora degnamente il più famoso dei nostri due concittadini che cinquecento anni orsono si distinsero nella nascente arte tipografica e tennero alto il buon nome della nostra Novi.

                                                                           Carlomagno Parodi

Articolo tratto da Novinostra n.1 – 1963


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Pietro Lagostena – colloquio

 Quattro chiacchiere con lo scultore

                Cav. Pietro Lagostena

     Alla <Porta Genova>, sotto l’ombra del campanile di Sant’Andrea, nella casa del nonno < Fachetnabi>, nasceva, il 16 maggio 1877, Pietro Lagostena. Nella calma serena di Novi di fine ottocento trascorse i primi anni della sua infanzia, correndo in frotta con i suoi coetanei negli angusti e famigliari viottoli che si aprivano di botto sulle antiche mura prospicenti la <Faiteria> e la collina della <Perassa>.

Venne poi l’età degli studi ed il piccolo Pietro fu convittore prima a Sarzana nel collegio dei Somaschi, quindi studente ginnasiale nel nostro Collegio San Giorgio. Le sue spiccate attitudini al disegno e all’arte fecero sì che a sedici anni si iscrivesse all’Accademia <Ligustica> in Genova, a poco più di vent’anni frequentasse la <Scuola del Nudo> in via Ripetta a Roma e, successivamente, l’Accademia di Firenze.

     A venticinque anni sposò l signorina Rachele Montarsolo di Genova e si stabilì nella sua città natale fissando dapprima la sua dimora in via Cavour (angolo via Girardengo), dove attualmente ha la sede il Banco di Roma, poi in via Pietro Isola. Nel frattempo avviò un operoso laboratorio di marmi e scultura. Dopo pochi anni, per svincolarsi dalle noiose discussioni economiche e dagli stucchevoli legami contrattuali, chiuse il laboratorio e tenne aperto uno studio privato, continuando la sua intensa attività artistica ed insegnando per sei anni nella Scuola d’Arte e mestieri di Alessandria. Conosciuto ed apprezzato come artista, fu poi più volte chiamato lontano dalla sua città: tra l’altro fu ospite nella Villa dei Signori Demicheli a Galliera Veneta (Padova); affrescò a Olgiate Molgora (Milano) la villa del Marchese Sommi Picenardi, presidente del Veloclub d’Italia; venne spesso invitato da nobili famiglie genovesi ad affrescare palazzi sontuosi, a congegnare pregiati cofanetti e portagioie, a disegnare efficaci caricature, a modellare busti e gruppi in marmo ed in gesso.

     Si dimostrò sempre all’altezza della stima che giustamente gli veniva concessa, animato da un’indomabile passione, da un’erompente carica di dinamismo e da un genuino desiderio di libertà d’espressione artistica che lo resero un ecclettico, al punto che scherzosamente l’Ingegner Guerci di Alessandria, in una lettera spedita al caro amico Pietro, indirizzava <al falegname, al fabbro, al muratore Lagostena> 

      Ora il Lagostena, presidente onorario della Società Storica del Novese, ha compiuto da poco ottantacinque anni, ma continua, con lo stesso immutato ardore giovanile e con una ferrea volontà, alimentata dalla vivida fiamma della passione, la sua estrosa attività perfezionata da una lunga esperienza e da una felice ispirazione che ha conservato la zampillante freschezza degli anni verdi.

     E con briosità giovanile ci ha accolti pochi giorni or sono quando, recatici da Lui per ammirare il suo studio – laboratorio, abbiamo ascoltato dalla sua viva voce la presentazione delle sue numerosissime opere, i ricordi lasciati in Lui dalla lunga esperienza di vita e le opinioni sui giovani artisti del nostro tempo.

     <Quali sono i lavori che lei ritiene più importanti e più significativi?>

     I lavori per l’arista sono tutti belli, sono gli altri che ci devono dire se sono veramente ben riusciti. Comunque tra i lavori che più mi hanno dato soddisfazione ricordo il busto in marmo di Mariano Dellepiane che si trova nell’atrio dell’Ospedale San Giacomo; lo avevo rifinito con paziente meticolosità e avrei voluti che lo ponessero sulla sua colonna all’altezza di un metro e mezzo circa, proprio perché si potessero vedere i minuti particolari delle rifiniture stesse; invece fu posto, con mio comprensibile disappunto ad una altezza di circa quattro metri.  Nel cimitero di Novi poi sono molteplici le mie opere: citerò soltanto le cappelle delle famiglie Rebora, Bassano, Bovone, Mantero, Foggi, Cattaneo, la <Pietà> nelle cappelle delle famiglie Cavanna e Parodi, e tre tombe con la Crocifissione la Morte e la Resurrezione. Anche a Genova nel cimitero di Staglieno, portico Montini, ho alcuni miei lavori che hanno riscosso i favorevoli consensi di autorevoli persone competenti. A Galliera Veneta ho scolpito, in pietra dei Colli Berici, il monumento alla Quarta Armata; esso raffigura la Vittoria che protegge la resistenza dei vecchi e stanchi soldati sul Piave e che guida l’avanzata degli animosi giovani del ’99 dopo Caporetto; fissato nel basamento del monumento stesso c’è il medaglione in bronzo del Generale Giardino, comandante dell’Armata del Grappa e presente all’inaugurazione.

     Nel 1922 alla Fiera di Milano mi fu affidato il compito non facile di preparare il padiglione dell’Abruzzo che fu ultimato prima di tutti gli altri. Mancavano pochi giorni all’apertura inaugurale della Fiera ed il padiglione della Mostra sembrava essere ancora in alto mare; allora presi l’iniziativa, mi feci regista e <factotum>, mi rimboccai, come si suol dire, le maniche e mi tuffai nell’ardua impresa: poche ore prima della cerimonia di apertura tutto era a posto e sistemato. Le Autorità si congratularono con me… ma che momenti! … L’anno successivo eseguii nel giro di due mesi tutti i lavori di architettura e di decorazione dell’Esposizione di Castellamare Adriatico. Molti altri ricordi si affollano nella mia mente, ma vi menzionerò soltanto per brevità il Monumento ai Caduti eretto a Pozzolo Formigaro, i busti in marno nell’Asilo di Casa Borsalino, nel Sanatorio, nella Casa di Riposo, il nudo mutilato nella Casa dei mutilati di Alessandria e il monumento dei Mirabello posto all’ingresso dell’Ospedale di Tortona.

     Tanto per finire citerò l’altare col gruppo di S. G. Bosco; ma ancora molto potrei aggiungere; dirò soltanto che per l’albergo Corona ho progettato, disegnato, ricreato con artigiani novesi mobili e ferri battuti.

     <Abbiamo notato che la sua casa, tanto all’interno quanto all’esterno, ha una caratteristica tutta sua e che è un po’ una mostra dei suoi lavori di indubbio pregio. Che cosa ci può dire in proposito? >

     Io ho un po’ la mania della casa che per me è una specie di sacrario; la mia casa rispecchia in un certo senso il mio linguaggio artistico: l’ho costruita, l’ho ritoccata e rinfrescata con lo stesso amore con cui un bambino coccola il suo giocattolo preferito. Per lei ho sempre avuto un culto profondo e da lei mi sono staccato, ogni volta che ne fui, per così dire, costretto, molto a malincuore. Pensate che nel 1906, in seguito ad un bozzetto in concorso, venne a Novi il console di Montevideo per convincermi ad accettare la carica di direttore di una scuola della capitale uruguaiana: ebbene non accettai per rimanere a Novi.

     Qui nel mio studio vedete ora molti lavori: lì è un gruppo di gesso di fedeli raccolti intorno a Pio XII benedicente; quella è la Madonna degli Angeli che protegge col suo materno manto due fanciulli e che porta in braccio il Bambino. E poi ecco i ritratti dei miei genitori, dei miei fratelli, teste e busti di amici. Quello lassù è il bassorilievo fatto nel 1900 per l’Esposizione di Parigi; fu mandato all’Accademia e ricevetti una lettera di elogio e d’incoraggiamento dal ministro della Pubblica Istruzione. Poi ancora vedete là la statuetta di San Bartolomeo, il gruppo di pescatori, il partigiano, il soldato tedesco, il soldato inglese nelle tipiche divise dell’ultimo conflitto mondiale.

     <Ha conosciuto artisti della sua epoca e del primo novecento?>

     In primo luogo ricorderò i miei ottimi insegnanti Sansebastiano e Viazzi, ai quali debbo molto; poi il coetaneo Giovanni Prini, deceduto nel marzo di quest’anno,  lo scrittore genovese Pasciutti; il pittore futurista Balla che attraversò critici momenti di ristrettezze economiche ; il pittore Mussini, fattosi frate per delusione amorosa; il vispo caricaturista Sacchetti che a Firenze frequentò con me l’Accademia; mi piace ricordare lo scrittore e poeta Giovanni Papini che nel caffè <Gambrimus> di Firenze sostenne con me vivaci discussioni sull’arte dello scultore francese Rodin in voga e di moda. A Roma infine, socio effettivo dell’Artistica Internazionale, nel 1901 conobbi vecchi e giovani artisti tutti <lottatori> per le nuove tendenze; Direttore di turno era il conterraneo Giulio Monteverde.

     <Che cosa pensa degli artisti moderni?>

     Non ho molto da dire e non vorrei essere troppo severo nel mio giudizio: noi certi lavori li mettevamo in soffitta. La mia critica è perciò poco lusinghiera e piuttosto negativa.

.****.

     Quante cose ha detto e confidato il Cav. Lagostena! Forse avremmo indovinato se avessimo portato un nastro di registrazione per fissarle tutte senza lasciarcene sfuggire qualcuna.

     Ad ogni modo abbiamo capito che il nostro artista è più che mai intenzionato a continuare la sua attività a dispetto della considerevole età a che in lui sono ancora fortemente sentiti l’entusiasmo e lo slancio artistico che lo hanno reso tanto apprezzato.

     Accomiatatoci dal simpatico ospite, il nostro sguardo si è posato su una scritta murale situata nell’entrata dell’abitazione, che ci pare sintetizzi con molta efficacia l’essenziale dello spirito e del mondo del Lagostena:

     <Gli artisti sono uomini che precedono gli altri; vanno innanzi e additano il sentiero; si voltano indietro e si trovano soli … Questi grandi, questi infelici solitari …>.   (F. Cavallotti)

  RENATO GATTI

 (Articolo tratto da Novinostra anno 1963 n.3)  


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Storie di Porta Genova

L’invito     
VENE, SE TI PO’… Vieni. se puoi, può sembrare lì per lì la frase più banale di questo mondo, ma potrebbe riserbare invece amare sorprese qualora un bello spirito, giuocando non tanto sull’ambiguità del suo significato letterale, quanto e più ancora sul modo di pronunciarla, per esempio, indugiasse sul …SE TI PO’!

PICCOLA GALLERIA NOVESE

Questa frase ebbe un tempo il suo quarto d’ora di celebrità, e ne vedremo il motivo, a causa di una vicenda non a tutti nota nei suoi particolari, vicenda che ebbe origine tanti anni fa nell’antica Osteria del Moro, che come sappiamo, la Famiglia del Dini Perolo, all’insegna di una ricciuta testa di negro, gestiva nell’allora Via del Funghino.
Siccome rispecchia il senso umoristico di un’epoca, ci piace qui ricostruirla, riportandone alla ribalta personaggi ed ambienti che da tempo sono ormai scomparsi.
Via del Funghino? Domanderà qualcuno. Si chiamava proprio via del Funghino la strada che collega via Paolo da Novi a via Gramsci, cambiò in seguito la targa e divenne via Verri quale doveroso omaggio ad un venerato medico novese, per trasformarsi ancora negli ultimi anni nella odierna via Don Minzoni, però, anche se Osteria ed insegna siano da parecchio scomparsa, quella via era ed è ancora per moltissimi novesi: a contrò deé Moru.

(illustrazione di Pietro Lagostena)

  L’Osteria del Moro era dunque l’ambiente in cui i protagonisti della nostra storia si incontravano quasi tutti i giorni e se uno di essi, il Merlo, non ha bisogno di particolari presentazioni, perché egli è sempre quello del <Processo>, l’altro, invece, richiederà maggior attenzione da parte nostra, perché è appunto a causa dei suoi <deboli > che nacque il bisticcio che portò alla conclusione che vedremo.

     Quest’<altro> era un uomo dalla statura superiore alla media, tarchiato, faccia larga e sanguigna, baffi spioventi, collo taurino ben piantato sulle robuste spalle, per cui dimostrava essere persona ancora più energica e decisa malgrado avesse già oltrepassata la sessantina di qualche anno.

     Si chiamava Alignani di cognome, un parentado allora assai diffuso, però era meglio conosciuto come  <Fighiséin>, e ciò per il fatto di essere egli proprietario di un cascinotto che per le sue numerose piante di fico da cui era circondato , era detto, la <Fighisina>, una specie di bicocca posta sulla strada di Gavi poco fuori Porta Genova, ed egli abitava con la sua <Cesca>  sua legittima consorte, Fighisèin faceva di mestiere il sensale di bozzoli e granaglie, ma da giovane era stato in Russia con Napoleone, soldato di quella Armata d’Italia resasi famosa per la strenua difesa del Ponte sulla Beresina.

     Egli fu tra i pochi scampati e bisognava sentirlo quando raccontava le sue prodezze e le sue disavventure; comunque fosse, si sentiva fiero di aver appartenuto a quella gloriosa schiera di soldati che l’Imperatore chiamava suoi Eroi, ma che in pretto novese Fighiséin traduceva in Erùi!

     La medaglia di bronzo sormontata dalla corona imperiale che alla morte di Napoleone aveva ricevuto, la ostentava bene in vista appesa alla stanghetta della catena dell’orologio, quale segno tangibile della sua distinzione come vecchio <Grognard> dalla Grande Armée!! Ecco dove stava il suo maggior <debole>.

     Un’altra di queste piccole manie, di questi <deboli>, era dato dal fatto di chiamarsi Alignani, una casata cui si voleva discendesse dagli antichi Signori di Santa Maria degli Avignani, (2) uno dei presunti Nove Castelli che diedero origine alla nostra Città. Si sentiva quindi nientemeno che pronipote dei fondatori di Novi, roba da fargli gonfiare il petto solo a parlarne!

     Il Merlo che conosceva queste piccole <debolezze> di Fighiséin non osava, col suo spirito caustico, prenderlo direttamente a gabbo come era solito invece farlo con altri perché temeva la reazione piuttosto aspra di quest’ultimo, perciò le sue battutine le lanciava a debita distanza, in sordina, cercando di colpire il bersaglio solo di rimbalzo, soddisfaceva ugualmente il suo istinto che era quello di pungere a tutti i costi il prossimo.

     Quando al <Moro> per esempio, Maséin èè Carbunéin, noto cronista del <Carlo Alberto> rivolgendosi con l’indice teso verso Bughé intonava l’aria dell’allora famoso  duetto dell’ATTILA… <Dove l’eroe più valido è traditor spergiuro…> e quest’ultimo, nei panni di Ezio, sfoderando la sua squillante voce tenorile gli rispondeva fieramente … < Finché ad Ezio rimarrà la spada sarà salvo il gran nome romano…>, il nostro Fighiséin a quei sonori accenti si sentiva rinascere l’ardore dei vent’anni e, dimenandosi sulla sedia, non poteva trattenersi  dall’esclamare: I sènti cmè chi porla i’ erùi!

     Era allora che Merlo col suo fare scanzonato sommessamente mormorava al vicino del tavolo: Ti u sàinti èè fondatù id Nove? Erùi, erùi, saimpre erùi… ma u nu sà che a Nove, u vo di sbògli! L’erù d’Napulèon?! Ma l’erù d’Napuleuon l’è Lè, otru che eroe!!

     Naturalmente Fighisèin, non vivendo sulla luna conosceva perfettamente questi ed altri giochi di parole che il Merlo usava nei suoi riguardi, era logico quindi che ad un certo momento cercasse il mezzo migliore onde poterlo ripagare con la stessa moneta. Questo intento però egli voleva raggiungerlo con una trovata, da far epoca, che avrebbe dovuto far chiudere il becco al Merlo, definitivamente, almeno nei suoi riguardi. Non solo al <Moro> ma tutta Novi doveva riderne! Si trattava comunque di un compito non facile, il Merlo era una vecchia volpe, perciò occorreva circospezione ed astuzia e in questa occasione Fighisèin cercò di non essere inferiore all’avversario.

     Era noto che la ricorrenza di San Michele Arcangelo, Santo patrono degli Alignani, usasse richiamare nella Chiesa di San Pietro tutti i capi famiglia maschi della casata e come, dopo la Messa celebrata nella Cappella dedicata al Santo, questi si riunissero per la ripartizione dei redditi maturati su un antico lascito della casata stessa

     Si sapeva pure che Fighisèin per questa occasione era al solito offrire alla Fighisina, ai suoi piccoli nipoti ed ai cari amici, ciò che di meglio la sua Cesca era capace a sfoderare in fatto di arte gastronomica, perciò nulla di strano se la sera precedente il San Michele egli, al <Moro>, ne parlasse diffusamente con gli amici indugiando, con una certa compiacenza, a descriverne le pietanze.

    Ad un’estremità del tavolo ov’erano seduti, il Merlo ascoltava con occhi socchiusi da gatto soriano, mentre con i gomiti appoggiati sul tavolo, le mani sotto il mento sorreggevano la pipetta di gesso che nervosamente stringeva tra i denti, quando ad un tratto, con la massima naturalezza, Fighisèin gli si rivolge e…: Merlù ti u se che San Michè lé per mi na gran giurnò, vene anche ti a cà mè, a fèmu na bèla rigusia… (1) … ma, se ti pò!… naturalmàinte sulu se ti po’!.. t’è capì?!.

     Il Merlo che aveva inteso parlare di una sfilata di piatti uno più appetitoso dell’altro, pur sorpreso dall’inatteso invito, rimase per qualche istante esitante ma finì per cedere, e …bròv Fighisèin, a vénu propiu in cu piasài, ti mè dmàndi sa posu? …ma anche sa fusa sàinsa gambe!… e con questa frase l’accettazione fu completa.

    All’indomani, al giusto scoccare del mezzogiorno, il Merlo è alla Fighisina e … Toc, Toc… batte alla porta. Dalle fessure dell’uscio, invitante messaggero, traspira un vero odore <id tucu in cu i fonzi>… al nostro uomo si cominciano a dilatare le nari, lo stomaco avverte uno strano languore, mentre un moto involontario della gola gli provoca certi movimenti pregustatorii facilmente intuibili, perciò… Toc…Toc…con più impazienza! Dall’interno giungono rumori di passi e mormorii di voci … ma la porta rimane inspiegabilmente chiusa!

     Ad ud un tratto è invece una finestra del piano di sopra che si apre, e chièlu?… chiede affacciandosi Fighisèin … ah, te ti Merlu? bròvu, bròvu … te statu id parola, ven pura, ma se ti po!

Il Merlo che non ha ancora afferrato il vero senso della frase, obietta interdetto: Ma Fighisèin… se t’i levi èè frugiu daa porta cma fàsna a gni?

     < Mi to ditu, replica Fighisèin che ti veni se ti po! e mantegnu a parola… SE TI Pò VENE !?!?… èè parlò d Nove caro mio è traditure… t’in lè ancù capia l’antifuna?!… at salùvu… merlu!… e qui il nostro Fighèsin, calcando volutamente sul doppio senso della parola <merlo> chiudeva definitivamente discorso e finestra.

     E’ pacifico che quel giorno, se il Merlo volle calmare quel tal languorino di stomaco, dovette ricorrere alle buone grazie di Manin del Moro, però aveva fatto, per sé e per gli altri una esperienza nuova e cioè che … <Vieni … se puoi!> non è invito da accettarsi tanto ad occhi chiusi!

                                                                     Ettore Repetto

  • Rigusia: nel vecchio dialetto di Novi sta per Allegria, Festa
  • Avignani: si trasformò in seguito in Alignani

(Articolo tratto da NOVINOSTRA, anno 1963)


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